In uno scritto raccolto nel volume Cruciverba, Leonardo Sciascia coglieva, con la sua solita tagliente e amara lucidità, l’aporia dell’essere siciliani, l’atmosfera congetturale di un’isola che si presta da sempre ad essere metafora non solo dell’Italia e del carattere (tra scetticismo e illusione direbbe Leopardi) degli italiani, ma anche di una condizione “metafisica” che (com’è di una visione che va dal pensiero magnogreco dei presocratici fino alle vertigini del barocco mediterraneo) viene vissuta fin nel concreto della carne, del sesso, del sangue. Scrive Sciascia:

[Il “modo di essere” siciliano] altro non può essere che apparenza, che illusione, una così indefettibile continuità, una così assoluta refrattarietà alla storia di quella parte della realtà umana che chiamiamo Sicilia, che pure è situata nel crogiuolo della storia. Ma il fatto è che questa apparenza, questa illu­sione, sorge dalla realtà siciliana, dal “modo di es­sere” siciliano: e dunque ne è parte, intrinsecamente. (Sciascia 1989, pp. 965-1282).

 

Il “modo dell’essere” siciliani, cioè, si riversa in una indistinzione tra verità e congettura, tra realtà fisica e illusione metafisica. Sempre, nell’ambiguità fertile della letteratura e dell’immaginario siciliano, questa attitudine bilica tra grottesco e tragico, tra risata cosmica e comica e ghigno terribile e mostruoso. Insomma tra commedia (filosofica) e tragedia (rituale). Una tale fabula è stata tradotta nel cinema di Roberto Andò fin dal suo esordio (Il manoscritto del principe, 2000) che tracciava un ritratto “in piedi” di Tomasi di Lampedusa, via via configurandosi su due versanti, entrambi “sciasciani”: l’indagine poliziesca nei “misteri” esistenziali e civili, il “gioco” ironico del vero e del falso, del doppio, della maschera e del volto.

Se nei primi film il “giallo metafisico” e i risvolti psicoanalitici erano determinanti, i toni “beffardi” e acri della commedia nera e del grottesco hanno preso piede, almeno dai due film interpretati da Toni Servillo: Viva la libertà (2013) dove la metafora del “trono vuoto” del potere e la riflessione politica e civile si traduceva nei codici “classici”, goldoniani, del commedico con l’equivoco dei due gemelli, uno stanco di essere “serio” e savio e l’altro divertito della sua recita di “filosofo pazzo”, e Le confessioni (2016) dove il mistero metafisico, le geometrie simboliche, l’ambiguità dell’incontro tra alta finanza e trame politiche con l’impenetrabilità quasi zen di un monaco certosino, dal simbolico nome di “Salus”, componevano un labirintico intrico non esente da una funambolica e amara ironia.

Andò è un regista e un intellettuale, uno scrittore e un uomo di teatro, un “affabulatore”, e il suo essere immerso in una temperie culturale profondamente “siciliana”, e “palermitana”, e proprio per questo forse, “internazionale”, cosmopolita, aristocratica eppure intensamente partecipe di un impegno lucido, etico rispetto al nostro vivere civile, lo rendono un esempio singolare nel panorama del cinema italiano contemporaneo. Uno scrittore come Sciascia fu suo “mentore” e si allinea a una serie di “lezioni” civili e artistiche che hanno formato lo sguardo di Andò: Francesco Rosi, Federico Fellini, Michael Cimino. Gusto della costruzione labirintica e visionaria e insieme lucidità civile, curiosità caparbia di capire e raccontare il lato “in ombra” dell’Italia, di guardare il mondo da quel microcosmo “segreto” e fascinoso, da quel “triangolare” prisma che è la Sicilia.

In Una storia senza nome (2018) è come se tutto ciò entrasse in gioco, appunto come un ludus, come un gioco, un rompicapo, un forsennato meccanismo a scatole cinesi in cui il cinema stesso, il metalinguaggio del cinema, diventa motore di una sorta di divertissement dai toni tragici. Commedia beffarda, nella definizione di Andò, il film riprende, con gusto citazionista, i modelli commedici, non solo del grottesco italiano, in particolare Germi, ma anche dei toni di  certi  “gialli rosa” americani (Tashlin, Donen, Edwards) in cui il meccanismo della “trama” e le sue circonvoluzioni producevano una imbricazione degli spazi, delle performance attoriali, dei ritmi narrativi e visivi, che questo film riprende.

Ma tutto è come inscritto nel paradosso congetturale dei “segreti di stato”, dei misteri civili, delle ambiguità politiche. Nella loro “terribilità”: a partire dalla cosiddetta “trattativa”. Perché la storia vera che dà spunto al film è tutta documentata ma sembra provenire da un racconto di Borges/Casares, da quei “casi” polizieschi e metafisici che risolveva il detective-carcerato Don Isidro Parodi, quando da una prigione argentina era capace di risolvere i crimini, circondato da improbabili, grotteschi, ridicoli e inquietanti personaggi. Palermo, ricordiamolo, è il quartiere di Buenos Aires dove è nato Borges, e lo scrittore argentino è uno dei riferimenti più amati da Sciascia: la poliedricità citazionale nel film (anche del cinema italiano, della gloriosa commedia nostrana di cui si riprendono battute e situazioni) è come al solito in Andò raffinata e divertita.

La “realtà romanzesca” del fatto avvenuto a Palermo è il furto di una tela di abbagliante bellezza, commesso nottetempo 50 anni fa in un oratorio barocco palermitano. Viene rubato un Caravaggio, una “natività” di inestimabile valore. Che il quadro fu fatto sparire dalla mafia e che questa sparizione dall’ignoto destino (custodito sul fondo di una piscina nella tenuta di un capomafia, forse fatto a pezzi e dato in pasto ai porci oppure calpestato da Totò Riina nelle sue nervose passeggiate in cella) sia diventata arma di ricatto, “casella vuota” di scacco allo Stato, nell’interminabile partita tra crimine e istituzioni, è fatto emerso negli anni. Ma il fatto è che questa storia che ha dell’incredibile sia perfetta per un film, un film nel film.

Valeria Tramonti (Micaela Ramazzotti) è una “ghostwriter”, lavora per una casa di produzione e scrive le sceneggiature (premiate ai festival) di un celebre scrittore di cinema, cialtrone e donnaiolo, Alessandro Pes (Alessandro Gassmann). Un giorno un investigatore in incognito, Alberto Rak (che Renato Carpentieri interpreta con l’usuale maestria, pensando forse al sornione e disincantato Ingravallo del Pasticciaccio di Gadda) gli “fornisce” una storia, un plot perfetto per il cinema e, come un “occulto” addestratore, la mette sulla pista di un intrigo in cui Valeria si invischia sempre di più, naturalmente braccata dalla mafia che (meglio di un critico cinematografico) è stata capace di “leggere tra le righe” di questo film da farsi, che scoperchia il labirintico verminaio, la tela infinita del ragno che continua ad essere intessuta tra palazzi del potere e organizzazione criminale (“il denaro non ha odore” e la stessa mafia è tra i finanziatori del film nel film).

Il rocambolesco e saettante intrigo tra gag e inghippi, equivoci e stratagemmi, ha appunto il sapore di certi perfetti meccanismi “giallorosa” (Ramazzotti, che dissimula una carica erotica dietro gli occhiali da miope e si trasforma da remissiva scrittrice frustrata a felina seduttrice, ricorda Audrey Hepburn in Sciarada, e il film stesso ha l’andamento di un altro film di Donem, Arabesque). Si tratta di  congetture, “ipotesi di un quadro rubato” (come recitava un affabulatorio, e borgesiano, film di Raoul Ruiz), gioco cruciverbico. Il “cruciverba”, sciasciana metafora, è fatto di parole e nomi propri “incrociati”.

E qui Andò riprende, in chiave grottesca, l’ambiguità drammatica e polanskiana del suo secondo film Sotto falso nome (2004), dove uno scrittore famoso, maniaco della riservatezza firma i suoi romanzi con uno pseudonimo, salvo ad essere ricattato per un presunto plagio. Il gioco delle identità, i “sanzanome” e i “falsi nomi”, ma anche la “teoria” dei doppi (indicativa la carrellata sui volti di una serie di anziane gemelle che guardano in macchina durante un provino del film nel film), slittano nel “metacinema” (il regista che viene ingaggiato e di cui vediamo le riprese è un grande cineasta, e perfetto attore, pieno di ironia e sarcasmo, Jerzy Skolimowski).

Noi stessi spettatori ci ritroviamo riflessi nel finale in una sala cinematografica a guardare scene che un attimo prima appartenevano a uno dei “livelli” di finzione, in compagnia degli stessi attori-doppi del film. Mentre sullo schermo si squarcia uno spazio bianco e vuoto, il posto del “quadro rubato”, e sui titoli di coda ci guardano i putti carnosi e candidi scolpiti da uno straordinario artista barocco siciliano, Giacomo Serpotta. «”Per lei, vedo, la bellezza non ha niente a che fare con la verità.” “La verità è nel fondo di un pozzo: lei guarda in un pozzo e vede il sole o la luna; ma se si butta giù non c’è più né sole né luna, c’è la verità”», scrive Sciascia in Il giorno della civetta (1989, p. 479)

Bellezza, verità, falsità, orrore: idee terribili, ma incarnarle in una “commedia beffarda” è questione di equilibrismo. Su questo tagliente “filo del rasoio”, su questa “pazza” corda tesa, Roberto Andò passeggia con disinvoltura, sorridendo (come disse Vincenzo Consolo di Sciascia) “fra l’enigmatico e il divertito”. Un sorriso simile a quello di un altro celebre quadro che ha a che fare con la Sicilia, il “sorriso” dell’ignoto marinaio di Antonello da Messina. Un sorriso che, dalla Sicilia come metafora, ci interpella, ci interroga, ci mette in gioco.

Riferimenti bibliografici
J.L. Borges, A. BioY Casares, Sei problemi per Don Isidro Parodi, Adelphi, Milano 2012.
L. Sciascia, Cruciverba, in Id., Opere 1971-1983, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1989.
Id., Il giorno della civetta, in Id., Opere 1956-1971, a cura di C. Ambroise, Bompiani, Milano 1989.

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