Maneggiare Franzen non è impresa semplice. Romanziere tra i più influenti della sua generazione, sensibile interprete dei tempi moderni, tra i più abili a mettere al centro del magistero artistico la caducità fallace della condizione umana (con un peculiare grandangolo non solo allo svilupparsi della storia ma anche alla sarcastica vivisezione della complessa psicologia dei personaggi che la abitano), la sua prosa rifugge la dimensione autoreferenziale e speculativa di molti autori statunitensi per ripristinare una sorta di paradigma nel quale lo sviluppo della vicenda torna a essere prioritario, e non solo il pretesto per elucubrazioni introspettive, quasi una sorta di new deal letterario che, recuperando dal passato, stabilisce senza se e senza ma una nuova modalità del raccontare. Crossroads esce a sei anni da Purity, mantenendo la cadenza ragionata alla quale lo scrittore ci ha da tempo abituato. Non aspettatevi il postmodernismo castigatore de Le correzioni e nemmeno la corrosiva epifania caustica che aveva caratterizzato Libertà.
Ciò nonostante nel suo nuovo romanzo Franzen imbandisce una mise en place succulenta nella quale la teatralità dell’impianto torna a essere al centro della tensione narrativa, con la coralità ancora una volta protagonista di una storia di disgregazione familiare colta nel momento della sua implosione, dai prodromi della crisi, già evidente nelle prime pagine, alla sua detonazione.
Gli Hildebrandt, intorno ai quali si agita un universo di personaggi collaterali ma che riescono nel contempo a guadagnarsi un loro baricentro, diventano quasi una sorta di rappresentazione ironica del disfacimento del sogno americano, sempre in bilico tra rispetto della moralità, quasi codificata per legge, e l’ingovernabilità della vita, che come una spada di Damocle pende minacciosa sulle loro teste inducendo tentazioni alle quali è difficile rinunciare. E nell’ambientazione vintage dei primi anni settanta, diventa proprio questo il leit motiv che governa lo schizofrenico succedersi degli eventi.
Un’umanità che vorrebbe essere proba ma che, complice la rivoluzione culturale e (soprattutto) sessuale postsessantottina, si trova ad avere a che fare con il peccato che si propone nella sua forma più seducente, quella della liberazione dai vestiti stretti della morale imperante a favore di un nuovo ordine dove la libertà di comportamento e nuove forme promiscue di socialità diventano regole da assecondare con lussuriosa e disinibita ingordigia.
Mentre la religione, che come una cappa sovrasta in modo sinistro tutta la narrazione (Russ Hildebrandt è pastore nella chiesa di First Reformed a New Prospect, Michigan), nel tentativo di liberarsi della sua grevità e alla ricerca di un compromesso impossibile con l’oramai tracimante movimento hippy, rivela la debolezza strutturale di un dogma trovatosi all’improvviso anacronistico e incapace di reinventarsi, deragliando in quelle contraddizioni sempre più evidenti tra precetto e realtà che la rivoluzione culturale iniziata nel decennio precedente ha spazzato via lasciando solo disillusioni e macerie.
Le sei linee narrative del racconto (che seguono i bilanci esistenziali fallimentari dei coniugi Hildebrandt e il percorso di crescita dei loro quattro figli, Clem, Becky, Perry e Judson) si muovono con grande abilità tra romanzo di formazione e acuta riflessione sulle incertezze dell’età adulta, con lo sguardo indulgente di uno scrittore che non giudica ma rappresenta, e lo fa con sensibilità e comprensione verso l’inadeguatezza dell’umano agire.
Ma ancora una volta sono lo stile e la sopraffina qualità dei dialoghi, brucianti, mordaci, perfetti, a fare la differenza e a porre Franzen come un caposcuola che è già canone di una letteratura, quella americana, che nel ventunesimo secolo mostra uno stato di salute invidiabile e capace come nessun’altra di individuare gli stigmi del terzo millennio facendoli diventare presupposti per trasformare il minimalismo delle storie, spesso piccole, improntate alla quotidianità, in grandiosi affreschi sui paradossi del contemporaneo, non venendo mai meno allo sguardo benevolo sulla nostra impossibilità di essere quello che vorremmo ma che (inevitabilmente) non riusciamo a essere.
Un romanzo da leggere, da rileggere, ma soprattutto da centellinare con calma, fermandosi quando è necessario, e incalzando i tempi quando la vicenda prende accelerazioni che vanno doverosamente assecondate. Un illuminante esempio di scrittura da parte di un inarrivabile maestro capace, come pochi, di trasformare la parola in esperienza sensoriale e il plot quasi un futile pretesto per parlare d’altro ammaliando la platea con strabilianti funambolismi lessicali. Non venendo mai meno a quanto il patto con il lettore, doverosamente, stabilisce. Storia intrigante, empatia con i personaggi, appeal stilistico. E una qualità di affabulazione che diventa, a ogni riga, ghiotta occasione di godimento assoluto.
Jonathan Franzen, Crossroads, Einaudi, Torino 2021.