Il concetto di critica d’arte nel Romanticismo tedesco è la monografia con la quale il giovane Walter Benjamin, nel 1919, pone il sigillo ai suoi anni di studio universitari. Il testo, finora conosciuto dai lettori italiani all’interno delle Opere complete di Benjamin edite da Einaudi, è da poco stato pubblicato come libro autonomo, nella nuova edizione curata da Nicolò Pietro Cangini per i tipi di Mimesis.
Nel suo saggio Benjamin, entro un’ottica “filosofico-storico-problematica” (Benjamin 2017, p. 43), compie un’analisi della concezione che i primi romantici – in particolare Friedrich Schlegel, letto spesso attraverso la lente di Novalis – avevano della critica d’arte.
La critica d’arte, per i primi romantici, è non già giudizio valutativo, di carattere precipuamente negativo, e soggettivo: essa è piuttosto esplicitazione, esposizione prosaica, della struttura immanente propria dell’opera.
L’attività artistica, per questi pensatori, non si configura come l’azione privata di una soggettività che crea secondo il suo proprio arbitrio, rincorrendo una fantasia sregolata. L’arte è, piuttosto, infinita mediazione riflessiva tra due poli, che giungono ad auto-consapevolezza e ad estrinsecazione reciproca in un costrutto superiore che dell’attività riflessiva è concrezione. L’arte è il medium della riflessione, che mette in una connessione infinitamente intercorrente il polo del soggetto e quello dell’oggetto: nello svolgersi di una simile riflessione si ha una moltiplicazione infinita, un sempre rinnovato rispecchiamento della riflessione stessa in molteplici modi diversi.
Nel nodo suddetto è da rinvenire il punto dirimente della questione: il critico romantico fa venir meno i vincoli esteriori – o legalistici, quali erano dettati dalla critica d’arte illuminista – del dogmatismo, che guarda alle opere d’arte classificandole in una sequenza ordinatrice pedissequa, estranea al senso ed all’essenza peculiare delle opere stesse. Egli invece mira a schiudere l’idea dell’arte nell’opera singola, e nel far ciò non dimentica mai la determinatezza di quest’ultima. Non può dimenticarla, giacché è proprio la considerazione pura della struttura immanente dell’opera che consente al critico romantico di annullare quelle leggi esteriori ed inessenziali che la considerazione razionalistica dell’arte impone alle opere – costringendole in una staticità arida ed infruttuosa. L’unico criterio che il critico romantico, nella sua attività, riconosce, è quello “di una struttura determinata, immanente all’opera stessa” (Benjamin 2017, p. 99).
I primi romantici pensano e praticano la critica come un’attività che riesce a far emergere, rispettandola, l’autonomia dell’arte. Muovendosi in tal senso la critica romantica non agisce solo nei confronti del dogmatismo oggettivistico – dissolvendone i legami fittizi – essa agisce parimenti, e con uguale energia, su ogni atteggiamento scettico, che riduce l’arte ad arbitrio del singolo, a creazione irrimediabilmente soggettiva: e di conseguenza valutabile esclusivamente secondo il giudizio insindacabile della prospettiva non mediabile dell’individuo. Osserva Benjamin che è stato un fraintendimento della “critica del XIX e del XX secolo” aver inteso come soggettivo il concetto romantico dell’arte, e come “un mero sottoprodotto della soggettività” (p. 99) le leggi spirituali dell’arte.
La critica d’arte è dunque per i romantici un agire immanente all’opera stessa, che si estrinseca infinitamente ed insieme in modo regolato (prosaico, essi dicono) entro l’opera, e non su quest’ultima, a partire da un punto di vista sopraelevato, distaccato rispetto all’opera, ed in ultima istanza neutralizzante.
Nella critica romantica la struttura immanente dell’opera d’arte viene rispettata, e l’opera d’arte costituisce di tale critica, immancabilmente, il centro propulsivo ed originario, l’orientamento e la direzione di volta in volta ripresa entro una dinamica qualitativamente infinita.
Al contempo la critica può far emergere tale struttura immanente dell’opera solo trasformandola. La critica non può mai porsi in una posizione contemplativa che lasci l’opera così come è, la deve anzi alterare, vale a dire: deve portare l’opera a compimento. Se l’oggetto della critica d’arte fosse già compiuto di esso non potrebbe darsi conoscenza: ma la critica, per i romantici, può realizzarsi solo in quanto essa è un’attività conoscitiva.
La critica d’arte, per i primi romantici, si muove secondo l’infinito moltiplicarsi della riflessione nell’arte, ed è dunque essa stessa infinita: non nel senso – precisa Benjamin – di un infinito procedere a-qualitativo, inteso come accrescimento continuo in vista del progresso, lungo un tempo vuoto; bensì nel senso di un procedere che si muove in accordo all’idea di un compimento sempre possibile. Tale compimento è sempre possibile e sempre non ancora realizzato (in questo senso è qui sotteso, esplicita Benjamin, il messianismo romantico): esso va pensato in rapporto ad ogni singola opera d’arte e insieme in rapporto all’infinità qualitativa dell’idea dell’arte – entro la quale ogni singola opera è trasportata. La critica romantica è dunque “da un lato compimento, integrazione e sistematizzazione dell’opera, dall’altro, il suo scioglimento nell’assoluto” (p. 105).
Per Schlegel e Novalis dunque la critica d’arte agisce intimamente all’interno dell’opera, e la modifica rimanendo in sintonia con la struttura interna di essa: “la riflessione coglie proprio i momenti centrali, universali dell’opera”, “la critica, nel suo svolgimento, non dovrebbe far altro che dischiudere le segrete disposizioni dell’opera, eseguire i suoi celati propositi” (p. 97). La struttura interna dell’opera, in quanto sua legge intrinseca, si rivela essere per i romantici la stessa “autolimitazione della riflessione” (p. 104). Questi spiriti, osserva Benjamin, aprono in tal modo, per la prima volta, alla concezione “di un formalismo non dogmatico, libero” (p. 104). I primi romantici elaborano dunque un concetto di critica come attività non valutante, non giudicante; non negativa ma positiva, e trasformatrice: un’attività sempre interna alla dinamica che struttura in modo immanente l’opera.
Attraverso il concetto di critica d’arte dei primi romantici Benjamin suggerisce – e qui l’interpretazione benjaminiana di questi pensatori si mostra come densa di suggerimenti preziosi per la nostra attualità – di guardare alle opere d’arte, nell’esercizio critico, secondo una prospettiva in grado di estrinsecare di tali opere la struttura interna, immanente. Vale a dire entro una dinamica capace di far sprigionare all’opera la sua sensatezza: cosa che, paradossalmente, può originarsi proprio da uno sguardo capace di riconoscere la peculiare oggettività che dell’opera è propria. Rispettare l’ossatura oggettiva ed insieme propulsiva – mai statica – dell’opera d’arte, potrebbe forse, nella critica odierna, preservare dalla riduzione dell’attività critica ad esercizio puramente soggettivo, a rischio di autoreferenzialità, e narcisismo. La prospettiva proto-romantica, e, si può a questo punto dire, benjaminiana, apre quindi ad una critica d’arte che non si espliciti come gioco fatuo, retorico. Ed insieme, separando nettamente il concetto di critica da un giudicare valutativo basato su categorie-etichette estrinseche al loro oggetto, tale prospettiva fa emergere in tutta la sua energia il potenziale riflessivo e trasformativo che in ogni opera è insito, potenziale che si sprigiona nell’attività critica e nella sua ricezione, dove la comprensione ed il sentimento che il fruitore ha dell’opera vengono accresciuti, elaborati qualitativamente, approfonditi, forniti di un’integrazione di senso, resi più mossi e complessi.
Bibliografia di riferimento
W. Benjamin, Il concetto di critica d’arte nel romanticismo tedesco, a cura di N. P. Cangini, Mimesis, Milano 2017.
Id., Il dramma barocco tedesco, Einaudi, Torino 1999.
Id., Sul concetto di storia, Einaudi, Torino 1997.
Novalis, Opera filosofica I, Einaudi, Torino 1993.
Id., Opera filosofica II, Einaudi, Torino 1997.
F. Schlegel, Frammenti critici e poetici, Einaudi, Torino 1998.