All’inizio c’è il corpo, quindi all’inizio c’è il corpo dell’altro. In effetti se vogliamo provare a rispondere alla domanda, antica quanto la stessa specie Homo sapiens, “che cosa significa essere umani?” (potremmo usarla come definizione biologica: è umano quel vivente che, diversamente dagli altri viventi, si pone la domanda su quale sia la “propria” specifica natura umana) non possiamo che partire dalla constatazione che non esiste corpo umano se, prima di quel corpo, non esisteva un altro corpo umano che si sia preso cura di lei. Ma questo vale per ogni vivente, si dirà, una formica è figlia di un’altra formica, e una quercia deriva da una ghianda generata da un’altra quercia. Ma il corpo umano, per essere umano, non deve solo nascere da un altro corpo umano, da un corpo di donna; questa “prima” nascita non basta a rendere umano quel corpo, occorre una “seconda” nascita, una nascita che rende quel corpo propriamente umano. In questo senso non si nasce umani, si diventa umani. All’inizio, allora, c’è una particolare relazione umana che, ricorsivamente, umanizza il corpo dell’infans. È allora la relazione umana, che rende umani. Ed è la relazione al centro del libro di Vittorio Gallese (neuroscienziato) e Ugo Morelli (psicologo), Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente (Raffaello Cortina Editore, 2024): «Perciò, mettere al centro la relazione significa arrivare alla soggettività individuale partendo dalla relazione. Se partiamo dalla relazione, dobbiamo partire dal corpo, quindi da un concetto performativo, pragmatico e agentivo dell’essere umano, che si individua e diviene sé stesso grazie alla relazione» (ivi, p. 20).
Che cosa significa, propriamente, «un concetto performativo, pragmatico e agentivo dell’essere umano»? Che il corpo umano, appunto, non è da subito e immediatamente umano, e che quindi non solo la soggettività umana non esiste al di fuori delle relazioni con le altre soggettività, ma che – e questa è una tesi più forte di quanto possa sembrare – la soggettività umana è un effetto dello stesso processo di soggettivazione. È la prassi soggettivante che soggettivizza i corpi umani. Ma siccome questa prassi è prima di tutto una prassi sociale, allora questo significa che l’umanità del corpo è, in realtà, all’esterno del corpo in corso di umanizzazione: infatti «la relazione precede l’individuazione e configura una dimensione del noi nella quale si individua il soggetto. […] Da tanti “io” che pensavamo di essere ci accorgiamo di derivare dai “noi” di cui siamo parte» (ivi, p. 10). Un “noi” che, visto che stiamo parlando di corpi e quindi di entità materiali e situate (un corpo sta qui o là, sta sempre da qualche parte, non esiste un corpo disincarnato), è molto più ampio del solo insieme degli umani; nel “noi”, in realtà, rientra il mondo non umano, il mondo animale, il mondo vivente, ma anche il mondo non vivente. Questo significa sottolineare il primato della relazione, che non solo non è mai esistita una soggettività separata dal “noi”, ma soprattutto che non può esistere una soggettività umana separata dal mondo non umano. All’inizio c’è il corpo, allora, ossia all’inizio che il “noi” degli altri corpi. Ma che significa, propriamente, che all’inizio c’è il corpo? Non c’è comunque un corpo, un corpo individuale? In realtà il corpo non è altro che un insieme di relazioni, sensoriali, affettive, viventi con il resto del mondo. Il corpo è esso nient’altro che un insieme di relazioni. Il corpo stesso è relazionale:
Per un modo tuttora prevalente di guardare all’umano, quello che pone al centro il cogito, il movimento servirebbe solo a portare in giro una macchina che cogita; secondo questa logica fallace, il cervello motorio è ridotto al semplice ruolo di promuovere la deambulazione di un’intelligenza disincarnata. In questo modo la dimensione materiale del corpo si sfarina fino a diventare un algoritmo, un processo estremamente astratto modellato comunque sul solito linguaggio. Come ci è successo più volte di ascoltare dalla viva voce di colleghi, c’è chi obietta alle evidenze sperimentali sulla rilevanza del movimento per la nostra cognizione ed esperienza del mondo, sostenendo che "se è motorio non può essere cognitivo, e se è cognitivo non può essere motorio”. Per quanto banale e infondata, questa obiezione però è figlia di secoli di tradizione secondo cui se l’uomo è il cogito, l’uomo è pensiero (ivi, p. 27).
Ma se il corpo è relazione, allora l’essere umano, prima di essere pensiero, prima di potersi pensare come un puro cogito e separato, non può non essere un corpo esposto al mondo, ossia agli altri corpi. Il cogito, allora, non è il punto di partenza, semmai un sempre mai davvero raggiunto punto di arrivo. Piuttosto di assumere la soggettività umana come originaria, occorre allora parlare del difficile (difficilissimo per Jung) processo di individuazione: «Pensiamo che il processo di individuazione che permette di distinguere l’io dal tu non possa che provenire da uno spazio noicentrico originario» (ivi, p. 56). All’inizio c’è il corpo, appunto, all’inizio c’è il “noi”; per questo quella che chiamiamo «intersoggettività […] coincide in grande misura con la nascita della stessa individuazione relazionale e individuale» (ivi, p. 95).
All’inizio c’è il corpo, ancora una volta, un corpo affatto relazionale, sempre in contatto con il mondo. Tuttavia, e a questo paradosso Gallese e Morelli non si sottraggono, questo stesso corpo arriva, se il processo di individuazione riesce, a pensarsi come separato dal corpo; che cos’è infatti il cogito – il soggetto pensante – se non un corpo che pensa di poter esistere indipendentemente da quello stesso corpo che gli permette di pensare? Se l’infans, come la formica e la quercia, prima di tutto è un corpo, ossia coincide con il corpo, il cogito, al contrario, ha un corpo; ma si può avere solo ciò con cui non si coincide:
Noi umani siamo un corpo e contemporaneamente abbiamo un corpo: questo in fondo è il busillis da cui partire, perché l’animale non umano, per quanto ne sappiamo, è il suo corpo ma non sa dire di averlo. Il fatto di averlo significa che, come ce l’hai, puoi non averlo e puoi perderlo con la morte. Non avere, quindi, è una specificazione che solo il linguaggio può fornire, e che consente di prendere le distanze da sé stessi. È come guardarsi dal di fuori e questo ha a che fare soprattutto col narrarsi; la narrazione è uno dei modi per crearsi, uno dei modi per inventarsi e per divenire sé stessi definendo un rapporto stretto fra narrazione e individuazione (ivi, p. 24).
In effetti il linguaggio umano, e a quanto se ne sa solo il linguaggio umano, permette non solo di parlare del mondo, come fanno tutti i linguaggi animali e non animali, ma permette soprattutto di parlare di sé stessi a sé stessi. Torna qui quanto Gallese e Morelli dicevano all’inizio, la natura performativa della soggettività umana. In un verbo performativo, come ad esempio “battezzare”, l’effetto dell’azione coincide con l’azione stessa, come quando il prete battezzando un infans lo accoglie nella comunità cristiana, e quindi letteralmente lo rende un corpo cristiano. Allo stesso modo il soggetto umano dicendo sé istituisce sé stesso come una soggettività capace di parlare di sé. E perché il piccolo umano dice sé? Perché il “noi” che lo precede lo ha (da prima ancora che nascesse) detto come sé, prima ancora che sapesse di poter essere un sé. In questo senso il corpo soggettivato, il corpo che dice di avere un corpo, è un effetto dei discorsi, prima sociali poi individuali, in cui quel corpo è sempre implicato: in effetti «noi siamo in gran parte linguaggio. Il problema è capire che il linguaggio non è un punto di partenza, ma semmai un’emergenza evolutiva. Il linguaggio lo si ritrova a ogni livello, anche se solo ci si chiede come siamo arrivati al linguaggio. “Corpo”, “relazione”, “mente”… sono tutte parole; lo stesso vale pe “sé” o “altro da sé”, per “soggetto” e “io”. Anche quando parliamo di naturalizzazione, quindi, non possiamo certo mettere tra parentesi il linguaggio» (ivi, p. 23).
Vediamo qui la curiosa natura del linguaggio, che è allo stesso tempo uno dei principali, se non il principale, agente di umanizzazione degli animali della specie Homo (non ancora sapiens), ma è anche il più importante fattore di allontanamento di quello stesso corpo dalla relazione con gli altri corpi, e quindi dalla relazione con il mondo. Ma che cosa significa allontanarsi dal mondo relazionale, dal mondo del “noi”, se non disumanizzarsi, dal momento che “natura umana” non significa altro, in fondo, che natura relazionale? Che animale è, l’animale umano, l’unico animale capace di allontanarsi dal corpo?
Se, come scrivono nelle Conclusioni Gallese e Morelli, nella specie umana «natura e cultura» vanno intese «come due entità interconnesse e in continua evoluzione» in cui «la natura fornisce le basi per la cultura, ma la cultura, a sua volta, può influenzare la natura» (ivi, p. 275), non si può tuttavia non osservare come il dualismo natura-cultura (e quindi fra umano e non umano, fra “io” e “noi”) forse è più forte dei tentativi – e sempre più diffusi – di superarlo. Quella soggettività che ad un certo punto si pensa separata dal corpo, cioè si pensa come cogito, e che si riferisce al corpo come al “suo” corpo (un modo di dire terribile che usano senza accorgersene anche i più intransigenti antidualisti), non smette, in realtà, di pensare a sé stessa come un qualcosa di separato e indipendente dal “noi”. In questo senso il dualismo non comincia con Cartesio, e tantomeno con il cognitivismo disembodied, ma comincia nel momento stesso in cui un animale ha cominciato a dirsi “io”. «Non possiamo non fare i conti col linguaggio» (ivi, p. 23) scrivono Gallese e Morelli, il problema forse è che il linguaggio non smette di fare i conti con noi.
Vittorio Gallese, Ugo Morelli, Cosa significa essere umani? Corpo, cervello e relazione per vivere nel presente, Raffaello Cortina Editore, Milano 2024.