Inoltrandosi nel teatro shakespeariano, e nella sua storia performativa, ci si imbatte in una verità che il buon senso dovrebbe farci considerare consolidata per molti testi della tradizione drammaturgica: ovvero che esiste uno Shakespeare sulla pagina che non coincide con quello che vediamo tradotto sulle assi del palcoscenico o sugli schermi delle sue rimediazioni (i passaggi da un medium all’altro). Eppure, la validità di questa intuizione sembra vacillare ogni qualvolta si annunciano, specie in Italia, adattamenti che si allontanano dalla lettera del testo scritto o propongono quelle che con un po’ di sospetto sono definite attualizzazioni (parola tabù per i puristi del Bardo, che sono rimasti anche gli ultimi a chiamarlo così), che tradiscono lo spirito dell’originale. Il sottinteso malcelato deve essere, immagino, un’implicita accusa di blasfemia rivolta a chi si reputa superiore all’insuperabile arte shakespeariana al punto da modificarla. Insomma, come vi viene in mente di avere tutta questa libertà al cospetto del genio? Chi o cosa vi autorizza a modificare la sua parola?

Sono questioni tanto più interessanti se si pensa che il teatro shakespeariano era tutt’altro che fondato sulla preminenza della parola scritta o stampata, né tantomeno sull’esaltazione della genialità, estranea al mondo inglese cinque-seicentesco, piuttosto ostile, per motivi religiosi, nei confronti delle pretese umane di invenzione. Come tutte le imprese economiche (Shakespeare stesso diventerà azionista del Globe), il teatro shakespeariano aveva altre priorità, e tra queste compiacere patroni e potenti (si pensi alla lettura provvidenziale dell’ascesa dei Tudor per omaggiare Elisabetta I), fare cassa alternando alle rappresentazioni teatrali combattimenti di orsi e galli, competere con le compagnie rivali e sfruttare i temi più alla moda per inseguire i gusti del pubblico, un po’ come succede oggi con i “filoni” delle serie tv. Così le histories di Shakespeare si spiegano, per esempio, con l’ossessione tutta elisabettiana per la narrazione storica dopo la Guerra delle due Rose; Otello con la morbosità per le tragedie domestiche di corna, segnale di un’instabilità del modello femminile percepito come minaccioso.

E, ovviamente, non mancavano per esercitare un certo appeal sul pubblico richiami più o meno diretti alla vita pubblica contemporanea, per esempio agli scontri tra cattolici e riformati, rievocati dall’allusione al Complotto delle Polveri in Macbeth, e dal fantasma purgatoriale del padre di Amleto. Più in generale, è ampiamente riconosciuto che, nella ripresa di miti, novelle italiane o cronache storiche, Shakespeare rielaborasse trame e personaggi per avvicinarli al gusto e alla sensibilità morale del pubblico, ma soprattutto per costruire una visione estetica del teatro e dell’arte risuonante con lo Zeitgeist.

Ciò che si profila è un teatro le cui dinamiche di produzione e gestione assomigliano al nostro presente molto più di quanto non rispecchino la monumentalizzazione che ne è stata fatta – peraltro a scopi soprattutto nazionalistici – nell’Inghilterra Sette-Ottocentesca, complice l’affermarsi della concezione romantica di autore e, in seguito, lo sviluppo del metodo filologico moderno. E allora: è compito della nostra contemporaneità essere fedele a questa cristallizzazione a posteriori (che comunque porta con sé un’idea del teatro e del letterario non consonante né con quella Cinque-Seicentesca, né con quella contemporanea) o allo spirito di libertà, di uso e riuso creativo dei materiali, di manipolazione estetica e se si vuole anche assiologica delle forme e dei contenuti del teatro shakespeariano?

Forse nessun’opera come Romeo e Giulietta, portata in scena di recente da Mario Martone, si presta meglio ad approfondire queste riflessioni. Romeo e Giulietta presenta una certa problematicità già a partire dal testo che abbiamo ereditato. Senza entrare nel merito della filologia shakespeariana, ci basti ricordare che del testo esiste un’edizione a stampa cattiva del 1597 (un bad quarto, dovuta a qualche attore o spettatore assoldato per memorizzare il testo di una rappresentazione in vista di un’edizione non autorizzata), che presenta buchi e imprecisioni ma anche molte didascalie, utilissime a documentare la messinscena vera e propria; e una buona edizione, del 1599, per lungo tempo considerata la più affidabile perché più corretta e completa, e per questo ammantata dell’autorevolezza del copione d’autore (anche se recentemente è stata ritenuta invece una redazione posteriore alle messinscene). È questa la versione che è stata tradizionalmente editata, tradotta, usata per gli adattamenti a teatro, peraltro spesso integrata con le didascalie della prima redazione, dando vita a una costruzione verosimilmente mai andata in scena in questo modo.

Che il testo fosse pensato per la stampa e non per la scena lo dimostra il tasso altissimo di letterarietà, che da sempre ha rappresentato un aspetto ingombrante per la messinscena, al punto da giustificare sin dai primi adattamenti dell’opera tagli pesanti al testo (le più eclatanti sono forse la follia di Giulietta nell’ossario ai vv. 4, 3, 14-58 e il pianto funebre rituale di casa Capuleti ai vv. 4, 5, 19-64). Tagli legittimi, che nascevano dall’esigenza di riportare il testo a una sua efficacia drammatica prima che drammaturgica, o meglio, di inventare una sua efficacia drammatica, di cui si conservavano solo poche tracce documentarie.

Quanto al tentativo di inserire richiami alla sfera pubblica contemporanea, già nel poema di Arthur Brooke, The Tragicall Historye of Romeus and Juliet (1562), che rielaborava la novella italiana di Bandello ed è la fonte principale di Shakespeare, erano stati inserite critiche ai sacramenti cattolici in linea con la propaganda riformata dominante; così come c’è chi ha visto nelle risse della città di Verona un richiamo ai “London Riots”, i disordini che avevano sconvolto Londra alla fine del Cinquecento. Ma anche l’opposizione tra petrarchismo (Romeo) e antipetrarchismo (Mercuzio) è un rimando a un codice condiviso della cultura elisabettiana, non presente nelle fonti, che Giulietta reinventerà sottraendosi al modello sociale e poetico della donna ritrosa (per questi aspetti, rimando alla mia edizione dell’opera appena uscita per Rizzoli-Bur).

Essere fedeli a Shakespeare significa dunque portare in scena ciò che la tradizione, più filologica che teatrale, ci ha tramandato come inalterabile, o adottare fino in fondo il suo metodo di rielaborazione e invenzione, che riscontriamo in tutta la tradizione performativa del suo teatro? È significativa, infatti, nel caso di Romeo e Giulietta, la libertà con cui i drammaturghi – anche laddove era già cominciata la costruzione di Shakespeare come mito nazionale – hanno rielaborato il finale (e non solo) dell’opera. James Howard, nella sua produzione del dramma nel 1660, decise di rappresentare a giorni alterni una versione tragica e una comica, con il lieto fine, per non dispiacere nessuno. Thomas Otway, a fine Seicento, faceva svegliare Giulietta un attimo prima che Romeo morisse, e David Garrick, a metà Settecento, concedeva agli amanti addirittura un ultimo dialogo, interrotto dalla morte improvvisa di Romeo che aveva dimenticato di aver già preso il veleno. Per non dire della libertà dell’americana Charlotte Cushman, che nel 1837 ripristinò il finale dell’opera, interpretando lei stessa la parte di Romeo (con grande successo) mentre la sorella impersonava Giulietta.

Nel Novecento, com’è noto, è successo di tutto e di più: si sono ampliati i contesti culturali, e non solo occidentali, di adattamento dell’opera, ma soprattutto si è imposta la figura del regista-interprete che rivendicava una piena autorialità e una libertà di sperimentazione, sin dalle avanguardie, rispetto a un testo giustamente percepito come instabile, permeabile, in progress. I presupposti erano ovviamente diversi, ma è stata in fondo un’altra tappa, si direbbe, di una lunga storia di tradimenti non ancora conclusa; un’attestata sequela di atti di hybris che hanno sfidato da un lato lo spauracchio romantico del genio inarrivabile (che ancora resiste) e dall’altro il feticismo di una purezza da difendere in nome di criteri ottocenteschi di autorialità. Per il tempo a venire, non resta che augurarsi che continuino a moltiplicarsi i tentativi di rivitalizzare la stessa sostanza di cui è fatto il teatro shakespeariano, poeticamente fondato su spazi immaginativi aperti alla libertà di rielaborazione e all’invenzione, alla sensibilità del presente e a nuove visioni del mondo e dell’arte.

Riferimenti bibliografici
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