Ricche, profonde e articolate appaiono le Correzioni heideggeriane di Eugenio Mazzarella, maestro di studi internazionali sul pensatore di Meßkirch, per i tipi dell’editore Neri Pozza (2023). La data di pubblicazione non deve ingannare: gli otto studi di cui si compone la raccolta coprono un arco temporale che va dal 1987 al 2021 e testimoniano, tutti assieme, di un sicuro radicamento in anni fondamentali per il confronto di Mazzarella con Heidegger, ma al contempo di un altrettanto sicuro e costante confronto in anni recentissimi. Si avverte, lungo tutta la raccolta, non soltanto l’eco dell’ampio sforzo interpretativo avviato a suo tempo con Tecnica e metafisica (1981, 2021) e proseguito, tra l’altro, con il sondaggio delle «prospettive ontiche dell’ontologia heideggeriana» in Ermeneutica dell’effettività (1993), ma anche la disamina e la presa di posizione sui cosiddetti «quaderni neri» affidate a Il mondo nell’abisso (2021) e soprattutto la definizione di un’autonoma linea di pensiero, fattasi sempre più nitida in Vie d’uscita (2004), L’uomo che deve rimanere (2017), Perché i poeti (2020), Colpa e tempo (2022), affiancandosi, da molti anni, all’esercizio in proprio di una voce poetica, ovvero di una parola poetante che si estende fino al recentissimo e notevole Cerimoniale (2023).
C’è però un’altra apparenza che non deve trarre in inganno, ed è precisamente quella che potrebbe fuorviare, prima ancora di impegnarsi nella lettura, a cagione del titolo stesso del volume. Con la brevità che si conviene a queste annotazioni, è bene mettere in guardia dall’ascoltare queste «correzioni» – peraltro sempre plurali, come ammonisce il titolo – nel senso debole, e tutto sommato peregrino, di limature e ritocchi (per lo più scolastici) a quel corpus di discorsi che continuiamo a chiamare «Heidegger», ma anche, e soprattutto, nel senso fallace di rettifiche e revisioni, che da un lato metterebbero da parte, senza confrontarsi con essi, temi e momenti dell’intero cammino di pensiero di Heidegger, e dall’altro resterebbero del tutto esterni ad esso, giacché rinuncerebbero, fin dal principio, alla possibilità di mostrare, all’interno di esso, ciò che è ancora vitale o promettente, e soprattutto di pensare, certamente, al di là di esso, eppure proprio per, e solo dopo, aver a lungo pensato – ovvero continuando ancor oggi a pensare – in esso, con esso, grazie ad esso. Molto di questo cooperante contributo al direzionamento di uno sguardo prospettico è presente, indubbiamente, nello sforzo compiuto da Mazzarella, che è quello di preservare al contempo l’unitarietà del percorso-discorso heideggeriano (senza facili adesioni e per così dire senza sconti alle sue debolezze e ai suoi passaggi più irrisolti), ma anche di testimoniare un’incessante possibilità di rinnovamento dal suo stesso interno e, per tal via, di presa sul nostro presente: su ciò che noi siamo e che possiamo, eventualmente, continuare ad essere, o a non smettere di voler essere.
Tra i campi nei quali si esercitano le molteplici correzioni, ossia l’articolato correttivo, di Eugenio Mazzarella, ci sono non soltanto storia, metafisica, ontologia (per riprendere i termini di un altro suo importante volume del 1987, dal quale non a caso è tratto il contributo di apertura della raccolta, che è una magistrale ricostruzione dell’eredità diltheyana operante in Heidegger e del destino non confessionale e non dogmatico di una «filosofia cristiana»), ma anche vita, personalità, autenticità, solitudine, dipendenza e poi ancora morale, politica, psicoanalisi, comunione, cura. Tema, quest’ultimo, tra i più approfonditi e vagliati dal lavoro di scavo e di recupero dello Heidegger di Essere e tempo in un orizzonte ampiamente successivo al capolavoro del 1927, all’insegna di un tentativo di mostrare l’attualità e la polivalenza di questo tema così capitale dell’analitica dell’esistenza anche nel rapporto odierno col mondo – con il mortale e con il non mortale nell’età della tecnica –, così come viene declinato soprattutto dallo Heidegger degli anni ’50.
Questa rapida rassegna di parole d’ordine è naturalmente ben lungi dal rappresentare in modo adeguato la ricchezza e anche l’innovatività delle analisi che animano una raccolta che oltrepassa le trecento pagine. Non potendo qui restituirne l’impianto, nemmeno per sommi capi, sia consentito soffermarsi su un altro di quelli che Mazzarella inserisce tra i «nuclei più controversi del Denkweg heideggeriano» (2023, p. 5), ossia il «doppio inizio» del pensiero. Si tratta in effetti di un tema tra i più complessi, ma anche irrinunciabili del discorso di Heidegger. Un tema tutt’altro che confinato a quella stagione intermedia – gli anni ’30 e i cosiddetti «trattati inediti», incuneati tra la crisi dell’ontologia fondamentale di Essere e tempo e il «pensiero meditante» del secondo dopoguerra –, nella quale, quasi senza soluzione di continuità, coesistono la messa a punto della nuova parola-guida del pensiero – l’appropriarsi reciproco di uomo ed essere a guisa di evento (Ereignis) –, ma anche l’incontro definitivo e irreversibile con la figura di Hölderlin, e ancor prima di esso l’esperienza di un risoluto, deciso, convinto coinvolgimento nell’esperienza politica più espressamente anti-democratica e anti-liberale, disposta ad assumersi la responsabilità della violenza e di un polemos senza ritorno, ossia la comunità destinale tedesca segnata dall’ascesa di Hitler e dal nazismo, subito inserita da Heidegger in un’ottica metapolitica.
Mazzarella ammonisce, in proposito, a non restare mai al di sotto del riconoscimento che si deve al rango speculativo di Heidegger, minimizzando le «ragioni profonde» e l’«ineludibilità» di tale coinvolgimento o meglio di tale «incontro del suo pensiero con il nazionalsocialismo» (ivi, pp. 57-58), facendo così di Heidegger – magari in compagnia di altri protagonisti del pensiero konservativ – semplicemente un «resistente» anti-moderno, facile preda dell’inganno, dell’ingenuità e dell’erramento nei confronti di potenze senza alcun dubbio epocali come il compiuto avvento della tecnica o il nichilismo mondiale. No: Heidegger intravide nel nazionalsocialismo, in modo del tutto esplicito e persuaso, ovvero non retorico e non opportunistico, la possibilità che un pensiero storico della abendländische Verantwortung – come la definisce in più luoghi –, ossia della responsabilità del deutsches Dasein per l’essenza occidentale del pensiero e con essa per il suo salvataggio dentro il suo tramonto, si procurasse un varco storico-politico, ossia irrompesse in quanto forma di mondo (cioè come formazione e configurazione di un mondo abitabile) e con essa di un «altro inizio» del pensiero.
Ed è precisamente su quest’ultimo tema che il correttivo di pensiero proposto da Mazzarella si dimostra, al tempo stesso, severo e lucido, e forse persino eccessivamente severo, per eccesso di lucidità. Non già perché Mazzarella si proponga di urbanizzare la provincia heideggeriana – volendo riprendere una celebre espressione con cui Habermas, notoriamente sordo alle abissali risonanze del pensiero di Heidegger, qualificava la filosofia ermeneutica di Gadamer –, bensì di comprimerne la spinta per così dire non apollinea – ma non per questo esclusivamente sbilanciata su una violenza mortifera e accecante, e anzi non ignara di un elemento vitale, creativo e tutt’altro che impoetico – a favore di una più composta postura di pietas, come la auspica lo stesso Mazzarella, impegnata nell’ascolto del connubio tra ars e religio – tra l’apporto antropogenetico della techne e l’aspetto re-ligioso (ossia re-legens e re-ligans) dell’antico logos (dell’orizzonte più arcaico del legame tra physis, poiesis e anthropos sotto il segno dell’apertura e dell’evento, non riducibile all’umano e tuttavia impensabile senza di esso, dell’aletheia, ossia del diradarsi della verità dell’essere nelle epoche della storia del mondo): l’autentica duplicità dell’inizio in quanto «struttura diadica del trascendimento» (ivi, p. 211), di quella trascendenza che noi stessi siamo, la quale «istituisce [il mondo] come mondo [proprio] mentre ne è istituito» (ibidem), ovvero lo trascende (tecnologicamente) soltanto in quanto già da sempre assegnata (religiosamente) al singolare trascendimento che essa è.
Se, come efficacemente ci insegna Mazzarella, la possibilità di un altro inizio – il poter essere esperito altrimenti del primo (e unico) inizio pre-platonico della nostra storia – va tenuta accuratamente distinta dalla vana evocazione (cui Heidegger dovette soggiacere, come dimostrano diversi testi, all’inizio degli anni ’30) di un nuovo inizio che rechi con sé l’ambivalente emblema di una palingenesi totale e con essa della condanna – definita da Mazzarella, in linea con altri interpreti, «gnostica» – dell’«eone» presente, nondimeno ci si può chiedere se oggi non occorra, deposta appunto ogni ingenuità palingenetica ed escatologica, essere meno severi nell’ascoltare quanto dello Heidegger degli anni ’30 indubbiamente transita nella successiva e più serena Gelassenheit, intesa non come un inerme abbandono al mondo, ma come un lasciarlo andare al proprio destino.
Sembra infatti difficile non avvertire, oggi, una ben maggiore vicinanza al presago pudore e al rattenuto sgomento che Heidegger fece valere allora, se è vero che appare impossibile scansare, oggi, l’attonito sbigottimento per il mutamento del volto della terra, l’incombente sentimento di trasfigurazione di tutto l’umano, l’evidentissima perdita di ogni rapporto con la parola, la penosa inadeguatezza di ogni agire politico, la costernazione per l’attuale abuso del termine «popolo» (entità che notoriamente non esiste più, nemmeno come popolo di Dio in senso biblico, e piuttosto sostituito dalla «gente»), così come la vacuità di ogni discorso sul comune e infine la letterale fuga degli dèi (e forse di ogni dio).
Non è un caso, in effetti, che Hölderlin divenisse per Heidegger «il» Dichter (colui che silenziosamente dice, che velando mostra) precisamente nel drammatico crogiuolo esperienziale degli anni ’30, e non nei decenni successivi, inaugurando fin da allora la necessità di un gesto altrettanto drammatico, che la filosofia preferisce ancora oggi schivare: non quello di chinarsi sulla poesia o di ricorrere all’ascolto dei poeti per fuggire da ciò che oggi imperversa, bensì quello di assumere più decisamente il proprio stesso nucleo già da sempre poetante, avendo il coraggio di finire in quanto filosofia e di iniziare, come se stessa, ma in altro modo, in quanto pensiero.
Eugenio Mazzarella, Correzioni heideggeriane, Neri Pozza, Milano 2023.