Il corpo ritorna, in un modo o in un altro. La dissoluzione o gli eccessi che lo attraversano sono solo variazioni di una trama silente che ne fa emergere la natura: quella di un corpo che si fa beffe della vita e della morte, di una cosa che è al di qua e al di là della struttura stessa in cui è inserito. È questo l’esito a cui giungiamo, aggirandoci tra i chiaroscuri di Corpus domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima, la mostra milanese appena conclusasi a Palazzo Reale. Corpus domini narra una storia e un destino: dice di una contingenza e illustra una necessità. Se quasi tutte le opere esposte ci consegnano la condizione attuale dei corpi nell’epoca capitalistica, un’analisi più attenta non può non mostrarci il tentativo di alcune di loro di dar forma alla natura reale del corpo, partendo dai mezzi offerti dalla stessa situazione in cui questo è immerso.
La storia che viene raccontata è la sparizione del corpo, avvenuta almeno in un duplice senso. A eclissarsi è, da un lato, il corpo in quanto tale, la sua materia, la sua sostanza. La perdita d’identità incarnata dalle chiazze nere che procedono in fila indiana, disseminate all’interno del quadro-video infinitesimale di Michal Rouner, Untitled 1 (Panorama), è l’assenza di una quantità d’essere, più che di un’individualità personale. Non si tratta della rappresentazione dell’indifferenza dell’uomo nell’immensità del cosmo o dell’uguaglianza comunitaria di tutte le creature, perché a mancare è ciò che costituisce la potenza di ogni essere: un corpo qualunque. L’assenza si propone anche come esclusione: il mucchio di panni neri accatastati l’uno sull’altro di Christian Boltanski o i corpi sfibrati, costituiti da intrecci di rete metallica, di Vlassis Caniaris sono l’emblema di un processo di smaterializzazione (causato da fenomeni analoghi: immigrazione, dittatura, guerra) che priva gli individui di una collocazione ontologica nel mondo. In questo senso, le fotografie di Andres Serrano tentano di riaffermare la presenza di coloro che, nel sistema attuale di potere, propriamente non sono: senzatetto raffigurati nella quotidianità del sonno o di un bacio, emarginati che, prima ancora di esserci, sono.
Dall’altro lato, a sparire è il corpo gaudente, per divenire corpo d’altri. L’impossibilità di usare il corpo, ovvero l’incapacità di goderne, è la deriva inevitabile cui il consumismo capitalistico conduce. La disintegrazione di un corpo ridotto in frammenti apparentemente riassemblati, com’è quello in Pile IV di Antony Gormley, non è in sé un’operazione drammatica ma è, anzi, il primo modo per rifare un corpo, perché è l’unico mezzo utile a distruggere le sbarre del teatro che lo rende animato. L’orrore nasce laddove lo smembramento diviene opera delle macchinazioni del potere: gli organi in cristallo di Chen Zhen o le parti squartate di organismo dipinte da Carol Rama sono la conseguenza della cattura del corpo da parte della macchina capitalistica, il cui unico scopo è quello di produrre all’infinito. Checché se ne dica, il discorso del capitalista, lungi dall’essere l’utopia nefasta di un godimento acefalo senza castrazione e senza legge, si rivela essere un imperativo al consumo illimitato, che non lascia spazio alcuno alla possibilità di godere (cfr. Godani 2014).
Il corpo si parcellizza a causa di quel buco insanabile introdotto dalla produzione di un godimento che manca sempre a se stesso. Poiché non può usarsi, ovvero godere di sé in modo generale, il corpo si strappa, localizzando il suo desiderio. Così catturato, non più usabile, esso diviene utilizzabile, oggetto tra gli oggetti, un manichino di cui appropriarsi e con cui giocare senza restrizioni. L’oggetto differisce dalla cosa precisamente perché è a disposizione di un soggetto e dunque non può che situarsi nella sfera del consumo. Il sacro godimento del parzialismo feticistico, che è piuttosto rapporto a una cosa, ha ben poco a che fare con la frantumazione consumistica che spezza il corpo in un oggetto appropriabile. «Se, com’è stato suggerito, chiamiamo spettacolo la fase estrema del capitalismo che stiamo vivendo, in cui ogni cosa è esibita nella sua separazione da sé, allora spettacolo e consumo sono le due facce di un’unica impossibilità di usare» (Agamben 2005, pp. 93-94). La cattura del corpo è non solo la trappola del significante, ma diviene appropriazione, causa della frammentazione, ovvero dell’impossibilità di coincidere con sé.
Se la storia narrata presenta la duplice eliminazione del corpo in seguito alla sua presa da parte del regime di potere capitalistico, il destino che la mostra ci svela è l’inevitabile ritorno di un corpo che forse non se n’è mai andato. Le sculture iperrealiste, che occupano gran parte dell’esposizione, sono il tentativo di rappresentare la struttura originaria e reale del corpo, partendo dai materiali e dai contenuti che la stessa società dello spettacolo offre, per portarli alle loro estreme conseguenze. L’utilizzo di mezzi propri della più recente tecnologia, come la fotografia o le realtà virtuali, consente la produzione di un’opera apparentemente perfetta e realistica. Il procedere minuzioso per dettagli genera non tanto uno stato di pienezza dell’artefatto, ma dice di un processo inesauribile di approssimazione e riempimento: è questa l’unica ragione che ci fa dubitare, in un’ipotetica analisi infinitesimale, della realtà vivente dell’opera.
Il ritorno dell’Iperrealismo alla forma si presenta come un modo alternativo ma parallelo all’attitudine informale o all’inclinazione informe di altre avanguardie artistiche, perché il fine comune resta esattamente lo stesso. Sebbene sembrino inserirsi in quel tentativo di mettere in scena le conseguenze tragiche del capitalismo, le sculture iperrealiste costituiscono piuttosto una via di fuga da quella stessa realtà dalla quale partono e che svuotano dall’interno. Il metodo è, a tutti gli effetti, simile a quello usato da Charles LeDray nei minuscoli atelier che possiamo osservare nella mostra, costituiti da abiti dalle dimensioni rimpicciolite: indumenti che appartengono all’industria capitalistica, perché a essa devono la loro nascita, ma che contemporaneamente mettono in crisi quello stesso apparato, nel momento in cui diventano inutilizzabili, impossibili da essere indossati da coloro che di quel sistema rappresentano i primi consumatori, gli uomini. Allo stesso modo, le sculture iperrealiste, usando le tecniche più innovative di produzione per rappresentare i corpi perfetti della società contemporanea, giungono piuttosto a esasperare la forma sino a farla esplodere. In questo senso, mentre la storia narrata espone una deflagrazione del corpo per sottrazione, la necessità cui l’Iperrealismo ci riporta viene realizzata per addizione.
L’hyper della forma porta alle estreme conseguenze non solo i tratti dell’umanità, ma le fattezze di ogni specie, animale o inorganica che sia. Tutto ciò che viene raffigurato si rivela essere sullo stesso piano di qualunque altra cosa grazie a un processo di accentuazione e non di abolizione; così, anche la distanza emotiva dell’artista nei confronti della sua opera supera la possibilità della mimesi per giungere all’identità assoluta di alcunché. Le statue iperrealiste, che sembrano essere la rappresentazione perfetta di un certo corpo, ovvero l’immagine di qualcosa che dovrebbe costituirne il referente esterno, divengono puri simulacri, perché rendono indiscernibile non solo la copia dall’originale, ma la vita stessa dalla morte. Nonostante il desiderio michelangiolesco di John DeAndrea di veder respirare le proprie opere, che quelle statue inizino d’improvviso a muoversi diventa assolutamente indifferente. Il corpo iperrealista esibisce finalmente l’emergere del reale, ovvero la possibilità di pensare il corpo come una cosa, un corpo-uno che si gode e «che, letteralmente, sta in piedi da solo» (Cimatti 2018, p. 126).
Ciò che vale per la forma si ripercuote anche nei contenuti della rappresentazione: a mostrarsi sono non solo i corpi splendenti di nuotatrici o ballerine, come nelle sculture di Carole A. Feuerman, ma anche le carni esauste e giacenti attaccate a una flebo di quel Cristo al limite dell’erotismo di Zharko Basheski (Out of…, 2018) o il comune corpo nudo della donna scolpita da DeAndrea. I corpi perfetti dei mass media esplodono e diventano compagni di corpi qualunque, persino di corpi biologicamente impossibili ma virtualmente sussistenti, come quello dell’uomo gravido rappresentato da Marc Quinn.
Il corpo, si diceva, ritorna: in un modo, in un altro, o forse nello stesso, perché è già sempre lì, cosa tra le cose. «Questo oggetto comunque, dato che si tratta di ritrovarlo, lo qualifichiamo come oggetto perduto. Ma questo oggetto, in fin dei conti, non è mai stato perduto, benché si tratti essenzialmente di ritrovarlo» (Lacan 2008, p. 68). L’Iperrealismo ci fornisce i mezzi per ripensare il tentativo artaudiano di rifare il corpo, non regredendo allo stato originario di un corpo magico, ma riconsiderando la sua sacralità nei termini di una contemporaneità metafisica. La mostra racconta un declino e una rinascita: il corpo glorioso, di cui la mostra afferma la perdita irreparabile, si manifesta piuttosto nell’esibizione pura incarnata dalle creazioni iperrealiste. Certo, non sappiamo ancora come fare con i nostri corpi, ma l’arte, come sempre, ci indica la via. Far tornare il corpo non significa altro che esasperare la perfezione di quei corpi catturati dalla macchina capitalistica per far apparire una diversa perfezione: quella della cosa. Esibire la resurrezione di corpi perfetti nella loro fatale inerzia: permanente gloria mundi.
Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Profanazioni, nottetempo, Milano 2005.
F. Cimatti, Cose. Per una filosofia del reale, Bollati Boringhieri, Torino 2018.
P. Godani, Senza padri. Economia del desiderio e condizioni di libertà nel capitalismo contemporaneo, DeriveApprodi, Roma 2014.
J. Lacan, Il Seminario. Libro VII. L’etica della psicoanalisi (1959-1960), Einaudi, Torino 2008.
*L’immagine di anteprima e di copertina dell’articolo è: Dialogue From DNA (Chiharu Shiota, 2004)
Corpus domini. Dal corpo glorioso alle rovine dell’anima, a cura di Francesca Alfano Miglietti, 27 ottobre 2021-30 gennaio 2022, Palazzo Reale di Milano