Nei giorni dei cori alla finestra siamo scivolati sulla buccia patriottarda dei Fratelli e ci siamo concessi fughe in avanti (Il cielo è sempre più blu) ma abbiamo dimenticato la canzone più esatta, Che felicità di Giorgio Bracardi il cui refrain fa: «Io sò ’no stronzo, testa de cazzo. / Oho oho, oho oho. / Io vado a zonzo come ’no stronzo. / Oho oho, che felicità! / Me sò rotto li cojoni de la vita, / me ’mbriaco pe’ trovà ’na via d’uscita. / Co’ ’a droga faccio un sogno e poi m’addormo, / poi me svejo e ricomincio a canticchià». Immaginiamo lo smidollato protagonista svegliarsi a mezzogiorno, fare colazione con whisky e sigarette, mettersi a girovagare per l’appartamento. L’unico evento della giornata è la moglie profittatrice che gli piomba in casa insieme al drudo e animata dalle peggiori intenzioni («se n’è annata e m’ha dato la ripulita, / poi è poi tornata co’ ’no zozzo ermafrodita; / cor’ veleno me voleveno ammazzà»). È un inno alla sbracatezza e al non saper far niente, alla noia, allo sfacelo dei rapporti e al dilettantismo.
Molti di noi non sanno annoiarsi bene, per questo oggi soffrono. Inoltre siamo convinti che niente è peggio della sbracatezza, rimanere tutto il giorno in pigiama, la camminata incerta e diagonale, la bocca semiaperta. Se capita ci sentiamo subito in colpa, la qual cosa – pensiamoci – è ben strana: non eravamo tutti d’accordo (ma proprio tutti!) che la vita di prima faceva schifo che più schifo non si può, che ci avevano avvelenato i pozzi e i sogni, defraudati di tutto, che tra le Sardine e Salvini, tra guelfi e ghibellini, il più sano ha la rogna, che eravamo diventati le prostitute e i ruffiani di un’agitazione insensata? Correvamo a rotta di collo sulle autostrade per raggiungere persone di cui non ci importava nulla per concludere affari di cui capivamo poco per arricchire degli estranei che se li avessimo conosciuti ci starebbero stati antipatici. Il contagio ha cancellato in un sol colpo gli imperativi della produzione e del godimento fasullo ma la vita nuova ci ha deluso più in fretta della vecchia.
Cianciare al ristorante è meglio del fiero pasto e solitario del delivery? Gli occhi s’inumidiscono quando ci ricordano che non possiamo abbracciare e baciare gli sconosciuti per strada, ma quand’è esattamente l’ultima volta che l’abbiamo fatto? Gli amanti volonterosi riescono ancora a darsi appuntamenti furtivi al supermercato o dal giornalaio. Mickey Rourke in 9 settimane e ½ conosce Kim Basinger facendo la spesa e lo abbiamo invidiato, ma ce ne siamo dimenticati.
Per i Greci se uno si è ridotto come noi vuol dire che è stato toccato dal demone meridiano: lamia succhiatrice di sangue, ninfa o fauno che compare quando il sole allo zenit ha fermato la sua corsa e la canicola spinge al sonno i contadini. Siamo stati contagiati anche se non abbiamo contratto il virus, perché il primo effetto del tocco demonico è l’incapacità di agire e lavorare, la siesta forzata e il disgusto degli altri. Il demone ci infligge l’akinesia – l’immobilità – e, nonostante gli dèi minori Zoom e Skype, l’aphonia – la poca voglia di parlare – ma anche la mania. Perché il contagiato è un entusiasta e sotto la doccia (se gli va di farla) canta il canto ebbro delle sirene durante la bonaccia.
Nel Medioevo il demone colpiva con l’acedia il monaco che, chiuso nella sua cella, si rattristava davanti alle attività del monastero e dei confratelli perché gli apparivano insensate. Questa cupa lucidità si accompagnava a improvvisi attacchi di appetito, al desiderio di visitare la giovane vedova bisognosa di conforto, anche se poi si buttava a capofitto in una lettura presto interrotta. Le ore del contagiato vengono filtrate dal setaccio dei minuti, i minuti piovono in scrosci di secondi. Il giorno non è vuoto, è riempito in modo confuso, approssimativo, apriamo il libro per aprire il frigorifero per accendere la sigaretta per guardare un’immagine pornografica per accarezzare il gatto, in un ordine qualsiasi e smettendo quando vogliamo.
Le azioni sfumano l’una nell’altra, lo smart working non è più o meno importante che spazzolarsi i denti o rassettare il letto. Anche l’alcolismo del recluso è diverso da quello cui eravamo abituati, è meno violento, è intermittente, più prudente, quasi non si distingue dall’esser sobri, così come stare svegli, adesso, assomiglia a dormire. Acedia non vuol dire non far niente ma cominciare e ricominciare senza portare a termine. Oggi il languore dell’esistenza viene garantito dalle leggi di uno stato finalmente complice e vietare le gite extramoenia a “pasquetta” è il provvedimento più strabiliante e antiborghese varato in Italia da decenni.
La vita che si faceva fuori era difficile, una specie di percorso a ostacoli. Dentro, invece, è facile, non bisogna sorridere e stringere la mano al primo che capita. La casa o, se uno ci è rimasto intrappolato con la famiglia, almeno la propria stanza è diventata uno spazio incantato: mondo in miniatura, caverna, hortus conclusus, con i suoi riti e le trasgressioni. Il contagiato si distende nel suo antro e si rigira, non gli rimane che tenere la bocca spalancata per inghiottire più aria che può, vorace e pallido, è un poco vampiro.
Versione cristiana e notturna del demone meridiano, il vampiro dell’iconografia settecentesca non è il dandy sofisticato che abbiamo visto nei film ma un volgarissimo sacco che si gonfia e sgonfia di sangue, un corpo-vescica che non sa fare altro. Il vampiro ha abbandonato la vita ma non è morto, è un non-morto. Il vivo vive e lavora, il morto no, il non-morto vive al cinque per cento senza aumentare la dose, conosce solo il ritmo elementare del riempimento e dello svuotamento, l’alternarsi della sazietà e dello sfinimento, la sbracatezza e la noia che riescono a far rifluire il cammino rettilineo del tempo.
Niente è più contagioso della sbracatezza: il cuore che invecchia, lento e distratto, negligente e facile da accontentare. Basta che uno si avvicini al vampiro e gli viene naturale porgere il collo, diventa sbracato anche lui perché in realtà non aspettava altro, per vocazione siamo tutti collaborazionisti. La bêtise non è mai stata così democratica e mite, quando ci ricapita?
In giro non ci sono soltanto il dolore e la contrizione di cui leggiamo sui giornali ma anche una melanconica euforia che sta zitta e la vergogna ne aumenta il segreto. Se non vogliamo finire schiacciati dalla sua intensità sarà meglio dare voce alla nostra passione sterile e la prossima volta che ci affacceremo sui balconi, se il demone meridiano ci darà coraggio, sarebbe giusto intonare – tutti insieme, tutti soli – Che felicità di Giorgio Bracardi.
Riferimenti bibliografici
R. Caillois, Il demone meridiano, Bollati-Boringhieri, Torino 1999.