#ilteatrononsiferma. L’hashtag usato in questi giorni dai teatri e dagli spettatori italiani sembrerebbe indicare un paradosso. Perché il teatro, in realtà, si è fermato. Si sono fermate le migliaia di persone (per lo più precarie) che ci lavorano, costrette ad affrontare una crisi economica devastante che sta colpendo un settore già di per sé debole e impoverito negli anni. E va da sé che i 130 milioni annunciati dal governo nel decreto “Cura Italia” per le emergenze nei settori dello spettacolo e del cinema (come anche la sospensione dei versamenti delle ritenute, dei contributi previdenziali e assistenziali e dei premi per l’assicurazione obbligatoria), per quanto possano sembrare una cifra significativa, non cambieranno le sorti di una crisi che si annuncia epocale, in particolare per lo spettacolo dal vivo.

Intendiamoci, nulla di tragicamente nuovo. Un secolo fa Enrico Polese, direttore de “L’Arte drammatica”, la più diffusa rivista teatrale italiana dell’epoca, all’indomani dell’entrata in guerra dell’Italia nel primo conflitto mondiale segnalava le «probabili chiusure di teatri, i vicini scioglimenti di Compagnie, collocamenti a riposo, precipitate gestioni teatrali o chiusura di Case produttrici per le pellicole cinematografiche». E Antonio Gramsci negli stessi anni, in qualità di critico teatrale dell’Avanti!, annunciava più o meno le stesse cose, a partire dall’eccezionalità che la situazione di guerra imponeva ai teatri italiani.

A cosa farebbe dunque riferimento l’hashtag #ilteatrononsiferma? Cosa esattamente del teatro “non si è fermato”? È una domanda retorica che in realtà nasconde una questione complessa, su cui la teatrologia contemporanea ha il dovere di riflettere, e che probabilmente mette in gioco il futuro dello spettacolo dal vivo nei prossimi anni. Diciamocelo chiaramente, senza voler suonare apocalittici: l’ipotesi che il teatro nella sua forma tradizionale possa riattivarsi in tempi brevi è probabilmente da escludere. Come sarà possibile distanziare gli attori sulla scena o il pubblico in sala, rendere obbligatori l’uso dei guanti e delle mascherine, diversificare gli ingressi e i luoghi di lavoro dietro le quinte ecc.? Anche se iniziative in tal senso venissero messe in atto, è difficile pensare che un pubblico generico possa essere spinto a riempire le sale (teatrali, ma forse anche cinematografiche) per il puro “piacere” di assistere a uno spettacolo in simili condizioni. #ilteatrononsiferma fa allora riferimento a qualcosa di diverso e molto più complesso, che rimanda probabilmente a una trasformazione (non sappiamo quanto definitiva) dell’oggetto teatrale. Una trasformazione che già l’uso della parola “oggetto”, al contrario di quella di procedura, o prassi, dà il senso della sua direzione.

Per la prima volta nella sua storia il teatro si sta, in senso etimologico, reificando. Sta trasformando le sue procedure materiali e evenemenziali in una “cosa”. È in realtà l’esito di un processo di reificazione che va avanti da tempo, e che richiama gli esperimenti di spersonalizzazione e mediatizzazione della scena che si sono visti negli ultimi anni (si pensi a spettacoli come Le sacre du Printemps di Castellucci, in cui la presenza umana è di fatto annullata) e che fondamentalmente affonda le radici nei tentativi di deumanizzazione del teatro delle avanguardie storiche novecentesche (Gordon Craig su tutti). Questa “cosa”, che permette al teatro di “non essere fermo” e non essere dal vivo nell’attuale situazione di emergenza, al momento si presenta come un semplice surrogato dello spettacolo vero e proprio: si tratta infatti di riprese audiovisive, più o meno curate, di spettacoli storici o delle stagioni passate che i teatri di prosa e lirici stanno mettendo online nelle ultime settimane; oppure si tratta di incontri e interviste live con gli artisti, che le piattaforme social delle istituzioni teatrali internazionali propongono sotto varie forme e modalità (dirette Instagram, ecc.). Apparentemente dunque, la resa “cosale” del teatro sembrerebbe tradursi in semplici oggetti mediali che rimpiazzano l’attuale impossibilità di godere di uno spettacolo dal vivo o di un dibattitto di persona con un artista in carne e ossa.

È bene però ricordare che sin dalla sua nascita, con tutte le evoluzioni del caso, l’Occidente ha conosciuto il teatro solo nella forma che sostanzialmente gli abbiamo riconosciuto nella modernità. Ha certamente vissuto lunghe fasi storiche “senza teatro” (tutto il Medioevo, il puritanesimo elisabettiano, le due guerre mondiali, ecc.), ma non ha mai rinegoziato il concetto di presenza nello spazio deposto al teatro, il fatto cioè che l’evento teatrale si fondi sulla presenza umana e sul suo rapporto fisico e diretto con il pubblico. E anche quando l’ha fatto (si pensi all’esplosione del teatro televisivo negli anni ‘60), si è trattato di semplici espedienti tecnici che non hanno in alcun modo inteso sostituire l’esperienza dal vivo con una nuova modalità della pratica e della fruizione teatrale, come quella riassunta retoricamente nell’hashtag precedente.

Cosa si può dire allora rispetto a una condizione presente che invece per la prima volta sembrerebbe andare in una simile direzione? Restiamo nel campo delle ipotesi. Partiamo innanzitutto col constatare che, allo stato attuale delle cose, ciò che potrebbe realisticamente verificarsi nei prossimi anni parrebbe aprire a due differenti scenari. Il primo prevede che — a parte le necessarie procedure di aiuto economico da parte dello Stato, che ci si può solo augurare siano all’altezza della crisi — tutto rimanga come prima. I teatri si fermeranno, probabilmente ancora a lungo (anche se non sappiamo per quanto), e quando la situazione lo consentirà, riapriranno. Questa prima ipotesi appare al momento la più nefasta. Un pubblico tradizionale, in parte già disabituato e stanco, si ritroverà ancora più decimato a fronte di un’offerta che rischia di essere ridotta a stagioni accorciate dei teatri stabili, qualche spettacolo nei teatri d’innovazione e poco altro. Anche il pubblico dei festival, quello più giovane e motivato, alla ricerca di un’esperienza teatrale comunitaria e non tradizionale, si ritroverà probabilmente privato del significato stesso di quell’esperienza, in condizioni di fruizione limite (ingressi ridotti, distanziamento sociale, ecc.) tali da sottrarne il suo significato essenziale.

C’è però una seconda strada. Una strada difficile, di complessa realizzazione, che al momento sembrerebbe paradossalmente la più praticabile. Questa strada consiste nel ripensare quella teatrale come una pratica diffusa attraverso la mediazione strumentale della tecnica. Non la tecnica come mera forma di documentazione di un evento che la precede, come al momento sta accadendo. Ma la tecnica come riconfigurazione del fatto teatrale dal vivo in un oggetto evenemenziale, di per sé riproducibile, tanto quanto una procedura basata sul concetto di presenza. È in realtà un azzardo apparente, attraverso cui il teatro può trovare un modo per perseguire la strada che, per esempio, ha trasformato la musica all’inizio del Novecento (senza per questo stravolgerne e modificarne sostanzialmente la natura). Una pratica performativa analoga, che ha visto nella mediazione e nell’oggettivazione strumentale non un mero surrogato dell’evento scenico (come nelle riprese in streaming online largamente diffuse in questi giorni), ma un suo oggetto di pari dignità, senza che ciò abbia significato alcun superamento delle sue procedure empiriche (le persone hanno continuato a frequentare i concerti, opere, ecc.), quanto piuttosto l’accostamento ad esse di nuovi oggetti tecnici in grado di riprodurne il portato evenemenziale.

Se al contrario di altre pratiche performative il teatro è stato storicamente resistente a ogni prassi di oggettificazione è perché ha da sempre posto al suo centro l’inalienabilità della presenza umana, rendendo qualsiasi possibile mediazione tecnica un fatto ancillare. La musica è al contrario riuscita a superare il carattere nudo e presente della vita umana più facilmente, perché è stata favorita dalle sue componenti strumentali fondative (il canto è già di per sé una mediazione tecnica dell’umano). Affinché allora il teatro possa fare altrettanto, dovrebbe necessariamente rinegoziare la sua natura attorno a un regime di evenemenzialità impersonale e non più a partire dalla presenza soggettiva dei corpi. Solo cioè pensando la scena come luogo di materializzazione dell’idea, come punto di coincidenza tra un piano trascendente e uno immanente, non necessariamente incentrato sul carattere singolare del corpo dell’attore, il teatro può rendere oggetto impersonale la sua prassi di per sé effimera e irripetibile. In poche parole, il teatro può raccogliere la sfida storica che tragicamente il presente gli sta ponendo davanti solo adottando strategie che gli consentano di contrapporre la categoria di evento a quella di presenza.

Nuovamente, tutto ciò sembrerebbe impensabile per un’arte che ha fatto del portato sensibile dell’umano la sua cifra moderna. Ma siamo sicuri che quel tratto di umanità debba necessariamente essere perso in un oggetto riproducibile capace di mediarne ogni istanza veritativa (com’è accaduto con la musica)? Si tratta di questioni su cui il Novecento e la contemporaneità teatrale hanno riflettuto a lungo, da Ronconi passando per Kentridge, Lepage e Wilson (oltre che Gordon Craig e i suoi epigoni). In definitiva, non si tratterebbe di concepire l’oggetto mediale come un mero simulacro audiovisivo dello spettacolo, quanto piuttosto di servirsi di dispositivi tecnici autenticamente teatrali di produzione dell’oggetto spettacolare. Già esistono esempi contemporanei in questo senso, come le rese digitali di Mount Olympus di Jan Fabre o quelle della Tragedia Endogonidia della Raffaello Sanzio. O ancora di più alcune esperienze di rilocazione della digital performance applicate al teatro (da Adrien M a Keiichiro Shibuya). Oggetti mediali concepiti in forma autonoma rispetto all’originale spettacolare ma capaci, ancora in modo imperfetto, di restituirne il tratto evenemenziale. Ottimizzare e lavorare su questo punto non significherebbe in alcun modo sostituire o negare il valore performativo della scena, ma riflettere su modalità teatrali diffuse in cui l’evento, registrato o in diretta, possa trovare nuove forme di autenticazione del suo dato reale.

Perché se questo dato appartiene certamente ad un processo performativo, il punto è capire cosa esattamente la performance mediatizza o dovrebbe mediatizzare. Una volta che accettiamo il fatto che la performance materializza un piano ideale di cui il corpo è un tramite, allora il teatro diventa tecnicamente riproducibile, esattamente come lo è una sinfonia di Beethoven, un’opera di Mozart o un’improvvisazione di Bill Evans. Niente può essere “pari” all’esperienza spettacolare. Ma se è vero che ascoltare un disco di Benedetti Michelangeli che suona Debussy non equivale ad averne fatta esperienza viva, quel documento è la traccia in cui è contenuta la verità ideale e umana del suo gesto espressivo, e non un semplice simulacro dei suoi segni sensibili. È evidente che l’unico modo per poter far ciò a teatro è quello di considerare il corpo un vettore di mediazione ideale, una componente fondamentale ma non necessariamente vincolante della sua esperienza evenemenziale. Pensare la scena come un luogo di incontro tra l’umano e la macchina, in cui le mediazioni tecniche riproducibili possano servire a tradurre il portato di verità della presenza umana, è forse la strada che potrebbe salvare il teatro nei prossimi anni.

Riferimenti bibliografici
A. Badiou, Rapsodia per il teatro. Arte, politica, evento, a cura di F. Ceraolo, Pellegrini Editore, Cosenza 2015.
A. Gramsci, Il teatro lancia bombe nei cervelli, a cura di F. Francione, Mimesis Edizioni, Milano 2017.
A. Petrini, Fuori dai cardini. Appunti su teatro e Prima guerra mondiale, in “Il castello di Elsinore”, n. 73, 2016.

Share