Nel 1958, Chris Marker è – con Armand Gatti e Claude Lanzmann, tra altri – in Corea del Nord. Di quel viaggio, promosso dal Partito Comunista Francese e fatto cinque anni dopo la fine della guerra e la divisione dal Sud del paese, Marker fa un cortometraggio. Non però come film, ma su libro. Inconsueto, certo, ma non impensabile se, d’altra parte, i libri più œuvres possono non essere narrazione, o sembrar fatti non per raccontarsi o finirsi nel racconto, quanto per visitarsi, sfogliarsi, vedersi, sentirsi (Tristram Shandy, Finnegan’s Wake, Infinite Jest,…), non diversamente dal cinema. Dove pure sono possibili più forme e territori espressivi, se, come diceva Godard, Griffith è teatro, Ejzenštejn danza, Nicholas Ray cinema. Marker, che era (non soltanto, certo) il saggio, com’è noto, ne viaggiava diversi, li contaminava, li portava e si portava altrove, pensandoli su supporti diversi da quelli usati. E se può scriversi un saggio filmando e montando in celluloide, così si può, in forma di libro, filmare su cellulosa, scrivendo e fotografando.

Si tratta di Coréennes, ripubblicato dalla casa editrice francese L’Arachnéen riproducendo l’assetto della prima edizione (Seuil, 1959, in una collana intitolata appunto “Court-Métrage”): impaginazione, successione, intervalli tra testi e foto, collocazione e disposizione, sono, quindi, quelli del montaggio originario. Con in più, qui, una nota dell’editor Sandra Alvarez de Toledo e un post scriptum (1997) del regista stesso. Coréennes (il cui titolo è da intendersi sia come “donne coreane”, sia come “pezzi di ispirazione coreana”) occupa un posto significativo nell’opera di Marker: segue di poco quello che Bazin definiva “saggio documentato dal cinema” (Bazin 1958, p. 258), Lettre de Sibérie (1957), e precede l’interesse per la cultura giapponese, e l’intensificarsi di quello – che già qui affiora – per gli scenari politici internazionali (Cuba sì, 1961), la ricerca di nuovi intrecci tra parola-racconto e immagini fisse in La Jetée (1962).

Il nodo tra scritto e fotografico in Coréennes è nel segno di quello che Bazin chiamava montaggio “orizzontale”, dove cioè la produzione di senso non si dispiegherebbe dalla relazione e successione di inquadrature consequenziali, quanto nel reciproco compenetrarsi, interrogarsi di immagine e parola, dove la prima «si riferisce lateralmente […] a quanto viene detto» (ibidem). È un po’ come se nell’annodarsi di testo e foto markeriani si mostrasse l’andamento del pensiero, della riflessione a fronte di quanto si va osservando. Torna qui a proposito l’idea zavattiniana secondo la quale «la macchina non deve fotografare ciò che abbiamo pensato, ma ciò che andiamo pensando nell’atto stesso in cui vediamo» (Zavattini 2001, p. 689).

Mostrare, allora, nella scrittura, come quella immagine che la foto coglie possa leggersi, essere sensata, implica un reciproco compenetrarsi e interrogarsi di visivo e verbale. Il secondo descrive quanto si osserva e l’atto di osservare, o sembra quasi rendere l’immagine aggettante, trarla alle proprie interrogazioni sprigionate nella curiosità per l’apparizione. Il visto e fotografato si colloca, così, in una dimensione che contempla la riflessione politica, la notazione etnologica, il passato storico o quello mitico, la fiaba e la divagazione. Alla foto di una donna sulla rampa di un aeroplano, si accosta infatti «la première Coréenne descendit du ciel. Une gentille rose plate, assez éloignée de l’archétype […] et seul entre toutes à trahir cette lointaine origine toungouse que les ethnologues attribuent à son ancêtre, le demi-dieu Tangun» (Marker  2018, p. 9).

È come se testo e foto costruissero insieme benjaminiane immagini dialettiche, dove l’attuale si salda a una costellazione fatta di altri tempi, di memoria, culture, storia: l’incipit con episodi sui primi rapporti tra Francia e Corea, con la conradiana immagine di un battello in arrivo a Séoul per “vendicare” l’uccisione di  missionari cristiani, contrappunta poi l’arrivo più mite di Marker a Pyongyang: «Le même retroussis des lèvres, le même sourire joueur et tranquille qu’un an plus tôt je photographias au Musée d’Athènes» (ivi, p. 15).

Se la spinta iniziale del viaggio è la ricerca di modelli di comunismo altri da quello sovietico, oggetto dell’attenzione di Marker è poi il popolo, la persona «Au fond de ce voyage, il y a l’amitié humaine. Le reste est silence» (ivi, p. 138). È gesto politico, allora, provarsi a dare immagini dialettiche di un popolo provato dai recenti sconvolgimenti e colto nella sua quotidianità, restituirne il presente e riconnetterlo alla sua storia, al suo carattere gentile e misterioso che Marker intuisce nelle donne del titolo (come poi sarà legato a un’altra donna orientale Koumiko, un altro Mystére, 1965). Di quelle donne si cerca di cogliere il cambiamento di espressione, quando alla semplice quotidianità si frappone il ricordo della guerra recente, “montato” come testo tra due foto.

Ma se le Coreane sono definite come energiche tigri in carezzevole pelle di gatto, con bambini portati sulla schiena come piccoli paracadute, ecco che la prosa markeriana si apre alla divagazione poetica, compie montaggi viaggiando nella memoria, incede alla rêverie, e la successione di immagini mima la dissolvenza cinematografica, associando per esempio volti e paesaggi. E se al cinema si dà la possibilità di viaggiare più territori espressivi, spostarsi e spostarne confini, così esistono diversi modi di viaggiare: «La façon Barnabooth, la façon Gengis Khan, la façon Plume – et par example: accepter en désordre les rimes, les ondes, les chocs, tout les bumpers de la mémoire, ses météores et ses dragues» (ivi, p. 15).

Il gentiluomo, quindi, il conquistatore, lo stralunato personaggio di Henri Michaux, che si lascia viaggiare dalle cose che incontra. È a quest’ultimo che Marker si vuole simile, accettando tutti i detours del caso, facendone saggio. E tra viaggio e saggio, al cinema, il legame è forte. Rivette identificava infatti proprio in Viaggio in Italia (Rossellini, 1954) il primo film in cui si liberano le potenzialità del saggio, che è insieme un diario, una confessione, un’analisi, erranza tra più territori e forme.

Connettendo al presente che incontra le storie di bambine che diventano stelle, di cani che ingoiano la luna, di città e strade che mutano all’improvviso nel paese in via di ricostruzione con la stessa velocità di una pianta che cresce vista al cinema, Marker somiglia forse al narratore nel senso in cui l’intendeva Benjamin (scrivendo, infatti, proprio dell’autore de Il viaggiatore incantato, Nikolaj Lèskov). È colui che, semplicemente, prende ciò che narra dall’esperienza tutta, e sa scambiarla con altri, sia la propria e acquisita magari in viaggio, o i sedimenti, patrimoni di memorie, leggende, dicerie e vissuti altrui, in affinità con lo spirito della fiaba come con la meditazione. E non occorre che sia racconto. È un’attività che può darsi per ogni canale-supporto (orale, scritto su libro, pellicola o in pixel, ecc.), come Marker la dislocava.

Coréennes è allora oggetto restituito alla contemporaneità se proprio l’essere dislocato, secondo Agamben, è proprietà del contemporaneo: inattuale col proprio tempo cronologico e capace di penetrarlo più a fondo rispetto al passivo esserne in balia (come lo erano i personaggi de La Jetée, in fondo). Contemporaneo è anche entrare in risonanza con tempi diversi, con un cortometraggio dislocato su libro che dice del cinema ovunque, sempre possibile.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Che cos’è il contemporaneo, Nottetempo, Roma 2008.
A. Bazin, Chris Marker, Lettre de Sibérie, in “France-Observateur”, 30/10/1958, p. 258.
W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, Einaudi, Torino 2014.
C. Marker, Coréennes, L’Arachnéen, Paris 2018.
J. Rivette, Lettre sur Roberto Rossellini, in “Cahiers du cinéma”, n. 46 (1955), pp. 14-24.
C. Zavattini, Basta con i soggetti, in Id., Opere, Bompiani, Milano 2001.

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