Incontriamo Pietro Marcello, uno dei registi più interessanti nell’orizzonte contemporaneo per il suo modo di lavorare con la forma cinematografica e con il riuso dei materiali d’archivio. Dopo La bocca del lupo Bella e perduta, il cineasta torna con il suo ultimo film, Martin Eden, a leggere l’Italia e la sua Storia attraverso il repertorio e la sua capacità di innestarsi sul racconto finzionale. Il film, uscito questo settembre nelle sale, ha vinto la Coppa Volpi al Festival di Venezia 2019.

Partiamo dal tuo ultimo film. Cosa ti ha spinto a scegliere il testo di London e cosa ha voluto dire ancorarsi ad una storia così classica, ad un romanzo popolare dell’America di inizio Novecento?

Quando penso alla storia di Martin Eden penso ad una storia attuale, che facilmente penetra le pieghe del presente, del reale, del documento. È una storia intramontabile, che ho conosciuto a vent’anni grazie a Maurizio Braucci e che dopo vent’anni ho deciso di trasporre in un film. Tutti mi dicevano “sei pazzo, si tratta di un romanzo monumentale, nessuno è mai riuscito a farci un film”. Sapevo anche io che era un grande azzardo, soprattutto perché Martin Eden è un romanzo già “rotto” in origine. Non è stato ben accolto all’epoca, di London sono molto più conosciute altre opere. In questa lo scrittore va esplicitamente contro lo stereotipo del sogno americano, raccontando la ricerca di un successo che finisce nel suicidio, un personaggio vittima dell’industria culturale.

Ho voluto scegliere Martin perché Martin ancora oggi è ovunque: è il ragazzo siriano sui barconi, il ragazzo di una qualsiasi periferia. L’ho pensato come Kazan ha pensato il ribelle dell’Anatolia in America America (1963). Un archetipo, come archetipo può essere Amleto.

Quanto c’è di te nel personaggio di Martin Eden?

Sicuramente una parte di me l’ha scelto per il suo spirito ribelle e militante. Dentro di lui risuona L’uomo in rivolta di Camus, empatizziamo con la sua voglia di riscatto. Però personalmente mi distacco dal personaggio di Martin: è in definitiva un anti-eroe, un eroe negativo, vittima del successo e soprattutto di un individualismo a cui non riesce a sfuggire. La scena in cui affonda il veliero per me è simbolica, lì finisce Martin Eden.

Non a caso ho voluto far iniziare il film con un’immagine di Errico Malatesta, anarchico mio compaesano, primo libertario, teorico del cosiddetto “volontarismo etico”. Per Malatesta l’individuo esiste come parte della comunità, e grazie ad essa. Il suo è un socialismo autentico, incarnato nel romanzo dalla figura di Brissenden (Carlo Cecchi), contro l’individualismo di chi è disposto alla barbarie pur di emergere come singolo. Martin tradisce il mandato “socialista” e crolla sotto il suo stesso narcisismo, basti pensare che gli piace Spencer — che era un bravo biologo, ma che scrive sull’uomo cose orribili, degne delle catastrofi che avrebbero avuto luogo nel ‘900. L’aspirante scrittore non incarna la lotta di classe, ma il tradimento della classe di appartenenza. Il mio film è stato criticato perché “troppo aderente al romanzo”, ma attraverso Malatesta volevo precisamente segnare dal romanzo una distanza, “proteggere” il film, dire esplicitamente da che parte stessi.

Le immagini d’archivio sembrano nel film dare verità a quelle di finzione: la storia di Martin prende senso a partire dalle tante storie, anche anonime, che hanno attraversato il Novecento.

Senza archivio questo sarebbe stato un film come un altro, anche poco interessante. Io lavoro da sempre con i repertori, l’archivio è il mio mondo, è dove mi sento più a mio agio. In questo senso non considero Martin Eden un passo in avanti ma una naturale evoluzione del mio cinema, una chiosa riguardo a un tempo che si consuma, anche il mio.

Senza dubbio è l’archivio a nutrire la finzione, i due piani si contaminano costantemente. Volevo fare un ritratto vero, autentico, della nostra Storia e del nostro presente. Uso la finzione al servizio di questo, distinguendomi da come la usano gli altri. Non mi ha mai interessato la trasposizione moderna del presente. Raccontare il nostro tempo attraverso la finzione non ha senso, posso farlo ben più liberamente con lo strumento del documentarioPer questo il mio cinema non potrà mai elevarsi al di sopra dell’archivio. Per me in alto ci sono i libri, c’è la Storia, in basso ci sono i film. Martin per me sta in quella folla di marittimi anonimi che vediamo in una delle sequenze di repertorio.

Io ho bisogno della Grande Storia, non smetterò mai di averne. In una delle immagini d’archivio vediamo un bambino zoppo, mutilato dalla guerra. Cosa avrei dovuto fare? Girare una scena di un bambino che emulasse debolmente quella del bambino di Paisà?

E l’Italia? Era al centro di "Bella e perduta", ma in fondo lo è anche in questo film. È Napoli ad essere protagonista, anche se il racconto prende forma a partire dall’America.

L’intenzione era questa. Raccontare una storia universale dentro un territorio che mi è familiare, ambientarla in una città di mare, nei quartieri in cui sono cresciuto. Noi non abbiamo l’Atlantico ma una pozza più piccola, il Mediterraneo. Non abbiamo Conrad e Stevenson ma Pasolini e Carlo Levi, le loro bellissime pagine sul nostro Paese.

È stata una decisone audace deterritorializzare il romanzo, ma l’audacia mi ha sempre intrigato. Il Paese che racconto è quello geografico prima che quello sociale. La mia è un’Italia di “padre, madre e terra”, fondata su un legame viscerale con il territorio più che sugli italiani. Certo i bassi di Napoli ora sono per lo più B&B, vivo molto anche dei miei ricordi di bambino. Si tratta sempre di una ricostruzione e non si pretende che sia esatta — ci sarebbero volute maestranze che non esistono più, soldi che non avevo. Con l’aiuto regista, Tiziana Poli, abbiamo fatto ricerche iconografiche per due anni e mezzo. Abbiamo costruito una base, ma non basta mai. Il vero rimane sempre un momento del falso. È in questo scarto che si innestano la necessità e l’onestà intellettuale dell’archivio.

Hai parlato di Malatesta, di un socialismo autentico. I riferimenti politici nel film non mancano.

Il discorso sul neocapitalismo che Martin fa a cena a casa di Ruth vuole fare il verso ai turbo-renziani, o turbo-macroniani, di oggi. Ho cercato di dare cazzotti un po’ a tutti facendo emergere qui e là corsi e ricorsi della Storia. Oggi si è tornati ad usare categorie come “fascista” o “populista” con noncuranza, come se fosse normale. Forse non ci ricordiamo che settanta anni fa l’Italia bruciava.

Nel film non si usa mai la parola “comunista”, in effetti. Ma il giornalista amico di Brissenden, quello a cui Martin regala una parte del suo guadagno una volta raggiunto il successo, nella mia testa è Edmondo Peluso: amico di London, fondatore del PC a Napoli, poi emigrato nella Russia di Stalin e morto nei gulag. Lui sicuramente il mandato non l’ha tradito. Credo fortemente nell’atto politico del cinema, che è da questo punto di vista uno strumento potentissimo. Se voglio raccontare i giovani e la realtà presente, io scelgo, come ho fatto per Martin Eden, di raccontare prima di tutto il “soggetto”: rimango sull’uomo nudo, sulla sua essenza, che tanto, prima o dopo, rimane quella.

Cosa vuol dire far muovere un personaggio all’interno di un ambiente composto da immagini d’archivio? Senza dubbio la fusione del personaggio con l’ambiente — penso a ciò che diceva Bazin parlando di Rossellini — vive in questo senso una profonda trasformazione, nel tempo e nello spazio.

Lo spazio diventa quello della Grande Storia e Martin il vettore temporale che lo attraversa. A nuoto, camminando per le strade di Napoli, il giovane protagonista percorre tutto il Novecento.

Penso che il nostro tempo non possa essere raccontato se non cercando il suo nocciolo più profondo. Se per estetica intendiamo ciò che riguarda la storia, la società, l’umanità, l’arte e le forme che tutte queste assumono, io fatico a riconoscermi nell’estetica di oggi, che definirei “di basso impero”. Ho difficoltà a mettermi a filmare per strada, assumo subito un certo distacco. Sono nato nel ’76, ma sento di essere figlio del Novecento. Mi ricordo ancora il telefono con la cornetta o quello che funzionava a gettoni. Quello che ho vissuto è un altro tempo rispetto a quello di oggi. Il racconto che ne faccio necessita allora di incrociare i suoi piani, confonderli e lavorare sul loro intervallo.

Molto significativo è da questo punto di vista il finale del film. Martin viene “ucciso” da Ruth per la seconda volta, durante il colloquio che hanno quando lei lo va a trovare a casa. In quella che ritengo una scena chiave del film, lo vediamo camminare per via Caracciolo, inseguire il se stesso di un tempo, un se stesso che non è più. La confusione temporale raggiunge il suo apice quando Martin è seduto sulla spiaggia, prima di entrare in acqua. A sinistra vediamo alcuni soldati dell’esercito imperiale a cui vengono tagliati i capelli, a destra un gruppo di migranti.

È suggestiva anche la prima scena del film, in cui Martin comincia a registrare su nastro il suo racconto, come se tutto quello che venisse dopo (anche le immagini stesse) fossero emanazioni di quella voce iniziale.

Sì, è una scena simbolica. Lì Marinelli recita un passaggio dell’ultimo testo di Stig Dagerman, l’epilogo dello scrittore/giornalista svedese prima che si suicidasse. In questa scena vediamo Martin come sarà alla fine del film. Mi piaceva l’idea di iniziare con la fine sconvolgendo da subito la linearità della storia. Il “secondo” Martin è un Martin brutale, che distrugge lo spettatore: quell’eroe negativo a cui accennavo prima, molto diverso dal Martin giovane e ubriaco di inconsapevolezza della prima parte del romanzo.

Registrare una voce vuol dire innanzi tutto lasciare una traccia, depositare una memoria. L’idea era quella di recuperare questa memoria in una scena finale del film che non ho più girato. Margherita, la popolana innamorata di Martin, accoglieva ormai anziana un’avventrice (forse una giornalista) alla ricerca di notizie sul “personaggio” Martin Eden. La donna tirava fuori il vinile con la registrazione di Martin e il suo nipotino lo metteva sul piatto e lo faceva partire. La voce che si ascoltava non era quella di Marinelli: era una voce altra, anonima, la voce del poeta, dello scrittore, di un uomo e di tutti gli uomini. Ecco, quella voce registrata su vinile che si ascolta all’inizio dovrebbe significare la voce di tutti, anche la mia e quella di Braucci che stiamo guidando la storia verso un nostro punto di vista.

Nei tuoi film i personaggi emergono spesso dai materiali espressivi (il repertorio, il sonoro) mantenendo un profilo di quasi totale invisibilità. Cosa ha significato, questa volta, far interagire la potente messa in scena dell’archivio con una presenza attoriale così visibile e accentratrice come quella di Marinelli?

Ogni film comporta un lavoro diverso dagli altri. Io sono per la ricerca e la sperimentazione, non credo nella replica. In questo caso ho sicuramente osato riguardo alla possibilità di avere più linguaggi insieme: il cinema sperimentale d’archivio (il mio metodo di riferimento) e parallelamente una finzione apparentemente “da neorealismo rosa”.

Mi piace filmare, ma la verità è che mi piace far diventare archivio anche quello che filmo, facendo lavorare le immagini riprese come se fossero immagini di repertorio. Sicuramente avevo bisogno di un attore solido come Marinelli, che non aveva bisogno di essere imboccato e aveva la stoffa di interpretare un personaggio come Martin Eden. In più un volto moderno, del nostro tempo. Però io sono “altrove”. Il mio mondo, come dicevo, sono gli archivi, il contrappunto, e ci ho portato dentro anche Luca. Posto che ognuno ha il “suo” Martin e con ogni probabilità il mio è diverso dal suo, tra noi c’è stata subito un’incredibile sintonia. Le scene finali le abbiamo girate io e lui soli, senza troupe, solo con i fuochisti. Mi ero fatto togliere lo start così nessuno poteva interromperci. Gli ultimi giorni sono stati una vera “Caporetto”, ma in quei momenti abbiamo raggiunto uno stato di grazia.

Pensi che lo spettatore contemporaneo si stia educando a questo nuovo tempo (e spazio) del racconto? Intendo un racconto fondato sul conflitto ibrido di più registri compositivi, più che sulla linearità della storia.

Così come i bambini nascono tutti bravi e la responsabilità di come si formano è dei genitori e dei maestri, così anche gli spettatori vanno educati. Quando scrivo e realizzo un film però non penso alla reazione del pubblico, penso a fare ricerca, a sperimentare sulla forma, confidando in uno spettatore che ritrovi il tempo di fermarsi a pensare e che, evolvendo, si lasci sollecitare.

In ogni caso non posso ragionare su questo passaggio per passaggio. Se la testa si muove troppo il film non si fa, io monto le immagini “sentendole” più che “pensandole”. Mi interessa il sentimento più che l’attenzione. L’estetica c’è ma deve esserci anche qualcosa di felicemente “incontrollato”, siamo tutti già troppo cervellotici nella vita. In effetti, quando mi sono chiesto perché impazziscano per i miei film soprattutto in Spagna (in Francia piacciono, ma in Spagna diventano pazzi), mi sono detto che gli spagnoli cercano per natura una passione più primitiva, quasi primordiale.

Anche la questione della critica è una questione importante. Il problema è che non c’è più Serge Daney. Prima la figura del critico aiutava quella dell’autore a “fare meglio”, adesso non è più così. Io sono molto selettivo nel guardare i film. Non sono snob, ma cerco di formarmi un gusto da me.

Ad esempio? Quali sono i tuoi film/autori di riferimento?

Film sconosciuti ai più. A me piacciono i film imperfetti, di cui ricordo alcune sequenze. Non mi interessa ricordare le opere nella loro completezza. Anche all’interno dei miei film ci sono dei momenti di “cinema” che rivendico, ma non potrò mai rivendicarli nella loro interezza. Si tratta pur sempre di film scritti, e quindi imperfetti per definizione. Quando scriviamo, Braucci alla fine mi consegna il malloppo e mi dice sempre “tieni, piangitelo tu”. Forse solo Melville o Kubrick riuscivano davvero a mettere l’anima già nella parola. È difficile recuperare l’aspetto alchemico del cinema attraverso la scrittura. Ho letto la sceneggiatura di Stalker (1979) di Tarkovskij, “leggere” il lancio dei dadi non rende affatto.

Sono prevalentemente uno spettatore di cinema europeo. Amo il cinema di Michail Romm: Eppure credo (1974), l’ultimo film incompleto e portato a termine dai suoi studenti, è per me un riferimento essenziale. Kalina Krasnaya (1974) di Vasilij Šukšin è uno dei miei film preferiti (da lì viene l’ispirazione per il carteggio tra Enzo e Mary ne La bocca del lupo), un altro film che mi viene in mente è Monologue (1972) di Averbakh. Della Nouvelle Vague reputo Resnais al di sopra di tutti. Passando al cinema italiano, penso subito a Soldati (che faceva anche grande televisione) e a Castellani (Due soldi di speranza, ad esempio).

Non sono per la pornografia visiva: gli eccessi alla Greenaway, per capirci. Non mi dissocio, ma non guardo. Sono per gli spazi vuoti e per le sottrazioni dei film di Antonioni, per il non mostrare di Nuit et bruillard (1956) più che per le inquietanti messe in scena di Oppenheimer. In questo momento mi sto dedicando a ricerche su un’allieva di Romm, Ljudmila Volkova, figura pressoché sconosciuta ma vera inventrice del montaggio a distanza.

Prima hai detto che il documentario è per te prima di tutto una via d’accesso alla libertà, uno strumento — forse lo strumento indispensabile — affinché la realtà si trasfiguri in un racconto.

Rossellini parlava di “metodo”. Condivido a pieno questo termine: il metodo consiste nell’aprirsi all’imprevedibile, legandosi alle pulsioni del reale, alle spinte sociali che si incontrano. Anche Olmi ce lo ha insegnato con un film come Il tempo si è fermato (1958): il documentario è innanzi tutto uno strumento di formazione, da un punto di vista etico e da un punto di vista meramente attitudinale. Bisogna essere pronti a tutto: a montare in macchina, ad esempio, cosa che io faccio ancora oggi regolarmente. Credo nella necessità e nell’essere tra la gente, come dicevano Gor’kij o Hemingway.

Da giovanissimo organizzavo con Braucci rassegne di film nei cinema scalcagnati di Napoli: mi ricordo che pensavo all’importanza del desiderio, e a quanto questo sia inversamente proporzionale ai mezzi che si hanno a disposizione. Io ho iniziato come pittore e ho felicemente ripiegato sul cinema. Ma sono stato anche falegname, fabbro, restauratore. Ho viaggiato, mi sono come si dice “riempito la lista”. Sono convinto che al cinema sia più giusto arrivare tardi, e non “entrare dalla porta principale”, come dicono oggi nelle scuole sparse per l’Italia. Il cinema è in effetti un circo, un’arte “cialtrona”, e il regista di questo baraccone è il principe. Accanto al circo, ad una massa di macchinosi replicanti, c’è quella che io chiamo la “flottiglia”: cinque o sei persone scelte, supereroi che al tecnicismo e alla specializzazione preferiscono il “saper fare”. Il mio modo di concepire il cinema, l’ho già detto, non è moderno. Ai 24 K preferisco un’immagine in pellicola che resiste alla messa a fuoco.

La storia del cinema l’ha decisa l’economia, cioè Hollywood. Ma questo l’ha resa una storia non lineare: le vette più alte sono state raggiunte dal cinema muto delle origini, dalle avanguardie sovietiche. Una sperimentazione artigianale che, oggi, può solo essere ripetuta. Il sogno di tutti, lo scriveva Sokurov e ha provato a farlo ne L’arca russa (2002), è quello di andare “oltre” il montaggio, oltre la costruzione. Ma la vera mancanza del cinema — la sua perenne insaziabilità — sarà sempre rivolta al puro gesto poetico. Non la poesia spicciola, ma l’atto del poeta, è il territorio inesplorato del cinema.

Share