Partiamo dal tuo libro Il trascendente nel cinema (Schrader 2002), alla cui base mi sembra ci sia questa domanda: come coniugare immanenza e trascendenza, essenza e apparenza? Una questione, filosofica ed estetica, che ha radici lontane (Platone e Plotino) ma che riguarda anche molto direttamente il cinema. Tu sostanzialmente ti chiedi: come può quest’arte materialista, profana – figlia del capitalismo e della tecnologia –, il cui specifico, come aveva scritto Bazin, è la riproduzione mimetica del mondo fisico, rappresentare il Sacro, l’invisibile, o per usare un’espressione di Rudolf Otto che tu citi, “il Completamente Altro”? Come può il cinema raggiungere lo spirituale attraverso il materiale, attraverso quei corpi con cui ha necessariamente a che fare anche in epoca di immagini digitali? Questo è un problema che riguarda non soltanto la tua riflessione teorica ma anche la tua attività pratica di sceneggiatore e regista.

È stato proprio questo il motivo per cui ho scritto il libro. Ero molto giovane quando l’ho scritto, forse anche troppo giovane, però avevo veramente un desiderio forte di scrivere di queste cose, avevo l’impressione che se non l’avessi scritto subito forse non sarebbe mai più venuto il momento di farlo. Ero appena uscito dal Seminario e avevo alle spalle studi teologici, religiosi e di conseguenza sentivo molto fortemente l’argomento. Di tutte le forme d’arte, il cinema è quella che meno si adatta a esprimere la spiritualità e la trascendenza. In realtà, per restituire il senso della spiritualità, della trascendenza nel cinema bisogna creare una sorta di “anti-cinema” e andare contro tutto quello che il cinema rappresenta, cioè il movimento, l’empatia nei confronti dell’attore, l’emotività: ripeto, per esprimere il sacro ci vuole un “anti-cinema”. Questo tipo di cinema l’ho sempre capito e apprezzato ma non l’ho mai praticato. È un tipo di cinema anti-commerciale, di conseguenza sono pochi i registi che oggi si muovono in questo territorio. Gli unici esempi di cineasti contemporanei interessati a questi temi credo siano Alexander Sokurov o il Philip Gröning di Il grande silenzio (2005). Ma sono appunto casi isolati.

A proposito di empatia, tu utilizzi questo termine – facendo riferimento a Worringer e opponendolo all’astrazione – nel capitolo su Dreyer, per dire che lo stile trascendentale in sostanza è un passaggio dall’empatia all’astrazione. Questo passaggio, come scrivi nel tuo libro, si realizza pienamente nel cinema di Ozu e Bresson e in parte in quello di Dreyer. Dove si pone invece il tuo cinema? Sicuramente dalla parte dell’empatia…

Dopotutto, sono un regista americano!

Anche se questo polo dell’empatia è molto presente nei tuoi film, ciononostante in essi c’è una tensione spirituale e una tensione al sacro che passa attraverso il corpo, attraverso quella dimensione materiale propria del cinema di cui dicevamo prima, e soprattutto attraverso il rapporto tra il corpo e il sacrificio del corpo stesso.

Sì, non lo nego, è così. È così perché questo è ciò che mi attira, che mi piace, ma non è un obiettivo che mi pongo: è il mio modo di essere. Questa sta diventando una conversazione molto strana per me, perché mi riporta indietro a quarantacinque anni fa e ora posso dire che invece, finalmente, mi sento ateo. Ho combattuto una mia battaglia interiore per moltissimi anni per percepire un valore diverso della vita, un valore religioso, ma ora mi sento, e sono, ateo. Ho raggiunto finalmente una mia pace, una mia tranquillità perché accetto l’idea che la mia vita non ha più significato di quella del mio cane. Ho dedicato molti sforzi a questa mia ricerca interiore e direi che il colpo finale è stato quello dell’11 settembre, quando veramente ho avuto la nausea di quello che la gente riesce a fare in nome di un dio, di una religione; allora mi sono detto basta, basta… e tutto quello che si può fare in nome di Dio è sbagliato. Questo mi ricorda il libro di Robert Wright, L’evoluzione di Dio (2010), l’autore anche di The Moral Animal (1994). In questo libro Wright spiega come l’idea che l’uomo ha di Dio sia in realtà un’idea in continua evoluzione, un continuo ridefinire l’idea della divinità.

Sempre nel Trascendente nel cinema metti al centro la questione dell’immagine, al di là del cinema, risalendo alle fonti del dibattito tra gli iconofili e gli iconoclasti. Questo concetto dell’immagine come tramite per l’invisibile è centrale in un’arte materiale come il cinema, un’arte dove la materia dei corpi è sempre presente, e che quindi ha alla base la necessità di raffigurare. Ciononostante l’iconico, l’idea dell’icona diventa un tramite, un passaggio, non tanto perché si manifesti una divinità e quindi un dio, ma perché si manifesti uno stato diverso della materia. Mi chiedevo, prima dicevi di aver scoperto di essere ateo, se non credi che ci sia la possibilità che una materia, che qualcosa di materiale, di materialistico, sia di per sé sacro, senza bisogno di un dio.

Questo è il problema. Fin dai tempi primitivi, ancora prima della comparsa dell’icona in quanto tale, c’è sempre stata l’adorazione dell’immagine, l’adorazione di una forma prima ancora dell’adorazione di un volto umano. È un qualche cosa che è insito nella nostra stessa natura, però non so se questo essere insito nella nostra natura sia a sua volta frutto di un’evoluzione dell’uomo o se sia un qualcosa che è stato sempre presente nell’uomo dall’inizio. Per tornare a Robert Wright, lui sostiene che l’uomo è nato in origine senza moralità, un non-morale, ma che è diventato un animale morale per sopravvivere meglio, perché un animale morale sopravviveva meglio, aveva più chance di sopravvivenza che uno senza moralità, e un animale timorato di Dio aveva ancora più chance di sopravvivenza di uno non timorato di Dio, e quindi non so se è un frutto di un’evoluzione oppure se è parte della vera essenza umana originaria.

E che rapporto esiste tra la morale e la legge: la morale è la legge o la legge è la morale?

Penso che la legge rifletta in realtà la morale di un determinato momento storico. La morale che abbiamo noi oggi non è la stessa di cento o duecento anni fa. Oggi noi consideriamo immorale la schiavitù e pertanto la legge la condanna, la esclude, mentre duecento anni fa la tollerava. Tutta la storia dell’essere umano è contrassegnata dall’accettazione della schiavitù che una volta era la norma, e quindi è soltanto in tempi recenti che la si è esclusa dalla nostra morale. Quindi possiamo senz’altro dire che la legge come la morale hanno un carattere di relatività. Pensiamoci un po’: perché a un certo punto abbiamo cominciato a pensare che la schiavitù era qualcosa di sbagliato? Dopo la Rivoluzione Industriale, quando per produrre certi beni e certe cose non occorreva più il lavoro degli schiavi perché c’erano le macchine che facevano il lavoro più duro. Ecco che allora l’uomo, l’essere umano, la nostra civiltà, ha potuto permettersi di dire “la schiavitù è cattiva, è immorale” perché quel lavoro che prima facevano gli schiavi ora lo fanno le macchine. E questo è un ottimo esempio, secondo me, molto emblematico, di come la legge segua la morale che a sua volta segue la tecnologia. Henry Kissinger a un certo punto disse che tante cose nella vita si ripetono, hanno un andamento circolare, sono soltanto due i fenomeni che hanno un andamento lineare: uno è lo sviluppo tecnologico, l’altro è la democrazia che a sua volta procede in parallelo con lo sviluppo tecnologico.

Tornando alla questione del sacro, anche Pasolini, di cui però nel libro non ti occupi direttamente, parlava del sacro come di una questione di stile. Per esempio, a proposito di Accattone (Pasolini, 1961) diceva che la religiosità del film non risiedeva nei contenuti ma nella sacralità tecnica del vedere il mondo, oppure diceva che non c’è niente di più tecnicamente sacro di una lenta panoramica. Il sacro quindi come una questione di stile…

Sono d’accordo con quello che diceva Pasolini, però mi sembra che lui non riflettesse questo pensiero nel modo di fare i suoi film. Quello che hai detto è giusto, tuttavia i film di Pasolini più che avere un contenuto spirituale, secondo me, sono dei documenti sociali. Ad esempio Il Vangelo secondo Matteo (1964) è un documento di carattere politico-sociale e non un film sulla spiritualità in quanto tale. È tanto tempo che non vedo i suoi film, però ripeto ho piuttosto la sensazione che Pasolini in realtà amasse soprattutto essere provocatorio nei suoi film, anche se può darsi che io non gli abbia mai dato il giusto merito. Comunque considero Pasolini un commentatore di questioni sociali piuttosto che una persona che si è occupata di spiritualità.

Se si toglie dal discorso della rappresentazione, dello stile, il dato ideologico, quello che però resta, non solo in Pasolini ma per esempio anche, o soprattutto, nel cinema di Buñuel, è il rapporto, di nuovo, tra l’eros dei corpi e una certa cerimonialità, una certa sacralità. Nel tuo cinema questo rapporto, non solo tra il corpo e il sacro, ma tra l’eros e il sacro, è quasi sempre presente. Vorrei sapere se questo rapporto per te è importante.

Quando si mescolano eros e sacralità si combinano solo guai. Se confondi il Diavolo con la Madonna sei veramente nei guai!

Parliamo del rapporto tra l’umano e l’animale, spesso presente nei tuoi film, ad esempio in Il bacio della pantera (1982). Pensi ci sia una sorta di osmosi tra l’animale e l’umano e quanto, secondo te, questo rapporto ha a che fare con la sacralità?

Sono d’accordo, è una questione presente in molti miei film. È centrale nel mio ultimo, Adam Resurrected (2008). L’idea, la metafora che sta al centro della storia è proprio quella del rapporto tra l’umano e l’animale. Il film è tratto da un romanzo di Yoram Kaniuk che ha come sfondo l’Olocausto. Quando ho letto il libro mi ha colpito una metafora potente e originale: la storia di un sopravvissuto all’Olocausto alle prese con la sua nuova vita all’interno di un manicomio e con la nuova amicizia con un giovane paziente cresciuto come un animale. Il film è in sostanza la storia di uomo che una volta era un cane che incontra un cane che una volta era un ragazzo e si riconoscono entrambi come cani… idea che trovo straordinaria. Il titolo originale del libro, è, non a caso, Adam, Son of Dog. Un’altra ragione per cui ho deciso di girare questo film è la scena finale nel deserto tra i due protagonisti: l’ebreo Adam, clown e imitatore, imitatore anche di animali, che con l’avvento del nazismo viene internato in un campo di sterminio, e il comandante nazista Klein, che qui lo costringe a trasformarsi in cane, a comportarsi come il suo cane lupo. In origine la scena ricordava l’episodio biblico della lotta di Giacobbe con l’angelo. Ma non aveva senso perché, in questa scena, Adam è reale mentre Klein è frutto dell’immaginazione di Adam. Allora lo scenografo del film mi ha detto: “Perché non rifai quella cosa che hai fatto in Dominion (Schrader, 2005) e che avevi rubato da L’ultima tentazione di Cristo (Scorsese, 1988)?”.

In questo tuo ultimo film, in molte parti, è ricorrente la metafora della resurrezione: il protagonista sembra morire diverse volte e poi risorgere. Ma c’è anche una seconda resurrezione, quella del ragazzo, che ricorda la resurrezione di Lazzaro…

Come dicevo prima, il titolo originale del libro è Adam, Son of Dog. Mi piaceva molto questo titolo, credo anche che fosse migliore di Adam Resurrected. Ma quando il libro è stato pubblicato negli Stati Uniti, negli anni Settanta, l’editore ha cambiato il titolo in, appunto, Adam Resurrected. In effetti nel libro non c’è molta “resurrezione”, c’è più resurrezione nel film.

Adam Resurrected è un film anomalo rispetto alla produzione cinematografica hollywoodiana. È un film che è difficile collocare all’interno del sistema dei generi cinematografici…

Sì, Adam Resurrected non assomiglia a nulla che io conosca e questo, in termini di mercato, non è proprio un vantaggio. Anche se mi piacerebbe lavorare di più con i generi, non mi viene naturale creare pensando secondo schemi prestabiliti. Credo che non si possa creare un personaggio, un film, basandosi su delle ricette ben precise. Se sento di voler creare un personaggio in un certo modo lo faccio anche se in quel momento nel farlo sono convinto di rompere delle regole, di violare certi principi; dopo invece vedo che la cosa ha funzionato e che in realtà non ho violato quelle regole e quei principi che mi sembrava di aver violato. In altre parole, non si tratta di prendere un libro di ricette, di regolette, un manuale, e di riempire un formularietto, perché se si facesse così il personaggio non avrebbe mai una sua vera vita. Quindi bisogna stare molto attenti, attenti a non razionalizzare troppo, a non seguire troppo le regole. Bisogna stare attenti a non pensare troppo. Ad esempio, recentemente ho scritto una sceneggiatura piena di azione e anche violenza e man mano che la scrivevo mi dicevo “magari questa è soltanto spazzatura”, ma mi diverto, mi piace, vado avanti così. Credo che questo sia l’atteggiamento giusto, se invece fossi stato lì a dire “ecco faccio una cosa importante, di valore”, magari veniva fuori una cosa sbagliata.

Parliamo del rapporto tra sacro e violenza. Sacro è un termine ambiguo e questa sua ambiguità, o ambivalenza, deriva in primo luogo dal termine latino sacer che traduce sia l’aggettivo “sacro” che l’aggettivo “maledetto”. Come ricorda René Girard, è criminale uccidere la vittima perché essa è sacra, ma essa non sarebbe tale se non la si uccidesse. La morte della vittima espiatoria (sacrificale) – il sacrificio del capro espiatorio (pharmakos) – è condizione essenziale per il rinsaldamento e l’unificazione della società. Dunque, in questo caso il processo di sacralizzazione è strettamente legato a un atto di violenza. Nel tuo cinema, nei film diretti ma anche in quelli sceneggiati per altri registi – e soprattutto, in quelli scritti per Scorsese, come ad esempio Taxi Driver (1976) –, mi sembra possa essere riscontrabile la riproposizione di questa struttura tragica, sacrificale, un percorso scandito per tappe in cui l’eroe diventa appunto vittima sacrificale, soprattutto nel suo essere figura cristologica.

Nell’Ebraismo e nel Cristianesimo non è possibile separare sacro e violenza. L’Ebraismo è un culto basato sul sangue, basato sul sacrificio degli animali. Nel Cristianesimo il sacrificio ha assunto soprattutto una valenza simbolica, ma al centro c’è sempre il sangue. Quando ero ragazzo, in chiesa ci veniva sempre ricordato questo legame con il sangue. Non è possibile insomma togliere il sangue dalla tradizione cristiana. La storia della cristianità ha radici nel sangue, basti pensare alle Crociate. Questo legame con la violenza è particolarmente forte ed evidente nel cinema americano. Ciò accade non perché il popolo americano sia violento ma perché è un qualcosa che ha a che fare con l’idea della nazione come frontiera e con l’idea della conquista che è ancora parte dell’identità americana. Pensiamo a quello che è successo in Vietnam o in Iraq: alla base c’è la convinzione che il destino degli americani sia quello di conquistare tutto il mondo.

Questa valenza simbolica del sangue e del sacrificio è molto presente nel tuo cinema, anche in quest’ultimo film…

Sì, sono d’accordo. Tuttavia penso che Adam Resurrected non sia un film religioso, “sacro”, anche se è scritto da un romanziere ebreo, sceneggiato da uno sceneggiatore ebreo e diretto da un regista con radici cristiane.

Tags     cinema, Paul Schrader, sacro
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