L’amore dei fantasmi

a cura di DANIELE DOTTORINI

Conversazione con Miguel Gomes tratta da Fantasma, il numero in uscita di Fata Morgana Quadrimestrale.

Aquele querido mês de agosto (Gomes, 2008)

Il fantasma è un elemento presente in forme molteplici nel tuo cinema, anche perché il cinema stesso, in più di un senso, ha a che fare con la dimensione del fantasma.

Il tema del fantasma mi affascina molto. Ne ho scritto in passato per alcune riviste e recentemente in Francia mi hanno chiesto di scrivere un breve saggio su I racconti della luna pallida d’agosto di Kenji Mizoguchi. Si tratta di uno dei più straordinari film sui fantasmi dell’intera storia del cinema, soprattutto un esempio stupefacente di come il cinema possa materializzare i fantasmi, renderli forme cinematografiche. È tra i film che sono stati più importanti per me, per cui mi incuriosisce molto che tu voglia impostare la conversazione proprio sul tema del fantasma.

“I racconti della luna pallida d’agosto” è un capolavoro della storia del cinema, ed è affascinante che partiamo proprio da qui per parlare di fantasmi…

Ricordi come appare il fantasma nel film? Lei appare per la prima volta in questo mercato all’aperto, ma in seguito lui entra dentro la sua casa, il suo palazzo. Vede le rovine, perché il palazzo è stato distrutto. All’improvviso però tutto cambia: lui si trova adesso all’interno del palazzo, il palazzo è sontuoso, arredato, abitato. Compaiono allora una serie di donne, delle domestiche, che iniziano ad accendere candele, una dopo l’altra. Per questo ti dico che Mizoguchi è uno dei registi più radicali che possano esistere in questo senso: dalla rovina all’apparizione dei fantasmi non c’è transizione, passaggio graduale, ma un unico stacco dato dalla luce. Tu, spettatore, e tu, personaggio principale del film: entrambi avete visto il palazzo in rovina e ora siete all’interno, e man mano che le candele vengono accese la luce inizia a cambiare, e con la luce cambia il mondo. E allora iniziate a credere a ciò che state vedendo, perché al cinema è tutta una questione di luce. In quel momento il fantasma appare e il mondo si trasforma di fronte ai nostri occhi, il paesaggio diventa bianco e noi crediamo a ciò che vediamo. Il passaggio della luce al bianco è il modo più semplice ed efficace che ha il cinema per materializzare i fantasmi.

Stai parlando di un cinema che non usa effetti speciali, ma gli elementi propri del cinema (i corpi, i movimenti, la luce), per rendere concreti i fantasmi. Mi viene in mente un altro film come “Histoire de Marie et Julien” di Jacques Rivette, dove il fantasma non appare né scompare, è semplicemente lì, nell’inquadratura, al tempo stesso materiale e immateriale come tutti gli altri corpi del cinema.

Perché questi film creano una relazione di fiducia con lo spettatore, e hanno fiducia nello spettatore. Chi vede è portato a credere, sceglie di credere in base a questa fiducia, per cui non c’è bisogno di alcuno sforzo particolare, trucco o effetto speciale per convincere. Ti faccio l’esempio di un altro film, The Fog di John Carpenter. L’inizio del film è un prologo dove un anziano marinaio inizia a raccontare una storia. Poi arrivano la nebbia, i fantasmi e tutto il resto, ma all’inizio c’è un uomo che racconta una favola a dei bambini davanti al fuoco, che lo ascoltano rapiti.

È sempre la stessa dinamica: il motore di tutto è che i bambini vogliono credere ai fantasmi e l’anziano marinaio è più felice di raccontare, perché sa di avere un pubblico che può raggiungere, perché sa che i ragazzini vogliono credere ai fantasmi. Ed è la condizione ideale del cinema, che ha sempre a che vedere con la condizione dell’infanzia. Per chi è cresciuto, per chi è adulto è sempre più difficile credere, sospendere le nostre consapevolezze, le nostre conoscenze. Il cinema ha ancora quel potere di spingerci di nuovo verso quello stato della vita, quella fase durante la quale noi potevamo credere. Quindi quella favola raccontata nel prologo di The Fog è come le cose funzionano al cinema, è la regola del gioco.

È quello che ognuno di noi, soprattutto nel buio della sala cinematografica, vuole tornare a provare, quella sensazione di poter credere ad una storia, a dei personaggi, ad un mondo, quando hai uno schermo di fronte a te, o in un certo senso ci sei dentro…

Il problema, oggi come oggi, è che nella maggior parte del cinema che circola c’è un investimento, uno sforzo eccessivo nel cercare di farci credere alle proprie immagini. È sempre più difficile oggi credere, perché siamo molto più consapevoli di tutto, abbiamo perso parte della nostra innocenza. Quell’innocenza che uno spettatore più “giovane” (ma non in senso anagrafico) avrebbe potuto avere di fronte alla visione di Nosferatu di Murnau. In quel momento l’innocenza dello spettatore e la sua capacità di credere erano più grandi di oggi; noi oggi siamo tutti un po’ più cinici. Anche perché abbiamo visto troppi film che cercano di catturare lo spettatore, e personalmente non amo questo tipo di cinema in cui lo sforzo delle immagini è solo quello di convincermi che ciò che sto vedendo è la verità. Il pericolo di questo tipo di approccio sta anche nella posizione dello spettatore: più sono scettico, più mi sento difficile da convincere e più la mia posizione è passiva. Non sono io che faccio una scelta, che mi muovo verso il film, ma aspetto che sia il film a scuotermi. Il risultato è che il cinema mi risulta sempre più “incredibile” (unbelievable), eppure credere (to believe) è una cosa meravigliosa.

Credere ad una storia, a dei personaggi e a dei mondi è una decisione dello spettatore, deve esserlo e io credo che in passato fosse più facile rispetto ad oggi. Il passato della storia del cinema, ma anche il passato personale di ognuno di noi. Come adulti ci è sempre più difficile avere “fede” in qualcosa. E questo è forse il motivo per cui un certo cinema cerca di convincerci sempre di più, si sforza fino allo spasimo per farci credere alle proprie immagini, con metodi anche molto diversi tra loro, dall’iperrealismo alle nuove generazioni di effetti speciali. Per quanto mi riguarda, ottengono su di me esattamente l’effetto opposto.

Ti riferisci alla progettazione del film come macchina spettacolare, in cui la struttura narrativa, la costruzione artificiale di strumenti ed elementi del film fanno sì che sia difficile sorprendersi, perché di fatto c’è un solo cammino da percorrere?

Esatto, un cammino già segnato che non ti permette di muoverti all’interno del film, all’interno delle immagini. Film che creano percorsi unici e già previsti, non molteplici cammini.

Ora, perché questi sentieri molteplici abbiano luogo è necessario spesso creare figure fantasmatiche, diciamo così. Penso per esempio al finale di “Aquele querido mês de agosto” in cui Vasco Pimentel, il direttore del suono, dice di registrare dei suoni che non esistono, dei “suoni fantasma”, appunto, suoni che egli “desidera” ascoltare e per quello possono essere registrati. Ma quando Vasco Pimentel accetta di non registrare più quei suoni fantasma, quelle creazioni della mente, il film finisce. Quella sequenza porta con sé un’idea potente di cinema che caratterizza il tuo lavoro in fondo, che è il fantasma declinato come creazione, invenzione, desiderio…

Sì. Quella sequenza per me ha un valore particolare. Non so se rischio di apparire troppo romantico dicendo di aver sognato una sequenza così. In realtà non sono sicuro neanche di averla sognata, ma mi sono svegliato presto una mattina e avevo quell’idea, quell’immagine in mente – io e Vasco Pimentel che abbiamo quella discussione. Quella discussione tra me (il regista) e Vasco (il direttore del suono) è importante ai fini del film, ha un valore teorico, come hai evidenziato, ma in un certo senso è influenzata dalla figura di Vasco, che è talmente pazzo da poter veramente sostenere questo tipo di conversazione, in cui io lo accuso di registrare dei suoni che non esistono nella realtà.

Quando gli spiegavo che tipo di conversazione avremmo avuto, lui ha iniziato a parlare di “desiderio”, ha iniziato a parlare del fatto che il cinema non esiste solo nel mondo materiale, ma esiste nella nostra volontà, nei nostri desideri, nelle nostre paure. Ha iniziato a reagire in modo molto emotivo, immediato; quel tipo di reazione che noi tutti abbiamo in quanto soggetti dotati di emozioni. Dal punto di vista cinematografico lo si può dire anche così: c’è un mondo esterno, oggettivo, e ci siamo noi, connessi a questo mondo attraverso il sentire, attraverso le paure, attraverso proprio questo tipo di reazione emotiva.

Questo è ciò che permette di creare cose che non esistono nel mondo materiale, ma che esistono in noi, nelle nostre sensazioni, nei nostri desideri e pensieri, che sono altrettanto importanti del mondo materiale. E allora questo è il principio che sta alla base del film, di come si muovono i personaggi, di come funzionano i loro pensieri e di ciò che è alla base dei loro gesti. Perché questi desideri e queste paure sono ciò che permette di dare forma al loro immaginario, sia un immaginario individuale sia un immaginario collettivo. È importante raggiungere entrambi. Alla fine però avrà vinto quel coglione di un regista che dice al direttore del suono che vuole sentire solo suoni che esistono nel mondo materiale. E nel momento in cui il direttore del suono accetta questo diktat il film finisce, perché qualcosa si è indebolito.

Ecco allora il senso del fantasma cinematografico; ecco perché prima facevo riferimento al film di Mizoguchi: la potenza del cinema sta nel materializzare ciò che esiste come desiderio e come paura per noi, renderlo materiale. Il fantasma di Mizoguchi è completamente materiale, carnale, fisico, sensuale. È stato creato dal desiderio e dalle paure di quel personaggio maschile. Il cinema ha questa abilità: può afferrare i frammenti del desiderio individuale e collettivo, rimodellarli e creare elementi che si pongono allo stesso livello di tutti gli oggetti del mondo, allo stesso livello della realtà. È la cosa più radicale e più straordinaria che il cinema può fare. È la potenza di Frankenstein.

Mentre parlavi pensavo al cinema di Hitchcock, come grande modello di immagini che derivano dalla paura e dal desiderio. Questa capacità del cinema tout court di creare immagini del desiderio non teme allora la differenza tra finzione e documentario…

No, certo. Come ti ho detto prima, vanno di pari passo. Noi abbiamo il mondo e abbiamo la volontà soggettiva di trasformare e rileggere questo mondo. Entrambi sono elementi del cinema. Per quanto riguarda Hitchcock, è giustissimo pensare al suo cinema. Per il discorso sul fantasma è ovvio che il riferimento più immediato è La donna che visse due volte, dove l’ossessione del protagonista crea il fantasma della donna amata e al tempo stesso gli dà la forza per rendere reale questo fantasma, trasformarlo in carne, in essere umano. Nel caso di La donna che visse due volte è incredibile la capacità che ha il cinema di seguire la volontà di un personaggio. Quando Kim Novak riappare nel film, sequenza dopo sequenza diventa sempre più simile a Madeleine e questo in funzione del desiderio di James Stewart, del suo amore per il fantasma di Madeleine. Il cinema è sempre innamorato dei fantasmi.

*Il testo pubblicato è un estratto della conversazione con Miguel Gomes contenuto in Fata Morgana. Quadrimestrale di cinema e visioni, n. 36, Pellegrini Editore. 

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