
L’opera di W.J.T Mitchell – puntualmente introdotta in Italia dagli studi di Michele Cometa, Andrea Pinotti e Antonio Somaini – ha avuto un’influenza determinante nella svolta visuale delle discipline umanistiche e nella formazione della composita disciplina dei visual studies. Rilanciando l’iconologia di Panofsky, e intrattenendo un dialogo fecondo con la svolta iconica proposta dalla Bildwissenschaft continentale, testimonia la necessità di indagare il significato e l’agency delle immagini nel complesso orizzonte della cultura visuale contemporanea.
Vorremo isolare alcune urgenze che emergono dalle riflessioni che lei ha portato avanti nel corso degli anni. Sarebbe interessante se, a partire dal suo saggio Mostrare il vedere. Una critica della cultura visuale, potesse soffermarsi sul rapporto tra storia dell’arte e visual studies. Accogliere l’invito a un esercizio de-disciplinare non potrebbe significare salvaguardare la compresenza delle discipline e il loro dialogo contestuale piuttosto che affermare la loro profonda storicità?
No, non credo. Penso che la relazione tra visual studies e storia dell’arte si strutturi come quella tra linguistica e poetica. I visual studies sono il campo espanso in cui la storia dell’arte acquista senso. Sono un modo per far crollare la convinzione che nella storia dell’arte ci sia tutto ciò che c’è da sapere. Molti storici dell’arte hanno provato a guardare al di là… oltre la pittura, la scultura, l’architettura, inserendo queste discipline all’interno di un contesto più ampio. I visual studies ti permettono di fare questo. E allora io sono felice di studiare un dipinto assieme a uno spot pubblicitario, o di comportarmi come un etnografo, che studia la vita di tutti i giorni, il modo in cui le persone si vestono e si guardano. I visual studies possono rappresentare un’apertura a quell’arte che non è generalmente percepita come tale, come la pubblicità della Sprite o i cartoni animati sui dinosauri ad esempio, ma allo stesso tempo possono essere una modalità di resistenza critica, una sorta di licenza, un permesso per dire “ora posso togliere i paraocchi!”.
A proposito del carteggio con Gotfried Boehm, c’è ancora un dialogo tra iconic turn e pictorial turn?
Si, c’è ancora un dialogo. Lui è molto concentrato sulla tradizione estetica europea, su quella modernista in particolare, la mia è invece molto più americana e volgare. Il pictorial turn ha essenzialmente due dimensioni. È innanzitutto una svolta filosofica, un’uscita dal logocentrismo, quindi per me una versione del pictorial turn è rappresentata da Jacques Derrida, da Roland Barthes e da Ludwig Wittgenstein. Credo che molti filosofi soffrano ancora del fatto che il linguaggio dia molto, ma non dia tutto, soprattutto quando cerchi di purificarlo: c’è una frase bellissima di Wittgenstein, nelle Ricerche Filosofiche, che cito spesso: “Un’immagine ci teneva prigionieri. E non potevamo venirne fuori, perché giaceva nel nostro linguaggio, e questo sembrava ripetercela inesorabilmente”. Le interpretazioni di questo passaggio sono molteplici. Una volta ho chiesto a Richard Rorty se credeva che quest’osservazione rappresentasse una rinuncia di Wittgenstein a elaborare una teoria sul significato dell’immagine, e lui mi ha risposto di sì. Io invece voglio leggerla in un altro modo: la filosofia non può uscire dall’immagine, perché l’immagine giace nel suo linguaggio. Questa è la dimensione filosofica del pictorial turn, mentre la seconda è quella che definisco popolare: come vivere con le immagini digitali che ci circondano? Cosa significa confrontarsi con il loro impatto? Quali sono le potenzialità della nuova percezione che generano?
Nel saggio Addressing media, seguendo i rilievi di Raymond Williams, ha definito il medium come una “pratica materiale sociale” che è sia un “sistema che un ambiente” e che non sta tra il mittente e il ricevente ma li include e li costituisce. Il suo concetto di medium sembra molto vicino a quello foucaultiano di dispositivo. Ci sono dei collegamenti trai due concetti?
Ciò che io chiamo medium è in realtà molto vicino al concetto di dispositivo elaborato da Michel Foucault. È un ambiente complesso che include materiali, macchine, apparati e situazioni sociali. Il problema con il termine medium è che suggerisce un qualcosa di intermedio e definito allo stesso tempo. Sottintende che tutto sia al di fuori di esso, ricevente e mittente compresi, benché il medium in realtà li includa. La televisione, ad esempio, non è solo black box e tubo catodico, ma è anche lo studio, gli autori dietro le quinte, gli spettatori.
Nelle sue letture ha affrontato il tema della clonazione, problematizzandolo alla luce di alcune sue recenti considerazioni sul rapporto tra terrorismo e immagini. In che modo la duplicazione dell’immagine nell’età contemporanea è assimilabile al processo di clonazione genetica?
Il problema con le immagini che non sono picture, è che per fare qualsiasi cosa con loro, per vederle, per toccarle, devono diventare picture. In biologia l’immagine è il DNA, il codice che ti fa assomigliare a tua madre, e che fa assomigliare tuo figlio a te. Le immagini sono indipendenti dai media; un’immagine può essere trasmessa dal linguaggio, può apparire in un dipinto, in una scultura, deve sempre materializzarsi e incarnarsi, e questo è ciò che fanno le picture. I cloni – che in teoria sono delle copie perfette, ma in realtà non lo sono mai – non sono picture nel senso proprio del termine, bensì immagini viventi.
L’iconoclastia islamica deriva dalla condanna dell’idolatria da parte della religione musulmana. Cosa pensa di una propaganda come quella jihadista fortemente incentrata sull’utilizzo di immagini che rappresentano simboli ritenuti sacri per la religione musulmana?
Si tratta di una questione molto ampia e problematica. Il taboo nei confronti delle immagini non riguarda solo quello della religione musulmana: il comandamento cristiano “Non ti farai idolo né immagine alcuna di ciò che è lassù nel cielo né di ciò che è quaggiù sulla terra, né di ciò che è nelle acque sotto la terra” proibisce non solo l’idolatria dell’immagine di Dio, ma anche delle cose terrene. Credo che l’iconoclastia non sia mai stata presa davvero alla lettera, perché è impossibile vivere senza immagini. L’iconoclastia è una sorta di scorciatoia verso la purezza. Riguardo alla jihad, vorrei prendere ad esempio le caricature apparse nel 2005 sul quotidiano danese Jyllands-Posten, che raffiguravano Maometto con una bomba al posto del turbante. Molti musulmani si sono adirati, ma la cosa interessante è che la maggior parte di loro non aveva visto le vignette, ne aveva solo sentito parlare. È bastato un semplice rumor per scatenare un putiferio, perciò è chiaro che la questione relativa all’utilizzo delle immagini nella religione islamica è molto delicata e contraddittoria. E per quanto riguarda l’uso delle immagini sacre nella propaganda jihadista forse il punto è che non tutti gli jihadisti sono veri musulmani.
Perché nel suo saggio Che cosa vogliono le immagini? ha sostenuto che il desiderio delle immagini può essere analizzato a partire da quello di due categorie che nel corso della storia sono state (o sono ancora) subalterne, vale a dire il genere femminile e gli uomini di colore?
Il motivo per cui ho avvicinato il desiderio delle immagini a quello del genere femminile e degli uomini di colore è perché credo che le immagini possano essere indagate, in quanto soggettività, a partire dalla domanda: “Che cosa vogliono?”. Tale quesito è stato posto da Sigmund Freud in relazione ai desideri delle donne e da Frantz Fanon in relazione al desiderio degli uomini di colore. Quando io mi sono chiesto “Che cosa vogliono le immagini?” molti studiosi si sono mostrati contrariati, soprattutto Rosalind Krauss e Hal Foster, hanno giudicato di cattivo gusto la mia domanda perché non sembrava appropriato trasferirla allo studio delle immagini dato che in precedenza era stata posta in riferimento a soggetti marginalizzati. Ma io volevo riconoscere e sottolineare proprio la debolezza delle immagini, questa è stata la mia motivazione, e la problematicità del rapporto tra immagine e linguaggio. È stato un esperimento. E forse, in fondo, una delle possibili risposte è che le immagini non vogliono nulla.
Riferimenti bibliografici
W.J.T. Mitchell, Addressing Media, in “Media Tropes”, vol. 1 (2008), pp. 1-18.
Id, Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, Raffaello Cortina, Milano, 2017.
R. Williams, Marxism and Literature, Oxford University Press, New York, 1977.
L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino, 1983.
*La conversazione è stata realizzata dagli studenti del dottorato di ricerca in “Visual and Media Studies” dell’Università IULM di Milano. La tavola rotonda è stata curata da Vincenzo Di Rosa.