Ci interessa molto lavorare sulle immagini che rappresentano e affrontano il problema della paura, delle paure. Per fare questo partirei dal suo testo (Le nuove paure: che cosa temiamo oggi?), nel quale lei parla di un groviglio delle paure contemporanee, segno di una forte trasformazione del ruolo che oggi la paura ha nell’esistenza e che lei lega soprattutto alla potenza del sistema mediatico.
Oggi più che mai siamo informati di tutto ciò che accade e questa massa di informazioni ci porta a connettere tra loro delle cose che non lo sono necessariamente. Sentiamo ad esempio che ci sono dei massacri in Medio Oriente o che ci sono dei problemi in Messico, e l’accumulo di queste informazioni produce una particolare visione del mondo in cui questi eventi sono collegati tra loro, creano una nuova immagine, una specie di terza dimensione che diventa inquietante. Beninteso, siamo allo stesso tempo presi dagli eventi che più strettamente ci riguardano. Se guardiamo i giornali, francesi o italiani, le prime pagine sono sempre dedicate a questioni locali, non si parla che di elezioni o di problemi politici; e tutto questo è sempre presentato in modo molto dettagliato. Quando si passa la frontiera, se ci sono episodi di violenza, ne siamo informati e abbiamo tendenza ad aggiungere tale catastrofe ad altre dello stesso tipo, a creare dei collegamenti. Io credo che questo contribuisca alla costruzione di un nuovo tipo di eventi che contribuisce allo sviluppo della paura.
Questa terza dimensione, questa costruzione/montaggio a cui lei fa riferimento trasforma il ruolo della paura. Come dice nel libro, la paura è fondamentale per l’esistenza degli individui, ma questa nuova paura provoca delle mutazioni anche antropologiche, vale a dire le reazioni che la paura provoca nella vita quotidiana.
La paura è in sé un comportamento assolutamente logico. Le cose che fanno paura e la reazione della paura funzionano come immobilizzazione, concentrazione dell’attenzione. Ma quello di cui stiamo parlando dà l’impressione di produrre una forma di paura che si lega al sentimento dell’impotenza, come qualcosa di fronte a cui non possiamo fare più niente. Pensiamo per esempio ai cambiamenti climatici. Noi proviamo un sentimento di impotenza di fronte a una minaccia che cresce, e che porta a qualcosa di inquietante e non prevedibile. Pensiamo anche a ciò che chiamiamo populismo. Pensiamo cioè al fatto che il punto centrale di ogni populismo è la ricerca di una figura protettrice: questo ha a che fare proprio con la sensazione di impotenza di cui parlavamo. Naturalmente ha a che fare con questo in senso generale, come regola generale, intendo. Se le cose non vanno bene, se abbiamo paura e ci sentiamo impotenti, all’interno della democrazia rappresentativa, si cercano dei responsabili; cerchiamo cioè delle figure concrete. Ed è la combinazione di queste paure di cui non si identificano le ragioni a portare a un comportamento persecutorio, come si diceva a proposito di alcune società: quando qualcuno è malato o qualcuno muore, si cerca il responsabile. La ricerca di una causa è un elemento comune a tutte le società e la causa la si vuole umana: la stregoneria passa da qui.
Queste nuove paure sono dovute all’insieme di una serie di fenomeni che non sappiamo gestire. La ricerca della causa è necessaria. Ma questa ricerca non è razionale, è una costruzione. Si può dire che la causa è il potere, i poteri, la scienza che si sviluppa senza prudenza e via dicendo; il tema dell’apprendista stregone, il non prendere le precauzioni: pensiamo alle catastrofi come Fukushima. Tutto questo può essere parzialmente vero, ma quello che si sviluppa è un vero e proprio sistema di spiegazioni che si articola in questo mondo anche con il lavoro dei media. Tra l’assenza di cause e la ricerca di cause si crea un sistema di rafforzamento della paura. Io credo che buona parte dei fenomeni ai quali assistiamo oggi in Europa abbia a che fare con tutto ciò. Una continua ricerca delle cause: o meglio, una ricerca di responsabilità senza aver perciò identificato chiaramente le cause.
Il problema dell’identificazione della causa non solo ha ricadute politiche molto forti, ma ha anche a che vedere con il problema della visibilità e dell’invisibilità dell’oggetto. Quindi con l’immagine. Il sistema dei media produce continuamente immagini ma queste non sono mai chiare. Quando lei nel testo parla del problema della distruzione del simbolico e quindi dell’assenza dei fantasmi, di un’immagine che permetteva di affrontare in qualche modo la paura tradizionale, afferma che oggi l’immagine della paura veicolata dai media è senza corpo, qualcosa di indistinto, indeterminato. In questo senso penso al cinema come qualcosa di diverso, come qualcosa che ha sempre tentato, fin dalle sue origini, di costruire un’immagine dell’invisibile. Una prima domanda è dunque se il cinema può essere distinto, diverso dal sistema dei media in relazione alla paura.
Il cinema è tutta un’altra cosa, soprattutto quello di finzione. Un cinema che cerca di costruire delle storie può giocare sulle paure. C’è tutta una tradizione cinematografica che cerca di indurre la paura per il nostro piacere. Penso per esempio a Hitchcock. In questo caso non è solo la forza dell’immagine che lavora, ma anche il montaggio. La suspense di cui Hitchcock era maestro. È una immagine che si indirizza a ognuno di noi individualmente. Ognuno di noi può avvertire le paure suscitate dalla storia del film.
L’immagine gioca un ruolo differente nell’attualità mediatica, di primo piano ovviamente. Abbiamo tutti presenti le immagini delle Torri Gemelle a New York con le persone che saltano nel vuoto. Abbiamo presenti le immagini dei cadaveri sulle spiagge della Sicilia; sono immagini che restano. Ma non le immagini singolarmente, quanto il loro accumulo: se un filo narrativo prova a unire le varie storie, le varie immagini, il risultato è una storia terribile che ci mette in causa perché noi siamo il ricettacolo, l’oggetto ultimo di questa vasta impresa di terrorismo. Detto altrimenti, non siamo all’interno della suspense narrativa come in Hitchcock, che noi immaginiamo per farci piacere. In questo caso noi possiamo immaginare di essere implicati. Siamo noi a fare questo lavoro. I media si accontentano di darci dei frammenti e il lavoro della paura spetta a ognuno individualmente. L’immagine ha da questo punto di vista un ruolo straordinario.
Ci sono degli ambiti nei quali l’immagine è impotente perché non possiamo immaginare; e, quando non possiamo immaginare, in noi si apre lo spazio dell’angoscia. Io individuo due tipi di angoscia: quella affine al legame tra cose disperse, ma anche quando l’immagine è impotente, e può dar luogo cioè a diverse reazioni; pensiamo ai pianeti che sono stati recentemente scoperti. Ogni volta che questo accade, ritorna la questione naïf: “Siamo soli nell’universo?”. È evidente che ci sono miliardi di sistemi solari nella nostra galassia e migliaia di galassie nell’universo. È statisticamente probabile che ci siano pianeti abitati. La domanda, quindi, introduce una falsa suspense da questo punto di vista, che non rende interessante la ricerca o l’attesa. Ma se facciamo lo sforzo, come Pascal, di immaginare questo spazio infinito, allora l’immagine può essere anche angosciante, per la sua capacità di ridurre l’individuo a un nulla. Una inquietudine che è dovuta al fatto che tutto questo è inimmaginabile, non può essere rappresentato. Dunque le angosce attuali, che sono perfettamente immaginate, poggiano su un fondo inimmaginabile ed è questo contrasto che forse accentua ancora di più la forza negativa della paura.
L’idea del montaggio si rivela sempre più importante. Anche i media utilizzano il montaggio, ma dalla sua lettura è come se la pratica e la teoria del montaggio mediatico fosse diversa dalla potenza del montaggio che si ritrova nella storia del cinema, da Hitchcock a Godard. Il montaggio è uno strumento operativo condiviso dai media ma non da tutti i media articolato allo stesso modo, anche in riferimento alla costruzione e all’elaborazione della paura. Inoltre, quando lei parla di impossibilità di immaginare la paura, fa pensare a un surplus di informazioni che non hanno un montaggio, e che ci impediscono in fondo di costruire un montaggio che ci permetta di rapportarci alla giusta distanza all’oggetto della paura. Citando Hitchcock ha parlato della capacità di costruire un montaggio della paura in grado di provocare piacere. È come se non riuscissimo più a costruire quella distanza necessaria.
Sì. Siamo davanti a un certo numero di fatti che in realtà non possiamo organizzare in un montaggio classico. Siamo disarmati di fronte alle sceneggiature che potremmo costruire. Io credo che uno degli elementi della paura e della frustrazione sia legato a questo. Se un giorno ci dicessero che è stato scoperto un pianeta abitato, proveremmo una fortissima curiosità nei confronti di una cosa del genere. Ma non abbiamo questa immagine e siamo pressati dalla responsabilità di un montaggio del quale non abbiamo i mezzi. E questo provoca una nuova paura. Pensiamo agli UFO, ci sono tante persone, anche serie, che hanno raccolto informazioni a tal proposito, tracce ed elementi presentati come prove. Prendete delle testimonianze di questo tipo e cercate di costruire una sceneggiatura. È difficile spiegarlo, ma quello che si cerca di fare è in fondo una sceneggiatura. L’impossibilità della sceneggiatura e al tempo stesso la sua necessità sono un elemento di questa paura. Se avessimo degli elementi precisi, delle conoscenze certe, io non credo che le persone sarebbero sconvolte all’idea che ci sia un pianeta abitato.
Per contro, il fatto che siamo immersi in una dispersione di elementi può provocare angosce e fantasmi di aggressione. In un certo senso è la stessa cosa per l’attualità planetaria. Pensiamo a personaggi come Putin, presentati dai media come imprevedibili e inquietanti. Possiamo allora immaginare sceneggiature orribili a partire dalla costruzione di personaggi. Siamo in un mondo post-sovietico, post Guerra Fredda, ma si può sempre credere che il passato può ritornare, che quella narrazione può ricominciare. Si hanno elementi parziali, brandelli di informazione dei quali si lascia immaginare la sceneggiatura possibile. Quando ci sono immagini ma non tutti i mezzi per produrre immaginazione, quando si chiama esclusivamente in causa l’immaginazione di chi assiste, allora si produce la paura.
In questo momento, su scala europea, pensiamo alla minaccia del populismo, pensiamo a Le Pen in Francia. Io credo che assistiamo all’emergere di una inquietudine reale. Quando si dice che “ci vuole qualcosa di nuovo”, si fa appello all’immaginazione degli elettori. C’è una versione ottimista e una inquietante. È vero che ci sono degli elementi di incertezza, di non conoscenza delle cose, come nel caso di Trump o di altre figure politiche. Non sappiamo cosa accadrà e si rinvia ai cittadini e agli spettatori medi di immaginare il seguito. E questo è un elemento di inquietudine perché non abbiamo i mezzi per immaginare cosa succederà, e l’assenza di sceneggiatura suggerita è un elemento di angoscia.
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