Gianni Vattimo

Nel discorso che ha tenuto novembre scorso in occasione del conferimento del premio Hannah Arendt a Brema, Lei disse che “una delle debolezze dell’Unione Europea sia quella di volersi costituire in una situazione di pace”. Georges Bush però dice che ci troviamo in una guerra. Quale influenza hanno gli sviluppi dopo l’11 settembre per la costruzione di un’Europa unita?

Credo che ci sia stato dopo l’11 settembre da prima un grande slancio di sostegno della politica di Bush, cioè un momento in cui noi tutti ci sentivamo americani, eravamo molto emozionati da tutte queste cose, e poi, quanto più Bush ha sviluppato la sua reazione, tanto più l’Europa ha cominciato a modificare un po’ i propri atteggiamenti. Era una tendenza che l’Europa aveva già prima, quella di tentare di costituirsi, non come un polo avverso agli Stati Uniti, ma come un polo altro, come una struttura altra. Già nei casi della guerra del Kosovo, per esempio, si era sempre più spesso parlato di una forza militare europea non identificata con quella americana, con la NATO. E qualcosa di questo genere si è rafforzato nei tempi successivi all’11 settembre, perché è sembrato a molti di noi che Bush, non che approfittasse della situazione del terrorismo, però che tendesse per qualche ragione americana fare una specie di sovrapposizione tra terrorismo internazionale, islamico o Bin Laden, e interessi strettamente propri degli Stati Uniti. L’idea di fare la guerra all’Iraq per abbattere Al Qaeda a noi ci convince poco. Non ha convinto neanche pienamente Blair, per esempio, perché anche Blair continua sempre a chiedere prove del rapporto tra Al Qaeda e l’Iraq.

Perché Bush farebbe questa politica? Perché crede, io temo, neanche in buona fede, perché finge di credere che bisogna fare la guerra all’Iraq per liberarsi dal terrorismo? Fondamentalmente, secondo noi, dapprima per ragioni interne. C’era stato tutto una serie di problemi interni agli Stati Uniti, Enron, quegli scandali finanziari ecc. che richiedevano una qualche sostituzione di bersaglio e niente di meglio che utilizzare l’attentato dell’11 settembre, l’Iraq ecc. come alternativa. Poi si è scoperto anche che c’è un interesse petrolifero notevole, contro il quale noi certo troviamo difficoltà a schierarci completamente, perché finisce per essere un interesse di tutti noi. Se la benzina costa meno ne gode anche l’Europa.

Resta così questo atteggiamento ambivalente dell’Europa nei confronti di Bush che, secondo me, in questo momento, comunque, tende ad essere un atteggiamento più negativo che positivo. Sebbene non ci sia la decisione di fare l’antiamerica qui, però, se devo giudicare da quello che seguo nei corridori del parlamento, altro è il parlamento, altro forse sono i governi, il consiglio, persino la commissione. Ma insomma, il parlamento ha un forte sentimento di rivendicazione di autonomia nei confronti degli Stati Uniti. E questo a me sembra buono, se fosse anche la ragione per cui ci mettiamo in movimento per fare meglio la nostra costituzione, mi va benissimo. Poi la politica verso gli Stati Uniti si modificherà via via secondo le convenienze, secondo l’equilibrio di forza, secondo il quadro mondiale.

Nella struttura di una costituzione europea che ha presentato il presidente della convenzione Giscard d’Estaing, si trovano valori come “la dignità dell’uomo, democrazia, lo stato di diritto, tolleranza. Tutto questo è giusto, ma non è nuovo. La storia è già stata scritta? Viviamo forse dopo la fine della storia, come disse Alexandre Kojève? E la “casa europea” non è in verità la casa di riposo dalla storia?

Questa è una domanda con molte possibili interpretazioni, perché da un lato è chiaro che l’Europa rivendica il suo diritto di essere una forte presenza nella storia contemporanea in base al fatto di essere stata il luogo dell’affermazione di questi valori. Persino la potenza egemone di oggi, gli Stati Uniti, è una filiazione dell’Europa, da questo punto di vista. Se poi questi valori sembrano un po’ ovvi e scontati, lì bisogna vedere due cose: Sono convinto anch’io che Giscard d’Estaing è un europeista tiepido, secondo me, non proprio entusiasta. Il suo insistere su questi valori qui, tra l’altro, credo che sia legato anche alla sua forte impronta francese, nel senso che alcuni di questi valori sono quelli della Rivoluzione francese, e quindi fondamentalmente Giscard qui rivendica anche una presenza della storia del pensiero, della cultura francese sull’Europa.

Non sarei tanto pessimista sul fatto che questi valori stiano alla base dell’Europa perché altro è rendersi conto che sono già quasi ovvi, se qualcuno va in giro con il cartello: viva la tolleranza! È difficile che qualcuno gli dica il contrario. In italiano avevamo una bella battuta, credo di Ernesto Rossi, che diceva: Quando il contrario di qualcosa è insensato, quel qualcosa è aria fritta, cioè non vuol dire niente. Quindi tutti questi valori da un certo punto di vista appaiano come chiacchiere. Però, dall’altra parte, è vero che quando ci si mette ad applicarli effettivamente, disturbano molte cose, perché l’uguaglianza, la tolleranza, i valori spirituali, tutte queste cose qui, sono come molte costituzioni europee. Anche in Italia noi abbiamo una costituzione che dice delle cose ovvie, ma appena si prova ad attuarle, c’è subito qualcuno che sta contro, perché disturba questo o quel privilegio. Quindi, sebbene capisca benissimo che andare in guerra per affermare questi valori forse sembra poco, perché sono ovvi, dall’altra parte, però, hanno sempre bisogno di essere rimessi in funzione, di essere rispolverati, per vedere se siamo in regola. Come ripetere il credo all’inizio dell’anno, insomma, un rinnovo delle promesse battesimali, si dice nella chiesa cattolica. Tutto sommato, le costituzioni hanno anche questo senso. Si tratta poi di attuare delle politiche che le applichino.

La maggiore età dell’Europa in confronto agli Stati Uniti con tutte le sue manifestazioni di vecchiaia, la sua esitazione e scrupolosità, la sua ambizione poco spiccata di fare ancora storia, potrebbe anche essere percepita come una forza dell’Europa. Lei è un esperto del cambiamento del valore della debolezza in una forza: crede che qui potrebbe trovarsi una via per l’Europa?

Sì, credo anch’io che se questa domanda chiarisce il senso della precedente, allora anch’io ritorno su quello che dicevo, non solo nel senso che i valori che abbiamo nominato possono sempre essere anche programmi in intervento, ma che forse l’idea di un’Europa un po’ meno spinta, un po’ meno motivata ad uno sviluppo intenso, intensivo, forse oggi è quello che ci vuole: è vero che per salvare il pianeta, mettiamo, per il problema delle energie non rinnovabili, dell’ambiente, tutto sommato oggi serve davvero una grande spinta allo sviluppo come quella che vogliono fare gli Stati Uniti che non a caso continuano con il petrolio? Mentre potrebbero tentare di sviluppare una ricerca sulle energie rinnovabili, su altre fonti d’energia. Non credo che serva seguire questo spirito dell’Entwicklung, dello sviluppo a tutti costi. Del resto, lo sviluppo è una forma di aggressività, è come quando ci si dice, per esempio, che dobbiamo aumentare le nostre conoscenze per stare con più forza nella competizione internazionale, in linea di massima uno dice: sì, certo, meglio che le industrie italiane siano più competitive perché se no i nostri vicini di casa o anch’io subisco delle conseguenze negative economiche, la fiat per esempio. Però dall’altra parte immaginarci sempre come in lotta con altri popoli, mentre noi vinciamo la competizione internazionale, magari gli indiani, i cinesi, gli africani la perdono.

In un mondo meno globalizzato del nostro, fino a duecento anni fa, questa aggressività si poteva ancora capire, non sapevamo niente o sapevamo poco di quello che succedeva in Africa, nell’America Latina ecc. Adesso immaginarci ancora in questa prospettiva di affermarci noi, e poi gli altri s’arrangino, sembra veramente poco, ed è tanto peggio perché, appunto, abbiamo molto chiare le conseguenze anche ecologiche di questa spinta totale dello sviluppo. Io sono convinto che ci sono dei momenti in cui le civiltà dovrebbero avere il coraggio di autolimitarsi dal punto di vista proprio del consumo, dell’aggressività verso la natura, dell’ affermazione contro gl’altri, perché altrimenti poi paradossalmente la natura si limita da sé, cioè fa scoppiare delle epidemie, fa diventare l’ambiente meno favorevole. Scoppiano non per natura, ma quasi naturalmente delle guerre per esempio. In un mondo molto globalizzato e molto competitivo prima o poi tutto si viene a una conflagrazione

Lei sta parlando di una auto-limitazione. Alcuni mesi fa ha parlato in proposito dell’Europa di un progetto che non si limita nessuna base naturale (lingua, razza, territorio). Questa è l’utopia di un’Europa senza limiti. Ma non è così che per potere includere bisogna anche potere escludere? L’Europa non ha bisogno di limiti territoriali?

Sì, questo io lo trovo problematico, perché siccome l’Europa, come dicevo, non è uno stato nazionale, non ha una tradizione nazionale da rivendicare come gli stati nazionali dell’Ottocento, anche di prima. Noi in Italia abbiamo avuto una lunga lotta di liberazione dallo straniero e di riunificazione dell’Italia nel risorgimento. Credo che quello fosse una cosa legittima da fare. Però oggi certamente questi valori certamente non sono più determinanti nel senso che, per l’Europa, non si può fare una rivendicazione di nazionalità europea. Questo però vuol dire che l’identità europea è più una identità culturale che di etnia, di lingue, di religione, di razza. Ma forse di religione anche nel senso che quando noi affermiamo i valori che dicevamo prima nella carta di Giscard d’Estaing, è difficile che anche un musulmano ragionevole non li accetti.

Allora dove fermiamo però l’Unione Europea? Io ho a lungo coltivato l’idea che l’Europa, proprio in quanto uno stato artificiale, non naturale, culturale e non di natura, potesse essere effettivamente un modello per uno stato cosmopolita, quello che Kant progettava, più o meno, uno stato mondiale, le società delle nazioni, l’ONU. Oggi devo dire, anche in connessione alle riflessioni che ho fatto al premio Arendt: sono un po’ più sospettoso di questo. Mi domando se una struttura libera che affermi la libertà, non richieda anche sempre una certa limitazione nei confronti di altri mondi. In Italia, durante il periodo del comunismo postguerra, cioè gli anni cinquanta, i comunisti dicevano spesso: da venir Baffone, che vuol dire, arriverà un giorno l’altro Stalin, contro l’ordine attuale. Stalin era baffone per via dei baffi. E adesso credo che sarebbe stato un guaio se fosse arrivato davvero Baffone. Però l’idea che un mondo multipolare, anche se non fatto da piccole nazioni, ma mettiamo, di tre o quattro grandi blocchi, possa essere più pacifico e libero di un mondo unipolare, io comincio a crederlo sul serio. Lì la cosa la riferivo alla Arendt, perché lei da qualche parte dichiarava di preferire comunque una polis relativamente limitata piuttosto che uno stato universale omogeneo, come lo chiamava Kojève. Ora questo a me sembra importante. C’è una tendenza totalitaria dei sistemi integrati completi. L’economia, infatti, che funziona in base al profitto, tende in questa direzione, cioè il profitto e un fatto di sopraffazione vitale degli altri, insomma, guadagnare noi di più e gli altri di meno. Allora non mi stupisce che l’economia tenda a globalizzarsi, del resto Marx l’aveva previsto in qualche modo. Sempre meno capitalisti e sempre più proletari. Io che per tanto tempo ho pensato che questa è una profezia che non stava in piedi, adesso comincio a vederla realizzata, anche se non nel senso di una proletarizzazione delle classi povere, (perché magari tutti un po’ più ricchi sono,) ma, fondamentalmente che il capitale, che la ricchezza, che il potere si concentrino in sempre meno mani nel mondo, nel piano economico, mi pare che questo sia quello che succede.

Contro questo noi dobbiamo opporre un ordine politico globale? Sono molto incerto, in questo momento tendo a pensare che sarebbe bene opporre un ordine politico articolato, quindi, intanto semmai arrivassimo a uno stato mondiale, dovrebbe essere uno stato profondamente federale, cioè dove ci siano molte autonomie. In secondo luogo, in questo momento l’idea di uno stato globale mondiale non è attuale nel senso che comunque ci vorrà un bel po’ per arrivarci. Nel frattempo, è interessante costruire dei grandi poli che siano capaci di far da contro bilanciamento agli altri. Per esempio, l’Unione Europea io posso ormai pensarla per ora e per qualche secolo avanti, mettiamo cent’anni, come un polo abbastanza grande da poter resistere alla potenza egemonica degli Stati Uniti, ma non come modello di uno stato universale. Forse un giorno ci si potrà arrivare. L’idea federalista però è interessante anche da questo punto di vista che, mentre immagina una vita libera nel mondo come presenza di possibili alternative, dall’altra parte da anche una regola possibile per l’ordinamento interno di questa unità, cioè, io mi sentirei federalista sia perché penso a un mondo piuttosto federale che unificato, sia perché penso ad un’Europa federale anche nel senso delle libertà interne. Oggi la mia immagine di una società libera è piuttosto quella che permette, stimola al suo interno diverse comunità, molteplici comunità linguistiche, religiose, di gusti personali, di gruppi, e questo non è male, può funzionare.

Se pensiamo come paradossalmente il mondo era più sicuro ai tempi della guerra fredda che oggi… Al massimo c’era l’invasione dell’Ungheria, o della Cecoslovacchia. So benissimo che né gli ungheresi né i cecoslovacchi erano contenti di quel mondo. Ma non c’era la grande conflagrazione. In un mondo dove la potenza egemonica è una, come quello che si profila adesso, ci saranno moltissime azioni di polizia interne perché l’unico modo di rivoltarsi a quest’egemonia, non è tanto quello di favorire l’altro blocco ma quello di fare una rivolta anarchica interna. Quindi, un mondo egemonizzato da un unico potere è un mondo molto più disordinato, molto più insicuro, molto più “terroristico” di quello che conoscevamo prima. Naturalmente nessuna nostalgia per il mondo diviso in due blocchi, ma l’idea di trarre di lì almeno qualche lezione. Oggi siamo meno sicuri che quando c’era la guerra fredda. Come mai? Vediamo. Non torniamo certo indietro nei tempi della guerra fredda.

I suoi dubbi in riguardo a uno stato globale fanno pensare alle critiche che sono state fatte negli ultimi decenni contro il monoteismo, per ultimo da Jan Assmann.

Infatti mi è venuta in mente questa idea anche riflettendo sulla religione, perché mi sono domandato, se il senso del cristianesimo dovesse necessariamente essere quello di fare un solo gregge sotto un solo pastore, che poi questa è un’idea cattolica, neanche solo cristiana. E questo per molto tempo mi è apparso come l’ideale: abbiamo un solo Dio, abbiamo un solo Gesù Cristo, avremo una sola chiesa. Poi ho cominciato a riflettere anche su questo, nel senso che, prima di tutto mi sembra poco verosimile che tutte le religioni extra-cristiane, sia prima del cristianesimo, sia oggi, siano l’errore assoluto. Quello che dico sempre: il papa, quando incontra il Dalai Lama, si preoccupa del fatto che il Dalai Lama andrà all’inferno perché non è cattolico? Non credo. Pensa al fatto che tutti e due lavorino per una spiritualizzazione dell’umanità, per un trionfo della religiosità, ma certo non si mette lì a tentare di convertirlo.

Questo è un esempio banale ma che mi sembra interessante perché, primo già la teologia cattolica, quando pensava ai buoni, ai santi, prima dell’avvenuta di Cristo, doveva trovare un modo di salvarli. Non si poteva dire: sono andati in inferno. Allora c’erano i giusti dell’antico testamento, persino l’idea che Gesù sia disceso all’inferno, come dice il credo, perché è andato a liberare quei giusti lì. E questi giusti che vivono in mezzo all’Afghanistan, che sono musulmani, che o non hanno ricevuto la predicazione cristiana, oppure l’hanno ricevuta magari da missionari accompagnati dai conquistadores come Pizarro e Cortez ecc. Questi qui non dovrebbero essere salvati? Però se si allarga questo ragionamento si può pensare che l’incarnazione di Cristo, invece di smentire tutte le mitologie, finisca per autorizzarle in qualche limite. Espressione che io ho usato qualche volta per scandalizzare i miei ascoltatori: se Dio si è fatto uomo, non potrebbe essersi fatto vacca sacra, gatto, serpente piumato, cioè, che i simboli naturali della divinità non sono aboliti da Gesù Cristo, ma sono, anzi, avvalorati perché se Dio può farsi uomo, può essere presente in tanti modi.

Certo, io non mi sentirei di professarmi politeista, ma penserei al mio monoteismo come monoteismo talmente radicale da escludere che sia esclusivo, perché già quando dico: c’è un solo Dio, faccio un’affermazione che non mi sentirei di sostenere ontologicamente. Cosa vuol dire che Dio c’è? Dov’è? Qui? Là? Allora i positivisti hanno cominciato a dire: se non si vede, se non si tocca, se non si pesa, dov’è? Certo, è trascendente. Si d’accordo, ma: cosa vuol dire poi questo per noi, questa esperienza, soprattutto in una religione che afferma l’incarnazione di Cristo? Questo forse è ciò che oggi può attirare delle persone. Mi sono sempre domandato, come mai c’erano alcuni che si sono fatti musulmani. C’è un filosofo francese che a un certo punto è sparito dalla circolazione perché è diventato un musulmano ortodosso, Roger Garody. E io mi sono detto: ma possibile? Garody, si, era un marxista un po’ dogmatico, ma in fondo era uno che pensava: com’è che uno si fa musulmano. E io credo che una delle possibili attrazioni dell’islam sia questa di affermare un Dio ancora più spirituale del nostro, cioè che si è annunciato solo attraverso i profeti. Quando mi si dice: Ma l’islam è per la pura trascendenza, spiritualità di Dio, io capisco che si possa essere affascinati da quest’idea. In fondo questo è comune con l’ebraismo, per esempio, cioè, le due religioni del libro, a parte il cristianesimo, sono più assolutamente iconoclaste, non pensano dell’immagine di Dio, dell’incarnazione di Dio. La ragione per cui io mi sento comunque più attratto dal cristianesimo, primo è che ci sono nato dentro e quindi è facile che lo preferisca, due che in queste prospettive non c’è storicità, cioè, c’è sempre una specie di acosmismo. Il mondo non conta niente, perché tanto il rapporto che conta è quello con Dio. Se devo pensare ad un rapporto col mondo, riesco a pensarlo meglio in una situazione storica. C’è una storia della salvezza, c’è la creazione, c’è il peccato, ci sono i secoli della preparazione dell’avvento del messia. Tutto questo mi sembra più conforme all’esperienza della libertà, della progettualità ecc. Se no sono proprio come un uomo del deserto, il cammelliere che traversa il deserto vede solo il cielo e se, poi intorno non c’è niente. Quando arriva una città, è una cosa eccezionale.

Noi siamo persone di storia, in fondo, e se poi guardo lo sviluppo tecnologico dell’occidente… Sono andato due, tre volte in India, anche loro sono politeisti, tra l’altro…Là dove non c’è incarnazione, non c’è articolazione delle storia, c’è solo una trascendenza con una molteplicità di simboli, non c’è sviluppo. Certo, tu dici, ma se pensi sempre allo sviluppo, si capisce che sei dentro poi alla solita logica occidentale della costruzione, della produzione. Però mi sento soffocare dalla mancanza di storicità che si manifesta in una società ancora di caste, immobile dal punto di vista del movimento della società. Uno è nato paria e paria rimane. E l’altro viene dai brahmani. Vedo una serie di differenze favorevoli al cristianesimo in tutte queste cose.

Lei ha appena detto che all’ebraismo e all’islam manchi entrambi la storicità. Ma l’ebraismo non è in verità molto più storico dell’islam?

Si, questo lo capisco benissimo. Però resta vero che c’è qualcosa di comune nell’islam e nell’ ebraismo, in quanto la storicità è sospesa. Non per niente personaggi come Derrida o Adorno o Levinas stesso, certo, non si confondono con gli islamici. C’è una certa storicità, ma una storicità problematica senza fine. Adorno ha inventato la dialettica negativa: il messia non è ancora venuto, e se venisse, sarebbe certamente una falsità, una falsificazione, tanto che i cristiani sono degli idolatri, sostanzialmente. Quindi questo semmai è la differenza tra ebraismo e islam, ma che io vedo più marcato nei confronti del cristianesimo, cioè, che quelle due religioni stanno più sullo stesso versante, anche se poi tra di loro oggi si odiano molto di più che cristiani ed ebrei, forse perché sono più vicini, si fanno la guerra ecc.

Nel suo libro “Credere di credere” Lei critica – con benevolenza – il tomismo e le correnti mistiche, ma almeno queste correnti erano vicine a correnti simili entro l’ebraismo e l’islam. La sua interpretazione avvicina il cristianesimo alla postmodernità, ma lo allontana ulteriormente dall’islam e dall’ebraismo. Oggigiorno, dove l’importanza del discorso interreligioso e aumentata, questo non è forse un problema?

Potrebbe darsi. Solo lo metterei in questi termini: che se io interpreto il cristianesimo non come la smentita delle mitologie o del politeismo, ma come un’autorizzazione delle pluralità delle religioni, è chiaro che non posso includere nelle religioni ciò che il cristianesimo autorizza, soltanto il politeismo indù, ma ci metto dentro le varie religioni come una forma di politeismo, non nel senso che queste religioni sono politeiste, certo l’islam non lo è e l’ebraismo non lo è, ma come un politeismo delle culture, cioè che ci sono molte vie. In domo Domini multae sunt mansiones, dice un passo di qualche vangelo. Ci sono molte vie diverse e ovviamente, quello che importa di più in questo caso, non è come si pensa la divinità, ma come si pratica la spiritualità.

Certe volte mi viene in mente che sia possibile pensare la validità delle molte religioni del mondo come la molteplicità degli ordini religiosi nell’interno del cristianesimo, del cattolicesimo. In fondo dominicani e francescani si sono sempre fatti la lotta, i benedettini e gesuiti non ne parliamo. Eppure sono come delle diverse forme di una spiritualità. Certo che hanno in comune che dicono il credo ovviamente. Però, secondo me, il cristianesimo nel futuro si salva non pretendendo di predicare la verità agli altri, ma predicando una fraternità che riconosce tutte le possibili spiritualità, le riconosce nel senso che non tocca al cristianesimo mettere un bollo per dire che van’ bene, però le approva, le lascia esistere, non lotta contro di esse, nella misura in cui sono delle religioni della fraternità. Capisco che questo è un modo molto secolare di vedere il cristianesimo. Forse persino Albert Schweitzer, quando cominciava a riflettere sulla storia del cristianesimo, aveva un’idea del cristianesimo come fondamentalmente un nocciolo etico, spirituale, che poi abbandonava le dogmatiche, se ho capito bene Schweitzer. E questo ai cattolici è sempre sembrato troppo poco. Ma perché? Perché abbiamo bisogno di una dogmatica precisa? Se poi il senso è: quando due o più di voi sono riuniti in nome mio, io lì sono. Ma sono solo lì. Non è che sono altrove. (Non) dice: Io sono sempre in chiesa, se venite, e poi però qualche volta vi trovate all’osteria, insieme, anch’io sono li. No, è che là non c’è. Questa presenza stravagante di Dio è solo nel dialogo, nella fratellanza, nella carità, io non riesco a vedere altro.

E quindi non mi scandalizzo se uno non crede alla trinità, addirittura, se uno non crede a Gesù Cristo, nel senso che, se pratica la carità, è come se ci credesse, senza averlo conosciuto bene. Qui però ci sono dei meccanismi molto complicati, per dire questo da un punto di vista cristiano, o addirittura cattolico. Perché: lo spirito della missione è del tutto da cancellare? Andate, predicate il vangelo a tutte le creature, battezzandole nel nome del padre, del figlio, dello spirito santo. Cosa vuol dire? Certo, i primi cristiani l’hanno inteso così: bisognava allargare la fede. Noi abbiamo avuto una buona novella e ve la trasmettiamo. Io da piccolo ho fatto il piccolo apostolo in un’azione cattolica, dovevo sempre convertire i miei compagni, non so se sia mai successo, sì, forse qualcuno, ma anche lì era un modo di farli entrare dentro una comunità dove si sentivano meglio, per esempio nella chiesa, in un gruppo d’amici, all’oratorio. Poi andavano a confessarsi, a comunicarsi. Per l’efficacia di questi sacramenti, a parte il fatto di appartenere a una chiesa che è una comunità, un insieme di persone che si amano, non so poi in che cosa consistesse. E anche qui sono convinto che lo stesso spirito missionario del cristianesimo debba essere ripensato in termini non più espansivi.

Il rapporto tra missionari e imperialisti nell’età moderna non era una cosa casuale. Certo, potevano evitare di scannare tanta gente. Ma fondamentalmente era così: Noi vi portiamo la civiltà, il potere, la struttura sociale. Oggi noi non possiamo più pensare questo, e questo non è solo un fatto di dire: con gli imperialisti non c’entriamo più. (È che forse dobbiamo ripensare anche lo spirito missionario della chiesa). Del resto, metti i piccoli fratelli di Gesù, quelli di padre di Foucault, quelli che vanno a stabilirsi in piccole comunità nel deserto del Sahara, e vivono aiutando altre persone: Non credo che tengano delle prediche tutti giorni dei comizi, dicendo: qui c’è scritto che Dio è trino, dovete crederci. E questo è la nuova forma della presenza nel mondo. Noi a Torino abbiamo due grandi centrali missionari: le missioni della Consolata e i Salesiani. Cosa fanno questi qui, soprattutto i salesiani? Vanno nei vari posti, mettono su delle scuole professionali per insegnare alla gente a guadagnarsi da vivere ecc. Certo, predicano anche il Vangelo. Non so cosa delle due cose sia più importante, Normalmente i missionari hanno sempre pensato che la seconda fosse meno importante. Bisogna insegnargli anche a trattare gli oggetti in modo che poi ci ascoltino sul piano religioso. Ma forse anche questa era un’astuzia della ragione, come direbbe Hegel, cioè: in realtà portano delle cose che sono utili e che sono utili alla salvezza in generale, non solo per la salvezza dell’anima.

*Intervista realizzata a dicembre 2002, inedita in italiano. 

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