Partiamo da una questione importante, il rapporto tra cinema e formazione. Pensando alla tua esperienza degli ultimi anni, cosa vuol dire passare dall’attività di regista a quella di insegnante nelle scuole di cinema o nelle università?
Era già successo in passato di fare da tutor sul set per alcune scuole di cinema (la Scuola Civica di Milano, ad esempio), negli ultimi anni sento però in maniera più evidente il passaggio “d’età” che fa sì che io sia chiamata a parlare del mio lavoro e a formare giovani studenti o aspiranti cineasti. Non si tratta più solo di fare esperienza sul campo ma anche di provare a raccontarlo, quel campo. Nella maggior parte dei casi tengo brevi corsi di tipo seminariale, laboratori pratici che invento un po’ più liberamente o masterclass in cui parlo dei miei film (come è successo al convegno sul cinema del reale a Palermo, lo scorso dicembre). Si tratta in ogni caso sempre di lezioni sull’utilizzo e la reinterpretazione dell’archivio nel cinema.
Molte lezioni le hai tenute all’estero, tra USA e Inghilterra, dove tu stessa ti sei formata e hai vissuto.
Sì, tutto è partito all’interno dell’accademia anglofona, tra Inghilterra, USA e Canada. Devo dire che questo ritorno nei luoghi in cui mi sono formata è stato per me molto gratificante. Parlo soprattutto di Londra, dove il contesto accademico è sempre riuscito a combinare la dimensione teorica con quella pratica e dove l’approccio ai film studies riesce ad associare i gender e i women studies (cosa che in Italia ahimé, accade poco). Il mio lavoro ovviamente si presta a questa prospettiva di analisi (gender, foundfootage), e, tra le giovani accademiche che studiano oggi il cinema delle donne e il riuso di materiali preesistenti, sono stata felicissima di collaborare con la mia professoressa di allora, Laura Mulvey. Circa cinque anni fa ho partecipato ad esempio a due settimane di proiezioni, seminari e incontri come guest fellow presso l’Università di Warwick.
A New York invece sei stata per più tempo, tenendo un vero e proprio corso. Chi erano gli studenti a cui ti rivolgevi e come erano strutturate le lezioni?
Dopo una serie di inviti in Inghilterra sono stata contattata da un docente della NYU di New York che mi ha chiesto di tenere un workshop di sette settimane (nella primavera del 2018) nel suo Dipartimento. Lui è in realtà uno storico e i suoi studenti erano quindi di storia e italianistica, ma già usava nei suoi corsi i miei film per raccontare la storia e la cultura italiana attraverso il cinema. Trovandomi di fronte ad allievi con i percorsi più disparati e senza un background in film studies, ho incentrato il corso sugli home movies chiedendogli di girare un breve corto (ovviamente rudimentale dal punto di vista tecnico) con i loro filmini di famiglia, o in alternativa di scrivere un breve paper sulle riflessioni portate avanti durante le lezioni. Nonostante solo due studenti fossero filmmaker, tutti hanno scelto la strada dell’audiovisivo utilizzando i super 8 del nonno e mescolandoli a riprese fatte con l’iPhone, facendo dialogare passato e presente attraverso le immagini. Sono rimasta piacevolmente sorpresa.
Durante il corso mostravi i tuoi lavori? O anche film di altri registi?
Entrambe le cose. Ho mostrato i miei film ma anche molti lavori di altri autori. Ti faccio qualche esempio: Tarnation di Jonathan Caouette (2003), in cui il regista utilizza i filmati di famiglia per ricostruire la malattia mentale della madre, Letters from Baghdad di Sabine Krayenbühl e Zeva Oelbaum (2016), un documentario prodotto da Tilda Swinton sulla vita e il lavoro di Gertrude Bell, spia del governo britannico in Medioriente negli anni ’40, Una storia americana – Capturing the Friedmans (2003) di Andrew Jarecki, un montaggio di super 8 del famoso caso di pedofilia all’interno di una famiglia americana negli anni ’80, molti lavori di Bill Morrison (che ho anche invitato a lezione essendo lui di New York), di Gianikian e Ricci-Lucchi, o del regista ungherese Péter Forgács. Ho mostrato anche alcuni esempi di super 8 utilizzati nei music video contemporanei, secondo me molto interessanti.
E del cinema italiano?
Dell’Italia ho riportato soprattutto le esperienze cinematografiche nate dal Premio Cesare Zavattini, in collaborazione con l’AAMOD, o il Re-framing Home Movies curato da Karianne Fiorini e Gianmarco Torri, ex collaboratori dell’Archivio Home Movies di Bologna, che consiste in un seminario di qualche mese alla fine del quale vengono proposti progetti di film con la possibilità di accedere ai materiali dell’Archivio Cinescatti di Bergamo, della Cineteca Sarda di Cagliari e dell’Archivio Superottimisti di Torino. A questi seminari ho partecipato anche io (assieme ad altri, Marco Bertozzi ad esempio), e i film che sono usciti da questo laboratorio sono di grande qualità. Basti pensare che l’ultimo lavoro di Sara Fgaier sulla scrittrice Annie Ernaux, Gli anni, è uno dei risultati del primo anno del premio. Altri esempi di film italiani che ho mostrato agli studenti sono l’opera collettiva realizzata da me e da altri colleghi (Marcello, Rohrwacher, Quatriglio, Bonfanti) per i novant’anni dell’Istituto Luce, 9×10 Novanta, o Redemption (2013) di Gomes.
A proposito di Italia, tu qui tieni diversi corsi in particolare sulla scrittura per il documentario. Cosa vuol dire scrivere un documentario? Esiste a tutti gli effetti un addestramento a un preciso metodo di scrittura, o si tratta piuttosto di educare all’individuazione di un dispositivo da attivare nella realtà, ideando una forma che venga fatta aderire al nostro “fuori”?
È vero, è strano già soltanto parlare di scrittura per un documentario. In effetti non esiste un vero e proprio “metodo” di scrittura, esiste più che altro un processo di ideazione. Durante i diversi corsi di scrittura che tengo qui in Italia mi ritrovo a raccontare come lavoro io, condividendo il personale percorso creativo che ha accompagnato la nascita di ogni singola opera. Insegno da tre anni alla Bottega di Finzioni, la scuola di scrittura creativa per il cinema (e non solo) fondata da Carlo Lucarelli a Bologna. Si tratta di corsi aperti a tutti ma frequentati in gran parte da persone adulte (trovi lo studente universitario ma anche la signora di sessant’anni). Il corso dura un anno e ogni anno devo inventarmi qualcosa di nuovo per avvicinare queste persone alla scrittura documentaristica. Se negli scorsi anni avevo pensato per loro alla realizzazione di un lavoro diviso in diversi episodi (ad ognuno il suo), quest’anno ho deciso di partire da una parola comune a tutti, “resistenti”, da applicare liberamente alla realtà che incontrano tutti i giorni.
Insegno anche a Milano all’Accademia di Brera e allo IULM, all’interno del Master “Arti e mestieri del Racconto” organizzato da Canova e Scurati. Qui (insieme ad altri professionisti: Scurati stesso, Garrone, Bertante) tengo un intero modulo di insegnamento per ragazzi appena usciti dalla triennale (non necessariamente da un Corso di studi in Cinema). In questo caso lavoro diversamente: affido ad ognuno un progetto individuale (a contenuto libero) focalizzando l’attenzione su come deve essere scritto un dossier per la preparazione di un documentario, dunque si tratta della forma discorsiva della presentazione del prodotto più che della sostanza di esso.
Invece laboratori di carattere pratico?
A volte ne faccio. Oltre al lavoro da tutor sul set, ci sono esperienze più “off”, per così dire. La dimensione pratica richiede un certo tipo di luoghi e di interlocutori (pochi, con una motivazione forte e precisa). Il caso più calzante e che più mi sta a cuore è quello della Stazione di Topolò – Postaja Topolove nel paesino di Topolò, disperso nelle valli al confine tra Friuli e Slovenia, a cui partecipo tutte le estati ormai da anni. L’anno scorso abbiamo organizzato un laboratorio di montaggio di super 8 assieme ad una studentessa di Roma del CSC e un giovane montatore sloveno. Il titolo era Visioni di scarto. Omaggio a Žerjal (Aljoša Žerjal, un documentarista sloveno) ed era pensato come un cantiere aperto, uno spazio di esplorazione delle immagini immortalate da una camera super 8 più di quarant’anni fa. Il risultato, di cui sono molto soddisfatta, è stato presentato alla fine del Festival e sonorizzato dal vivo da musicisti professionisti. Quest’anno alla Postaja (in luglio) ho invitato Sara Fgaier a presentare il film a cui accennavo prima e con lei due ragazze del Lab80 di Bergamo che hanno passato mesi a raccogliere super 8 nel bergamasco girando con un furgoncino (stile Visages, villages) e organizzando proiezioni e installazioni performative con musica dal vivo. Un tipo di performance adatta ad un territorio di confine come quello di Topolò, in cui forse potrà essere avviato un progetto simile il prossimo anno.
Durante la tua carriera hai sperimentato anche la forma dell’installazione. Anzi, in un certo senso sei partita da lì.
Agli albori della carriera sono stata aiuto regista di Paolo Rosa e negli stessi anni (era il 2000) ho partecipato con Studio Azzurro ad un’installazione per la Biennale Architettura all’Arsenale (in un’epoca “pre-tecnologica”, quando era ancora un unico spazio): si trattava di 39 schermi sulle megalopoli, avevamo raccolto diverse riprese in giro per il mondo e le avevamo montate con l’aiuto di Ilaria Fraioli (poi montatrice con me dei miei film). Non ricordo di aver preso parte a progetti simili fino al 2005, quando sono stata invitata all’Hangar Bicocca a Milano (prima che venisse ristrutturato, era ancora molto “grezzo”) per una serata dance. Ho messo insieme diversi materiali amatoriali girati da mio nonno, li ho rimontati e sono stati proiettati in loop sotto forma di trittici verticali mentre si improvvisava della musica live (ricordo che c’era Saturnino, il bassista di Jovanotti, e l’allora famoso deejay Coccoluto, la star di Radio Deejay, che suonava con i vinili). Più di dieci anni fa la moda del vintage, che imperversa anche oggi, era già affermatissima.
Proprio l’anno scorso ho ideato un’altra installazione (assieme a Paolo Solcia, musicista e programmatore video), sempre per il Festival di Topolò. Abbiamo portato in un fienile del paese oggetti vari di metallo trovati sul posto o in cantine sparse (un paiolo, una scatola di latta contenente fotografie e documenti, arnesi da lavoro) e abbiamo installato alcune proiezioni video. L’idea era quella di dare un’anima sonora alla materia: ogni oggetto era collegato con dei sensori sensibili al tatto ad una registrazione audio e, se toccato, cominciava a “parlare”, raccontando storie (in italiano e in sloveno) legate all’oggetto stesso, storie del luogo o storie di vita degli abitanti del posto. C’era una seconda possibilità interattiva: se le persone si tenevano per mano chiudendo una linea immaginaria da oggetto a oggetto, partiva un terzo audio e un video specifico, sempre lo stesso. La memoria di quel luogo passava attraverso ninna nanne, parole dimenticate, suoni del bosco, in una sorta di catena emotivo-musicale.
La dimensione sonora ha assunto per te un rilievo ancora maggiore nei tuoi recenti lavori all’Opera.
Senza dubbio. Quella dell’Opera è stata per me un’esperienza nuova, intensa e fondamentale. Mi ha condotto a questa svolta Umberto Angelini (in un certo senso uno dei miei mentori, era lui ad avermi voluta all’Hangar Bicocca anni prima), direttore del Teatro Grande di Brescia. Mi ha fatto conoscere il musicista Mauro Montalbetti (compositore di entrambe le opere a cui ho lavorato) e da lì tutto è cominciato.
La prima opera, di cui ho curato solo la parte video, è stata Il Sogno di una cosa nel maggio del 2014, andata in scena a Brescia ma poi anche a Milano, Reggio Emilia, Como. L’opera (un atto unico di 50’) racconta la strage di Piazza della Loggia quarant’anni dopo, su regia e libretto di Marco Baliani. Io non so leggere la musica, e a un tratto mi sono trovata tra coristi, musicisti e danzatori. Ma lavoravo con persone straordinarie, e abbiamo formato una squadra affiatata in cui ognuno contava sulle competenze altrui. L’opera è nata da diverse linee intersecate armonicamente in un vero e proprio montaggio di parti: ognuno aveva lo script e leggeva via via come su una partitura gli incastri, le alternanze e le sovrapposizioni tra i tre livelli (musica, messa in scena, video). Io, il compositore e il regista abbiamo dato vita insieme alla drammaturgia dell’opera, ispirando in itinere l’uno il lavoro dell’altro.
Della seconda opera sei stata addirittura regista. Cosa vuol dire, per te che nei tuoi film hai lavorato prevalentemente con le immagini d’archivio in fase di montaggio, gestire dei corpi sulla scena, una materia forse più calda e più imprevedibile di quella data da un repertorio in cui l’emozione si gioca su uno scarto di carattere più “intellettuale” tra i diversi materiali?
Già, regista. Nell’ottobre del 2017 Montalbetti mi ha chiamata di nuovo al suo fianco, ma questa volta per dirigere l’intera opera. Anche questa un atto unico di 1’15, sulle migrazioni contemporanee. Il suo titolo è Haye — che vuol dire “guardare avanti” — Le parole, la notte. L’abbiamo messa in scena a Reggio Emilia per due sole serate. Ho deciso di coinvolgere Alessandro Leogrande, giornalista e formidabile ricercatore esperto di questo tema (autore per Feltrinelli, collaboratore de Lo straniero), che si è poi rivelato appassionato d’Opera e ha scritto anche il libretto. Ancora una volta mi sono ritrovata parte di una squadra che costruiva a più voci, passo passo, la drammaturgia dello spettacolo. Anche Francesco Bossaglia, il direttore d’orchestra, è stato prezioso. A proposito di corpi da muovere sulla scena, mi consultavo sempre con lui quando decidevo le posizioni degli attori sul palco: “va bene qui? Lo vedi, lo senti?”, e lui mi aiutava a capire i rapporti tra lo spazio scenico e l’acustica. Abbiamo avuto anche una cantante soprano molto conosciuta, Cristina Zavalloni, oltre a un coro di giovani cantanti emiliani. Dunque ho avuto a che fare con professionisti, non ultima la ragazza africana scelta come protagonista che aveva un bellissimo timbro di voce tra il jazz e il blues, in un mix di registri musicali che andavano dalla musica sacra a quella contemporanea e in un melting pot di lingue (inglese, francese, italiano, dialetti africani).
Paradossalmente, mi sono sentita più libera nel montare corpi e nel gestire diversi livelli di narrazione di quanto mi ci senta quando monto le mie immagini d’archivio. Ho affrontato una maggiore complessità ma allo stesso tempo non ero l’unica responsabile della narrazione: la storia era affidata a me come al compositore e al librettista. In un certo senso sentivo che stavo gestendo una narrazione più “classica”. L’opera lirica è bene o male costruita sul modello tragico: parlando di Hayè, c’è lo scafista cattivo, il rapporto del cattivo con la madre, la protagonista vittima (etc.). Si tratta di uno schema ben preciso che viene fatto aderire al reale, rendendo questa classicità un’ennesima forma di libertà, di respiro. Avevo una bravissima aiutoregista, Barbara Roganti, che conosceva la musica e che mi aiutava a dare agli attori gli attacchi e a segnalare i cambi di scena al momento giusto. In questi casi l’istinto conta fino a un certo punto, si ha bisogno di qualcuno che dia il ritmo e che coordini gli elementi disposti sulla scena. Mi sentivo molto meno sola e limitata e quindi, in un certo senso, meno vincolata.
La memoria è senza dubbio uno dei nodi su cui più insistono i tuoi lavori. Se la regia si espande verso altri campi espressivi — la messa in scena teatrale, così come l’installazione, ne sono esempi evidenti — anche il concetto di memoria sembra subire una trasformazione. Migra anch’esso, vestendo panni di volta in volta diversi.
Assolutamente. Entrambe queste opere ricordano qualcosa e indagano dialetticamente, tra il presente e il passato, il suo significato. Nella prima, su un grande sipario di cellofan sullo sfondo, comparivano i miei video. In certi momenti c’erano tre diversi piani di proiezione, le immagini apparivano quasi come striscioni. C’erano immagini d’archivio (molte dell’AAMOD) sulle varie manifestazioni successive alla strage ma anche riprese di piazza della Loggia oggi, girate ex-novo, in cui ho chiamato i cittadini che erano presenti allora a testimoniare quella giornata (il processo ancora non era chiuso in via definitiva). Ho utilizzato e sovrapposto frammenti di racconto (in super 8) delle vittime di quella e di altre stragi, ho scelto di filmare e di mostrare in video oggetti (pezzi di giornale dell’epoca, documenti) nell’acqua, perché quel giorno pioveva. Il video, muto, si mescolava alla musica dal vivo, ai movimenti dei danzatori sulla scena.
Hayè è un’opera ancora più complessa. Tutto è giocato sul rapporto temporale tra le migrazioni di oggi e quelle di ieri, a partire dall’emigrazione italiana nelle Americhe di inizio secolo, passando per il ventennio della nostra presenza coloniale nel corno d’Africa, fino ad arrivare agli sbarchi del presente. La ragazza eritrea che impersona la migrante di oggi canta del passato della sua terra negli anni ’30, del fronte eritreo di liberazione degli anni ’70-’80 e delle fughe contemporanee, in una sorta di montaggio triangolare di tre diverse temporalità. In molti momenti dell’opera si assiste a doppie, triple proiezioni, fino ad avere cinque piani simultanei di narrazione tra video e movimenti sulla scena. Come quando sul palco viene riprodotto un set-up video live del procedimento identificativo del migrante (in carne e ed ossa sul palco di fronte alla telecamera), e contemporaneamente il personaggio del “politico” parla con un interlocutore assente, nella buca l’orchestra suona e la protagonista canta sulla scena. C’era addirittura, oltre all’orchestra, un quartetto d’archi sulla destra del palco che accompagnava il naufragio delle navi. Nei video ho fatto recitare agli attori (veri migranti) storie di altri migranti (raccolte da Leogrande, molte trascritte nel suo bel libro intitolato La frontiera), ho utilizzato carte geografiche, filmato corpi in acqua con la telecamera termica, ho scelto costumi e oggetti di scena traendo ispirazione dalle belle fotografie di Giulio Piscitelli. In uno dei momenti più forti dell’opera le voci dei migranti si moltiplicano in un racconto cacofonico e le loro mani mostrano gli oggetti indispensabili per il viaggio, mentre elencano le regole del naufrago. “Avere la forza di decidere”, “avere coraggio”, “sapersi mettere nelle mani di qualcuno senza fidarsi ciecamente”: gli attori (da poco sbarcati, da anni in Italia o addirittura di seconda generazione) interagivano con i video e si mostravano attraverso di esso commovendosi, in un processo di incarnazione disteso lungo innumerevoli livelli.
Come guardi adesso a questi lavori? Che tipo di corporeità assumono rispetto ai film? Hai parlato di un montaggio più libero anche se più complesso, si tratta però di un rapporto con il prodotto finito radicalmente diverso.
Sì, sento in particolare queste due opere, a cui ho dedicato tempo ed energie non irrilevanti, molto più sfuggenti rispetto ai miei film. Non esiste un oggetto “finito”, le riproduzioni video, anche se ben fatte, non potranno mai essere veri surrogati. In particolare Hayè è andata in scena per sole due serate, non ho avuto il tempo materiale di appropriarmene davvero. È frustrante e un po’ malinconico. In parte ho potuto continuare il lavoro, sotto forma di installazione, allo IED di Milano (produttore della parte video) con alcuni studenti che avevo già chiamato a collaborare durante le due opere. Mi hanno aiutato molto dal punto di vista tecnico (per tutta la parte del mapping, ad esempio), e per loro era una bellissima occasione di lavorare sul campo e di fare di questa esperienza il loro progetto di tesi.
E a proposito di aspetti tecnici, la temporalità di un lavoro di questo genere è ben diversa fin dall’atto creativo. Il montaggio di un film lo apri e lo chiudi a tuo piacimento, uno spettacolo teatrale a un certo punto deve essere pronto, ci sono delle date. Il tempo è molto più “fisico”, non conosce dilazioni. Un anno di ricerche con il compositore e il librettista, una lunga e dettagliata esplorazione di materiali fotografici e non solo per costumi e aspetti scenografici (da una particolare veste al colore della sabbia desertica), tre mesi di video e casting e venti giorni di prove (tutto compreso, musica e messa in scena). Corri, accumuli, rifletti e a un certo punto, senza quasi rendertene conto, vai in scena.
Tornando al cinema e al prodotto “finito”, perché nel tuo ultimo lavoro hai scelto di raccontare Anna Piaggi? Che tipo di relazione esiste secondo te tra l’arte del cinema e quella della moda?
In realtà quello che mi ha spinto a girare Anna Piaggi. Una visionaria nella moda (2016) è stato il fascino nutrito nei confronti di questo specifico personaggio, celebre in tutta Milano e icona della moda. Oltretutto molto attiva a Londra, a cui come dicevo sono legata per ragioni personali. Ad avermi incuriosita è stata la sua eccentricità più che una riflessione a monte sul rapporto tra moda e cinema.
Giornalista di moda eclettica, figura cult di riferimento e poi modella di stilisti come Westwood, McLaren, Missoni, Castelbajac, Lagerfeld, ho cominciato ad interessarmi alla sua storia quando nel 2013, un anno dopo la sua morte, sono andata con un’amica esperta di storia del costume nel magazzino dove ora è custodito il suo intero lascito (900 paia di scarpe, 1000 cappellini, 5000 abiti). Di persona l’avevo intravista una sola volta, quando lavoravo per Studio Azzurro, durante una mostra sulla moda italiana all’estero. Ma quello che davvero mi ha affascinata è stato il suo modo di lavorare con i collage — ora che ci penso, la sua operazione di montaggio! — su se stessa e sulla carta, nella rubrica che curava per Vogue Italia intitolata “Doppie pagine”. Sul suo corpo, così come sul formato doppio del cartaceo, Anna Piaggi faceva un interessantissimo lavoro di “editing”, sovrapponendo molto prima del digitale immagini e scrittura in modo stravagante e avanguardista. Ho scelto così di dedicarle un intero film, un documentario-ritratto più classico rispetto ai miei lavori precedenti. Ma ho pur sempre lavorato con fotografie, riviste, interviste, repertorio, animazioni. Il solito miscuglio che mi contraddistingue e che non abbandono mai.