Tuttavia manca qualcosa. Che cosa manca lo scopriremo alla fine, perché prima di quella fine che manca c’è invece moltissimo. «Perché nessuno è illegale» scrive l’artista Francesco Careri nel suo intervento in Comp(h)ost. Immaginari interspecie, un libro che raccoglie immagini e testi di un progetto trans-disciplinare che dal giugno 2019 al dicembre del 2020 si è tenuto presso il Castello di Rivoli Museo d’Arte Contemporanea (Edizioni Nero, 2021). Alla base dell’intero progetto c’è una riflessione e una sperimentazione ispirata dagli scritti di Donna Haraway, in particolare il suo ultimo libro Chthulucene. Sopravvivere su un pianeta infetto (l’edizione italiana è pubblicata sempre da Nero). Che nessuno sia illegale vuol dire che non c’è forma di vita che possa essere dichiarata al di fuori della legge; e anzi, vuol dire che la «legge» non ha niente a che fare con la vita. Careri parla dei migranti che dal mondo povero cercano in tutti i modi di venire nel «nord» ricco, ma naturalmente nel tempo che stiamo vivendo non possiamo non pensare ad un altro tipo, radicalmente altro, di entità illegale, il virus. In effetti è difficile pensare a qualcosa, nei nostri giorni, senza che ci si intrufoli il pensiero del virus; e tenuto conto della sua natura ibrida e liminare non si sa mai se siamo noi che lo pensiamo, oppure è il virus che si pensa attraverso di noi. Nessuno è illegale, neanche e forse soprattutto il virus.

«Il compost», scrivono i curatori del libro (Francesca Comisso, Luisa Perlo, Marianna Vecellio), «è un processo biologico risultante dall’ossidazione di un misto di materie e rifiuti organici che, alla presenza di ossigeno, si decompongono in terreno fertilizzato. Con i suoi rimandi ai concetti di suolo, scarto e fertilità, è il luogo dell’amalgama e della trasformazione continua tra stati della materia, di alleanze tra forme del vivente in cui sono compresenti simile e diverso in una condizione di vitalità e di crescita» (Comisso, Perlo, Vecellio 2021, p. 9). Il compost, in sostanza, è il processo vitale che sempre di nuovo smonta e disassembla preesistenti forme organiche e inorganiche per formarne altre. Il compost è il flusso puzzolente della vita. In altri tempi il compost sarebbe stato chiamato semplicemente “spazzatura”. Perché la nuova vita non può non nascere che dalla morte della vecchia. Se applichiamo il concetto di compost a noialtri umani, scrive la storica Clara Ciccioni, questo significa che

non siamo un Uomo contrapposto a un Dio o a una Natura, non siamo un’Umanità che si eleva al di sopra delle altre specie. Il mondo è un’entità multispecie in cui gli esseri con-divengono, divengono insieme attraverso relazioni complesse, contraddittorie e rischiose. Nessuna specie fa niente da sola. Pensarci humus, pensarci compost […] è un modo molto serio per delegittimare il fondamento di quel dominio sulle altre specie viventi che ci ha portato fin qui, a galleggiare in questo immenso problema (ivi, p. 54).

Perché in effetti stiamo galleggiando su un «immenso problema», è proprio vero, come una busta sbiadita di plastica in balia delle correnti marine. Un problema che la stessa specie umana ha provocato, o almeno ha largamente contribuito a provocare. In effetti ce lo stiamo sentendo dire dall’inizio di questa pandemia, è colpa nostra se il virus si è diffuso su tutta la superficie del pianeta (anche nella tragedia non riusciamo a non pensarci come gli unici agenti di tutto quello che succede, nel bene come nel male): infatti, scrive il fisico Matteo De Giuli, la pandemia come altri disastri “naturali” «nascono dalla stessa erosione degli ecosistemi, da un comune approccio estrattivo all’ambiente. Il salto di specie del virus, come ci ripetevano da tempo gli scienziati, era nell’ordine delle possibilità: il contatto era quasi inevitabile, favorito dalla saturazione umana» (ivi, p. 47). È colpa nostra, appunto.

Si tratta allora, scrivono l’artista Diann Bauer e la studiosa delle comunicazioni Helen Hester, di provare a rovesciare questo meccanismo; se siamo noi umani il problema del pianeta terra, dobbiamo trasformarci nella soluzione dello stesso problema che abbiamo provocato. Pensare la vita sul modello del compost significa, quindi, pensare ad  un modo di vita umano non più basato sulla contrapposizione e lo sfruttamento ma, appunto, sul ciclo vitale della vita e della morte, sul flusso e la continuità: «La capacità di astrazione» – la capacità che ci rende umani, Homo sapiens – «ha creato le condizioni per la catastrofe, ma è soltanto attraverso l’esercizio di questa stessa capacità che possiamo conservare qualche speranza di mitigare questo disastro. La separazione fra esperienza incarnata e conoscenza astratta ci permette di intervenire sulle circostanze e navigarle al livello di complessità in cui siamo completamente immersi come specie» (ivi, p. 60). Siamo la malattia, ma forse siamo anche la medicina. Quindi, forse e con cautela, anche se «l’Antropocene […] non è prevedibile […] le nostre capacità di astrazione ancora ci permettono di destreggiarci cautamente in queste circostanze, anche se dovremmo trovare il modo di farlo in maniera agile e adattabile» (ivi, p. 62).

Certo, è difficile non notare come in tutto questo esercizio di auto-umiliazione rimaniamo sempre al centro della scena, ma forse è inevitabile. Esiste una superbia antropo-centrica, ma esiste anche una superbia antropo-centrifuga. Ecco allora la proposta più radicale, quella del filosofo Emanuele Coccia, che prendendo alla lettera il modello dell’humus, pensa evidentemente al paradiso terrestre, che proprio noi umani abbiamo volutamente abbandonato. Invece di pensare alla vita sul modello della lotta per l’esistenza, in cui il pesce grande mangia quello piccolo, in attesa di essere a sua volta mangiato da qualcun altro, perché non immaginare una vita non basata, appunto, sulla guerra ma invece basata sulla relazione trasformativa ed egualitaria del compost?

L’ecologia del futuro dovrà liberarsi dell’idea di una vita divisa dalle forme e dalle potenze di cui ogni specie pretende di essere proprietaria esclusiva. Contro questa idea così patrimoniale si dovrà pensare la vita come una forma di circolazione, come l’uso comune di tutte le proprietà. Tutte le specie hanno in esercizio diretto le proprietà che le caratterizzano ma le concedono in uso, queste stesse proprietà, a tutto il pianeta e a tutti i viventi. Alla biodiversità, così ancora imbibita di un pensiero della proprietà, della distinzione, della gerarchia, si dovrà opporre una sorta di comunismo biotico, in cui non solo la vita appartiene a tutti, ma tutte le potenze appartengono a tutte le specie. L’esistenza del mondo – nel tempo e nello spazio – non sarà allora che l’affermazione pratica e spirituale dell’eguaglianza di tutti i viventi. La storia del pianeta non è la produzione di specie sempre più sviluppate (come la teoria dell’evoluzione ci fa credere) ma la prova dell’equivalenza storica di tutte le specie (ivi, p. 97).

Siamo arrivati al punto, ciò di cui – all’inizio di queste note – sentivamo la mancanza. Nel «comunismo biotico» si muore ancora? In un giardino, anche quello più soleggiato e fiorente, c’è comunque una competizione per le risorse, per la luce e l’acqua. Al livello del suolo, in una pineta, sul crocchiante tappeto di aghi secchi, non cresce più niente, neanche un filo d’erba. Perché là per terra non arriva abbastanza luce, perché le lunghe e ramificate radici degli alberi succhiano via tutto il nutrimento del terreno. Ecco quello che, nostro malgrado, sentivamo non esserci, la morte. D’altronde ne abbiamo sentito parlare troppo in questi mesi, della morte e della paura di morire, non ne possiamo più.

Eppure è proprio la morte quello che il modello del compost non vede, o forse non riesce a vedere. Muore una mosca, cade a terra, e in poco tempo gli organismi necrofagi restituiscono al ciclo vitale la materia che costituiva il “suo” corpo. Però è difficile negare che la morte umana – come osservava brutalmente Heidegger che infatti distingueva il «crepare» animale dal «morire» umano – è diversa: l’umano ha paura della morte. Forse quella mosca prova paura quando un pericolo la minaccia, altrimenti semplicemente vive e disturba qualcuno. La nostra morte non è come quella della mosca per una sola ragione, ma dobbiamo ammettere che è una ragione molto importante: la mosca viene dall’humus e tornerà felicemente (forse) all’humus. Per un essere umano le cose non sono così semplici. E non solo per l’umano “estrattivista” che si disinteressa dell’ambiente, per l’umano dell’après moi le déluge; vale per tutti gli umani.

Anche se non ci piace ammetterlo, perché è molto poco egualitario nei confronti del resto del mondo vivente e non vivente, l’umano a suo modo è un animale speciale, perché non si accontenta semplicemente di vivere, ma si pensa vivere. E siccome si pensa, allora si accorge di vivere, e si rende conto che prima o poi smetterà di vivere. Morirà. E allora il compost, l’humus, lo stesso “comunismo biotico” sono di poca consolazione. A nessuno piace l’idea di morire. Ricordarci che morire è naturale, che rientra nel ciclo dell’esistenza, che tutto ciò che è vivo vive della morte di qualcuno che è stato vivo prima di noi, non è sufficiente, neanche un poco, a distoglierci dal dolore del pensiero della morte. Un pensiero pericoloso perché – come dice l’artista Claire Pentecost – «una vita davvero autentica comprende dei rischi. Evitare i rischi significa vivere una vita a metà» (ivi, p. 38). Possiamo dirlo? Una vita da compost rischia molto di essere una «vita a metà».

Lucrezio apre il De rerum natura con una lode a Venere, la dea dell’amore, ma lo chiude bruscamente con il racconto della peste ad Atene, la città in cui «tutto era sconvolto nel terrore». Un pensiero del compost non può limitarsi a pensare la morte solo come un momento di passaggio verso un’altra vita, che ci sarà sicuramente, ma che non sarà più la nostra vita. Il tempo del virus è il tempo della paura. Una paura che forse può essere vinta immaginandosi parte di un grande movimento vitale universale. Forse. Oppure può essere vinta, perché deve essere vinta, affermando proprio quell’arroganza umana che oggigiorno sembra essere così poco apprezzata. Perché altrimenti il virus non solo ci toglie di mezzo (ovviamente non è questa la “sua” intenzione, ma di fatto in molti casi è così che va a finire), ma finisce per convincerci che è giusto – dal punto di vista dell’equilibro ambientale – toglierci di mezzo. C’è sicuramente il compost, ma ci sono pure io.

Francesca Comisso, Luisa Perlo, Marianna Vecellio, a cura di, Comp(h)ost. Immaginari interspecie, NERO, Roma 2021.

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