di ALESSANDRO CAPPABIANCA
Cominciò che era finita. L’ultima vita di Carmelo Bene di Luisa Viglietti.

Riccardo III (Bene, 1981)
Luisa Viglietti, un’indipendente ragazza napoletana, costumista cinematografica, aveva trent’anni quando conobbe Carmelo Bene, che era alla ricerca di qualcuno per i costumi di Hamlet Suite, suo ritorno al teatro dopo la stasi di qualche anno dovuta alle varie malattie. Il Maestro ne aveva cinquantasette, e Luisa divenne sua compagna e collaboratrice per tutti gli anni che gli restavano da vivere, fino alla morte di Carmelo (avvenuta nel 2002). Ora Viglietti racconta la storia di questo sodalizio nel libro Cominciò che era finita. L’ultima vita di Carmelo Bene, con prefazione di Goffredo Fofi (Edizioni dell’asino 2020).
Cominciò che era finita, ma finita che cosa? La vitalità artistica del Maestro? No di certo. La sua salute? Le sue sregolatezze? I suoi rapporti con le donne, mogli, amanti, attrici, avventure anche d’una sola notte? Quanto alla salute, il decadimento del suo corpo, tra operazioni chirurgiche e bypass, aveva avuto inizio da tempo. Finito, definitivamente finito, era il rapporto con la seconda moglie, Raffaella Baracchi, dalla quale aveva avuto una figlia (Salomè) e nei cui confronti aveva avviato una causa di divorzio: sarebbe stato il secondo, dopo quello con Giuliana Rossi, attrice. Carmelo era giovanissimo quando aveva sposato la Rossi. A questo matrimonio i genitori di lui erano contrarissimi. La madre, fervente cattolica, non approvava il matrimonio civile. Il padre, per impedirlo, arrivò, com’è noto, a far internare il figlio per qualche giorno in una clinica psichiatrica, dalla quale Carmelo riuscì a farsi rilasciare minacciando i medici d’una denuncia per sequestro di persona.
Da questa unione nacque Alessandro, un bambino gracile e dolce, che morì per un tumore in tenera età. A lungo si è discusso del comportamento di Carmelo in questa circostanza: preso dai primi impegni teatrali, aveva lasciato alla moglie tutta la cura del figlio malato; avvisato per telegramma della sua morte, non si presentò al funerale. Giuliana Rossi raccontò questa situazione nel libro I miei anni con Carmelo Bene (2005), in cui ovviamente accusa l’ex-marito di cinismo e indifferenza. La Viglietti non contesta i fatti, ma racconta, nel suo libro, che Carmelo le aveva confessato d’aver amato molto suo figlio, senza essere stato capace di dimostrarglielo e d’aver provato in realtà grande dolore per quella morte.
La Viglietti racconta dunque gli ultimi anni di Carmelo Bene, da un punto di vista per così dire quotidiano. Ci introduce nella sua intimità, senza tacerne le debolezze e le mancanze. Nella prefazione, Goffredo Fofi scrive:
Dobbiamo essere grati a Luisa Viglietti per averci restituito un Carmelo quotidiano, semplice e vicino ma pur sempre diverso e anzi “unico”. Disse qualcuno, e sapeva di dire un paradosso ma intuendone la verità, che spesso si impara di più leggendo le vite dei grandi filosofi di quanto non si impari leggendo le loro opere. E questo si pensa anche leggendo questi vivi e bellissimi ricordi (Fofi in Viglietti 2020, p. 9).
Sì, qui il quotidiano e l’unico si danno la mano, si sostengono a vicenda. Viglietti assiste il Maestro con grande dedizione, diventa la sua assistente, quasi la sua infermiera, oltre che compagna e collaboratrice, ma non rinuncia per questo alla sua indipendenza. Dopo averle accettate in un primo periodo, non esita a mettere ordine nelle sregolatezze del compagno, e si deve a lei, probabilmente, se la carriera artistica di Carmelo può continuare, malgrado i gravissimi problemi di salute. Gli organizza la vita anche economicamente, mettendo ordine nei suoi contratti, nei rapporti con gli altri collaboratori, con i produttori e gli organizzatori di spettacoli, tra i quali assumono sempre maggiore importanza i dirigenti televisivi e alcuni sindaci illuminati (vedi per esempio Carlo Freccero o Gianni Borgna).
Aveva amici, Carmelo? Certo, Piergiorgio Giacchè, Maurizio Grande, Enrico Ghezzi e pochi altri: amici veri, nei confronti dei quali però non mancava un filo di riserbo. Insieme a Giacchè, e su suo impulso, aveva scritto la storia della sua vita; con Enrico Ghezzi amava, tra l’altro, parlare (e scrivere) di calcio; Maurizio Grande era il suo interprete filosofico in Italia, mentre in Francia era considerato un Maestro, un grande innovatore del teatro, del calibro di Antonin Artaud, da intellettuali, scrittori e filosofi come Gilles Deleuze, Pierre Klossowski, Jean-Paul Manganaro ecc.
Il corpo decade, in effetti, ma la voce rimane quella. Ogni spettacolo diventa concerto, concerto di concetti, spartito musicale, che culmina nei televisivi Quattro momenti su tutto il nulla (2001). In Hamlet Suite (1994), Carmelo quasi non si muove, modula la voce al microfono, la amplifica, la trasforma, la filtra, ne fa lo strumento duttile e docile d’una presenza/assenza. Tornano brani di spettacoli passati, riaffiorano le battute dei vari Amleto da lui riscritti, trasformate in citazioni, brani risalenti dal passato, affidati alla magia della phoné. Accanto a lui, l’attrice, Monica Chiarabelli, ripete alla meglio le battute che erano state di Lydia Mancinelli, e alla fine stramazza al suolo come fosse morta. Eliminati tutti gli altri personaggi, compresa Gertrude. E lo spettro del quotidiano si affaccia nelle parole di Amleto, che Viglietti non manca di riportare:
E vivacchio! Vivacchio! Sono troppo numeroso per dire sì e no… Mi sento troppo pazzo. Da sposato maciullerei la bocca alla mia bella e, caduto in ginocchio, le direi queste parole losche: “È troppo! È troppo! Il mio cuore è troppo centrale, e tu non sei che carne umana, non puoi trovarmi tanto ingiusto se ti faccio del male…” In verità, più ci si estasia insieme e meno s’è d’accordo. In verità la vita è troppo breve. Non chiedo nulla a nessuno, io. Sono senza un amico. Non ho un amico che sappia raccontare la mia storia, un amico che mi preceda dappertutto per evitarmi quelle spiegazioni che m’ammazzano. Non ho una che sappia gustarmi. Ah, sì un’infermiera! Un’infermiera per amor dell’arte, che conceda i suoi baci solamente ai moribondi, a gente in extremis, e che perciò non possa vantarsene. Questo dramma per me non è nulla. L’ho concepito e vi ho lavorato fra repellenti preoccupazioni domestiche (ivi, p. 26).
Il dramma è nulla, occorre un’infermiera, ma un’infermiera per amore dell’arte. Dopo G (Gianna Rossi), dopo L (Lydia Mancinelli), dopo A (Anna Perino), dopo M (Marina Polla de Luca), dopo R (Raffaella Baracchi), l’incontro con Luisa Viglietti è quello definitivo, in tutti i sensi. Non a caso si palesa la vocazione poetica di Carmelo, con la raccolta di versi ’l mal de’ fiori (2000) e il poema inedito Leggenda. Carmelo Bene muore, da lei assistito, il 16 marzo 2002, e comincia un’altra lunga storia di denunce, liti per l’eredità, battaglie legali. Anche il progetto della Fondazione a Otranto, cui Carmelo teneva tanto, alla fine è sfumato. Però Viglietti, Margherita bruciata dal Maestro, non ha dubbi: valeva la pena di ardere.
Luisa Viglietti, Cominciò che era finita. L’ultima vita di Carmelo Bene, Edizioni dell’asino, Roma 2020.
Mi meraviglio che una persona come Fofi, a proposito dei classici, come Carmelo si considerava dopo la pubblicazione delle sue opere nei Meridiani Mondadori, si esprima nella citazione riportata riferendo che la vita dei filosofi è più importante delle loro opere… È come dire che quello che si scrive su un genio è più importante di ciò che il genio scrive. Oltre che diseducativo l’asserto denota quanto poco ci si riferisce alle opere dei classici invece di consultare assurde biografie!