Lo schema è noto. E anche per lo stesso Soderbergh. In fondo non è altro che un’ennesima variazione del codificato heist film (film di rapina), con la sua scansione in tre fasi (organizzazione, preparazione ed esecuzione del colpo), che da Rapina a mano armata (1957) di Kubrick, passando per I soliti ignoti (1958) di Monicelli, arriva alla trilogia di Ocean’s (2001-2007) e a questo La truffa dei Logan (2018). Qui però ci troviamo lontani dalle location e dai personaggi glamour delle vicende della banda guidata da Danny Ocean (George Clooney), tra la Carolina del nord e il West Virginia, uno degli stati più poveri d’America (prima democratico, diventato progressivamente repubblicano), quello in cui Trump ha raccolto le percentuali di voto più alte in assoluto di tutti gli Stati Uniti nella sua corsa alla presidenza. Qui, al centro della storia, c’è Jimmy, operaio divorziato con una figlia e ingiustamente licenziato, a inizio film, per una zoppia (sarebbe potuto diventare una stella del football).

Jimmy è una figura fuori dal tempo (non ha computer, cellulare, profili social), è un “uomo del sottosuolo”. Perché è letteralmente nel sottosuolo che lavora (come in Metropolis di Lang è nel sottosuolo che continuano a lavorare gli operai mentre i padroni occupano la parte superiore della città), e più precisamente nei condotti sotterranei del circuito automobilistico Charlotte Motor Speedway. Ed è qui che ha l’idea del colpo: rubare i soldi, sparati direttamente dalle casse degli stand legati alla corsa Coca Cola 600 (che si svolge ogni anno per il Memorial Day), in tubi pneumatici, che per raggiungere il caveau della società che la gestisce passano proprio nei sotterranei dell’autodromo.

Ad aiutarlo sono altri “uomini del sottosuolo”: il fratello Clyde, che ha perso un braccio nella guerra in Iraq, sua sorella, uno scassinatore professionista che i tre aiutano ad evadere dalla prigione giusto il tempo dell’azione, e i suoi due fratelli. È la rappresentazione di una “working class non più umiliata e arresa, ma perfettamente capace di mettere il proprio ingegno a servizio di un atto non ortodosso di redistribuzione; dove persino le bambine alla fine preferiscono la (pseudo)-locale Country Roads di John Denver alla globalizzata Umbrella di Rihanna” (Bianchi 2017). Proprio la sequenza in cui la figlia di Jimmy canta Take Me Home, Country Roads sotto gli occhi del padre, e con lei anche le altre persone che assistono alla performance canora, segna il momento in cui la comunità ritrova la propria unità, nei valori della “vera America”. Una comunità cioè sana, capace ancora di nutrire delle illusioni su di sé, sui propri desideri, valori e ideali.

Comunità ed eroe. Il binomio che il cinema classico americano ha sempre raccontato, e che continua a raccontare. Ma è una declinazione particolare della figura dell’eroe che sembra emergere in questo e in altri film americani contemporanei, e che costituisce anche il loro carattere “politico” (il dare cioè visibilità e voce a chi di solito ne è privato: come i rappresentanti della classe operaria nel caso di questo film di Soderbergh). E qui emerge anche una importante differenza rispetto all’odierna serialità televisiva.

Se la serialità “complessa” degli anni duemila ha ricondotto a una ridefinizione della figura dell’eroe in opere in cui questa diventa sempre più moralmente ambigua (da Dexter a House of Cards a Breaking Bad), nel cinema americano contemporaneo sembra invece succedere qualcos’altro. Da una parte abbiamo la produzione mainstream che continua a offrire una declinazione “super” della figura eroica (i film della Marvel, per esempio) o a riportare nostalgicamente in vita eroi e divi degli anni ottanta (Stallone sta per riportare John Rambo al cinema con il quinto capitolo della saga che lo vedrà in lotta con i cartelli messicani per salvare la figlia di un amico), dall’altra esiste anche un cinema che propone un’ulteriore declinazione di questa figura, quella di un eroe suo malgrado. Eroismo che può consistere nello svolgere al meglio la propria professione, nel seguire cioè quell’etica protestante del lavoro che sta alla base della società americana. Ecco che questi film si presentano come sopravvivenze di forme e figure del cinema classico. È naturalmente il caso del cinema di Eastwood, ma anche quello del film di Soderbergh e del suo “inattuale” protagonista.

L’operazione compiuta da Soderbergh è allora qui esemplare: assumere i codici di genere del film di rapina per poi svuotarli dall’interno (l’inadeguatezza di questi “eroi popolari”, come vengono acclamati alla fine del film, apparentabile a quella dei soliti ignoti monicelliani, alla loro pretesa di realizzare il colpo in maniera “scientifica”); per piegarli a un discorso sull’America, a una riconfigurazione dell’immagine dell’America proposta da Trump (al suo slogan “Make America Great Again”) e dell’eroismo quotidiano della sua working class.

Ma il colpo messo in atto dai fratelli Logan ai danni del “sistema” delle corse è anche quello che il film compie nei confronti di un altro “sistema”, quello hollywoodiano. E d’altra parte le tre fasi del film di rapina alludono sempre, autoriflessivamente, alla lavorazione stessa del film (si tratta sempre di progettare, preparare ed eseguire).

“È come rapinare l’America”, si dice a un certo punto nel film. Ma è anche come “rapinare” Hollywood.

Riferimenti bibliografici
P. Bianchi,“Logan Lucky” di Steven Soderbergh, in “Cineforum”, novembre 2017.
J. Mittell, Complex TV. Teoria e tecnica dello storytelling delle serie tv, Minimum fax, Roma 2015.

Share