«Uno sciame d’effimere s’imbatté volando in una fortezza, si posò sui bastioni, prese d’assalto il mastio, invase il cammino di ronda ed i torrioni. Le nervature delle ali trasparenti si libravano tra le muraglie di pietra. “Invano v’affannate a tendere le vostre membra filiformi”, disse la fortezza. “Solo chi è fatto per durare può pretendere d’essere. Io duro, dunque sono; voi no”. “Noi abitiamo lo spazio dell’aria, scandiamo il tempo col vibrare delle ali. Cos’altro vuol dire: essere?”, risposero quelle fragili creature. “Tu, piuttosto, sei soltanto una forma messa lì a segnare i limiti dello spazio e del tempo in cui noi siamo”».
È un po’ con lo spirito delle effimere di cui parlava Italo Calvino che i fratelli Coen raccontano il West senza fare l’epopea del West. Come fare in effetti un western oggi, dopo che l’intera storia del cinema, da Thomas Ince in poi, ha fatto il monumento del West, la sua fortezza, e con esso ha costruito i miti della frontiera, dell’eroe solitario e positivo, dei valori assoluti? No, sembrano rispondere i Coen, oggi non si può raccontare in quel modo il West, si può solo evocare il West del nostro immaginario, scrivere la scrittura, raccontare il West del cinema su un registro un po’ ironico, “menzionarlo”, come direbbero Sperber e Wilson. Non a caso tutto il film è punteggiato dall’immagine ricorrente di un libro illustrato simile ai libri dei bambini, come se tutto fosse raccontato nelle forme della fiaba.
Così The Ballad of Buster Scruggs, film in sei episodi nato originariamente come serie tv per Netflix e ripensato poi come film-film, diventa in realtà la forma di un ipercinema che smonta e rimonta il genere ibridandolo con altri generi e altre influenze: dal musical del primo episodio, quello che dà il titolo all’intero film, allo spaghetti western del secondo episodio (Near Algodones), in cui un James Franco rapinatore un po’ per caso sfugge una prima volta all’impiccagione grazie alla provvida e inattesa irruzione di un gruppo di indiani che giustiziano i suoi giustizieri, ma non sfuggirà al suo destino la seconda volta; dallo spettacolo da fiera del terzo episodio (Meal Ticket), con un artista da baraccone senza braccia e senza gambe che declama versi di fronte a un pubblico che sembra lasciarsi prendere dal suo eloquio per poi allontanarsene, all’epica del solitario cercatore di fortuna del quarto episodio (All Gold Canyon); dal mélo del quinto episodio, con una ragazza che trova la morte proprio quando sta per sposare il cowboy dal cuore d’oro, all’allegoria un po’ goticheggiante della morte dell’episodio finale (The Mortal Remains), centrato su un carretto fantasma i cui ospiti sono impegnati in dialoghi dal sapore esistenziale.
C’è sempre un’aria di citazione in The Ballad of Buster Scruggs, una ribattuta un po’ perplessa dei topoi del western. Come se tutta la storia si potesse ormai prendere solo nella forma dell’abrégé, del riassunto, della sua riduzione a cliché da cui poi partire per dispiegare una visione critica. I paesaggi sono troppo paesaggi, gli animali sono troppo animali, la natura è troppo natura nella fotografia splendente del film, le storie sono troppo storie (“First time?” dice il cow-boy James Franco sul patibolo al compagno di sventura che si dispera), i trucchi sono troppo trucchi (così è il trucco giallo sul volto dell’artista da baraccone, talmente sovraccarico da fare il verso alla patina del tempo), le declamazioni sono troppo declamazioni (proprio lo stesso artista recita sempre una strana accozzaglia di poesia – da Shakespeare allo Shelley di Ozymandias –, espressioni bibliche, allocuzioni politiche, come il Gettysburg Address di Lincoln ecc.). Se tutto è posto sotto il segno dell’eccesso, c’è perfino qualcuno che sembra avere troppi sensi: il signor Arthur, cowboy che porta le carovane attraverso i deserti nel quinto episodio, a sentire il collega Knapp legge la prateria come un libro, tanto da sembrare avere un senso in più.
In questa sorta di galleria postmoderna del mito western, il filo rosso che unisce le storie e fa da sfondo ideale è il rapporto con la morte. Rapporto che il cinema americano aveva tradizionalmente disegnato come una partita basata sui valori, in cui gli elementi positivi alla fine prevalevano su quelli negativi, e che qui invece è segnato dalla facilità, gratuità, casualità e infine fatalità della morte. La morte appare, non è il termine naturale di un percorso, ma si introduce come elemento del caso o apertura all’incertezza.
Quanto al caso, un abile cantante-pistolero – il Tim Blake Nelson del primo episodio – può fare miracoli per sfuggire alla morte nei locali popolati da fuorilegge, ma poi morire inavvedutamente con un buco in fronte, quasi fosse un pivello del West, e infine volare con una lira in cielo, aprendosi ludicamente a una seconda vita. Altrove invece l’apparizione repentina e casuale della morte sembra segnare la fine delle certezze. Nel quinto episodio, narrativamente il più sviluppato dell’intero film, Gilbert, il fratello di Alice, aveva molte certezze, che si concretizzavano per esempio in politica in una convinta fede sudista, ma anche più in generale nella capacità di fare progetti di vita. Ma Gilbert muore di colera in un baleno e la sorella, rimasta sola, si aggrappa al cowboy Knapp, per chiedergli certi consigli sulle decisioni da prendere.
Nessuno dei due però ha certezze. “L’incertezza è appropriata per le questioni di questo mondo”, dice Knapp. E quando lo stesso Knapp le chiede di sposarla e lei accetta sperando di dare una svolta alla sua vita, il caso e il destino stravolgono il corso degli eventi. La morte per Alice appare, sotto la forma del suicidio fatale (ancora una volta con una pallottola in fronte), proprio nel momento in cui la vicenda sembra volgere al meglio. Nessuno più sa come agire: non è un caso che l’episodio finisca con il ritorno di Arthur alla carovana e una pagina del libro che recita: “Il signor Arthur non aveva idea di cosa avrebbe detto a Billy Knapp”. La morte non è più il suggello che separa il bene dal male, ma un’apparizione nel corso degli eventi, un incontro.
Distaccarsi dalle certezze vuol dire accettare la fine dei grandi valori, quindi prendere dolcemente congedo dalle proprie radici, siano esse quelle cinematografiche dei grandi racconti, o siano invece quelle della cultura in senso più ampio, di cui ormai non resta che qualche eco nei racconti di un artista da fiera: ma anche il pubblico di quell’artista si fa sempre più rado, e il suo imbonitore lo sostituirà con un’attrazione più efficace. Le effimere volano nel cielo del West e guardano ormai da lontano quello che resta delle fortezze.
Riferimenti bibliografici
I. Calvino, Collezione di sabbia, Mondadori, Milano 1994.
D. Sperber, D. Wilson, Les ironies comme mentions, in “Poétique”, n. 36, 1978.