Solo un grande regista può decidere di non esserlo. Potrebbe essere questo l’indice attraverso cui esplorare l’ultimo viaggio di Clint Eastwood. Molte delle immagini di ore 15:17 – Attacco al treno avrebbero potuto essere girate da chiunque, anche dai protagonisti del film, i ragazzi che qualche anno fa hanno sventato l’azione terroristica sul treno in viaggio da Amsterdam a Parigi, sul quale i tre si trovano per caso, come per caso si scoprono eroi. Immagini rubate da un viaggio il cui solo scopo sembra, nelle parole stesse dei ragazzi, la produzione di immagini. Andare a Parigi per scattare una fotografia della Tour Eiffel: è il solo desiderio che spinge i tre giovani a salire sul treno che li trasformerà in eroi. Di fronte a quella che è ormai un’evidenza (ciascuno di noi è il fotografo e il regista della propria vita, una vita che assume dignità nel momento stesso in cui è messa in immagine), Eastwood rinuncia all’autorità dell’autore/regista per posizionare la macchina da presa esattamente al livello dei suoi personaggi/attori e delle loro possibilità espressive. Non richiede loro nessuna vera prestazione attoriale, neppure quella apparentemente più basilare: interpretare la parte di loro stessi. Semplicemente li segue, li osserva vivere e gira un film che per certi versi assomiglia a uno dei tanti video che quei ragazzi hanno archiviati sul loro telefonino.
Di fronte al dilagare della produzione di ogni tipo di immagini, non c’è insomma alcuna messa in scena che tenga. E se il regista non è più il regista che è sempre stato, i suoi attori non possono essere attori, ma i veri protagonisti dell’attacco al treno. Eastwood li segue, va a Roma, Venezia, Berlino con loro, come loro. Li riprende in discoteca, quando si svegliano dopo una sbronza, mentre si scattano numerosi selfie, mentre parlano di ragazze e di droga, del perché proseguire il viaggio verso Amsterdam e infine Parigi. Racconta la loro assoluta normalità che diventa eroica quando scarta suo malgrado, e per una pura inezia, dalla norma, dal protocollo e dal buon senso. Un destino a cui gli anti-eroi del film sembrano condannati sin dall’infanzia, quando già la scuola riconosce in loro l’opposto degli studenti modello.
Così quando uno di loro si lancia sull’attentatore che imbraccia il kalashnikov, fa esattamente quello che non avrebbe dovuto fare. Il suo gesto si trasforma in atto eroico soltanto perché l’arma del terrorista si inceppa. Se così non fosse stato, il ragazzo sarebbe morto e insieme a lui gli altri viaggiatori. A nulla sarebbe valso il suo sacrificio, anzi. Quello che Eastwood racconta è l’automatismo della vita umana, dalla quale è sottratta anche la responsabilità della decisione. Da questo punto di vista, 15:17 è davvero il film che si oppone a The Post e svela dall’interno il fondo oscuro, ordinario, forse addirittura banale, sul quale si fonda la grande nazione americana. Lì la scelta coraggiosa di una donna fuori dal comune, qui il gesto scomposto e quasi ferino di un ragazzone senza nessuna qualità.
Per questa ragione il film manca di ogni pathos, contrariamente forse a tutti gli altri grandi film di Eastwood. Perché non c’è nessun pathos, nessuna epica, nell’automatismo che direziona le nostre vite, in un quotidiano che non ha slanci, almeno finché l’automatismo si interrompe e il dispositivo smette di funzionare. Solo in quel momento, si può produrre l’azione eroica di personaggi che sono tutto, tranne che eroi: qui come in Sully (2016) e forse ancora prima in America Sniper (2014). Non rispondere al protocollo, è quello che fa lo stesso Eastwood da parte sua, decidendo di far inceppare volontariamente la sua arma, rinunciando alle strutture fondanti del cinema classico americano: niente attori, nessuna vera azione, nessuna grande narrazione. Contrariamente a quanto non faccia Spielberg, Eastwood rinuncia alla grande forma cinematografica con la quale gli Stati Uniti per un secolo si sono raccontati come nazione. L’immagine di un’arma che si inceppa si oppone a quella degli ingranaggi perfettamente oleati delle rotative che sfornano migliaia di copie del Washington Post.
La decisione così radicale di Eastwood è pari alla critica che il regista riserva agli Stati Uniti, al suo sistema educativo anzitutto, alla religione e infine all’esercito. DDA, disturbo da deficit da attenzione: negli Stati Uniti, così dicono le statistiche, ne soffrono la gran parte dei figli di madri single. È la sindrome che un’insegnante diagnostica a due ragazzini all’inizio del film. Il loro anti-eroismo ha origine da lì. La maestra di scuola qui richiama alla mente un’altra figura del sapere (foucaultiamente intesa), in quel caso una psicologa, che in American Sniper nega l’esistenza di un trauma nell’uomo che, nel finale, uccide l’eroe/antieroe del film.
Il problema è ancora una volta lo stesso: l’assoluta cecità della norma, la banale normalità del gesto che contraddice ogni regola e trasforma un uomo comune in un eroe suo malgrado. È il sistema americano, attraverso le sue istituzioni disciplinari, a creare la folta schiera di anti-eroi di cui è popolato il cinema dell’ultimo Eastwood. La scuola (che riconosce un vero e proprio ritardo cognitivo, oltre che un disagio psicologico, in uno scolaro che semplicemente guarda fuori dalla finestra), il commercio sin dall’infanzia con le armi usate come innocui giocattoli, l’esercito che punisce i ritardi e le disattenzioni di un soldato come violazioni dell’ordine impartito. Solo perché sono capaci di nulla, persino di arrivare in orario a scuola, i tre ragazzi possono diventare i protagonisti inconsapevoli di un gesto come quello che compiono sul treno Amsterdam-Parigi. Solo perché il loro gesto risponde alla stessa logica di un videogioco, i tre ragazzi sono in grado di compierlo: perché non è niente di più di un gioco da ragazzi. Soltanto a posteriori le istituzioni, che di loro hanno fatto pressappoco degli inetti, di quel gesto si riappropriano, trasformando i tre ragazzi negli eroi che non sono, non sono mai stati.
Il discorso finale del presidente della Repubblica francese Hollande è il luogo di questa riappropriazione e, non a caso, è il solo momento del film in cui il lavoro della messa in scena torna a farsi sentire e anzi è mostrato esplicitamente, duplicato. Eastwood alterna le immagini “reali” dei ragazzi e delle loro famiglie accanto al presidente a quelle rigirate appositamente per il film. È la prima volta in cui i tre assurgono al ruolo di attori. Accanto a loro un altro attore, François Hollande che recita il discorso che consacra il gesto eroico dei ragazzi. Non più il cinema, ma la politica è oggi lo spazio della sola messa in scena possibile. Eastwood se n’è accorto per primo, ancora una volta. Del grande cinema di guerra non rimangono che due locandine appese nella camera di uno dei ragazzi: Full Metal Jacket (Kubrick, 1987) da una parte, Letters from Iwo-Jima (Eastwood, 2006) dall’altro. A quel cinema, Ore 15:17 – Attacco al treno rende un indimenticabile omaggio.
Riferimenti bibliografici
A. Canadè, A. Cervini, a cura di, Clint Eastwood, Pellegrini, Cosenza 2012.
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