Grande fortuna degli Stati Uniti fu quella di non aver dovuto sopportare nel corso del Novecento conflitti bellici sul proprio territorio. In linea con questa “inesperienza”, il cinema americano sembra aver adottato da sempre un atteggiamento di diffidenza nei confronti di rappresentazioni belliche interne in un contesto realistico, che esulassero da uno scenario post-apocalittico, dall’avverarsi della distruzione mutua assicurata. Addolcite dall’essere manifeste visioni distopiche o ucroniche, lontane o alternative: insomma non reali e perciò, in fondo, rassicuranti. Dopotutto, è solo fantascienza.

La seconda guerra civile americana (Dante, 1997) è tra i pochissimi a risolvere il problema della guerra combattuta con l’atomica, optando non per un combattimento tra nazioni da Terza guerra mondiale, bensì per un conflitto interno agli Stati Uniti: una seconda guerra di successione. L’atomica non è dimenticata, ma rilegata al sottotesto come mero MacGuffin per dare avvio alla catena di eventi. Per questo esplode lontana, in Pakistan, e noi ne veniamo a conoscenza soltanto perché accennata. Lo sfondo è però quello della satira giornalistica che mostra i bizzarri retroscena dell’escalation militare. Si ride della politica e dei politici, dei grandi valori militari, dei media. Tuttavia, un certo disagio aleggia sottotraccia durante il corso dell’opera. Arrivati ai minuti finali, il presidente sfonda il confine dell’Idaho. I fucili iniziano a sparare. Il sangue inizia a scorrere. Americani figli dell’american way of life massacrano altri americani. Prima di morire, un inviato di una rete televisiva annuncia: “È guerra”. Il tono cambia, la regia cambia. Non c’è più nulla da ridere. Per qualche minuto c’è solo tensione e paura.

Con Civil War (2024) Garland (ri)parte da dove Dante aveva lasciato. Ma qui non si ride mai, neppure una volta. Conosciuto per il suo lavoro sul genere sci-fi, il regista britannico viene paradossalmente meno alla fantascienza proprio nel momento in cui sarebbe stato lecito aspettarsi di trovarla. Il mondo mostrato presenta una perfetta aderenza con quello attuale. Non c’è distanza temporale o differenze nell’immaginario, nessun elemento che possa farci rifugiare in quel distacco rassicurante. Anzi, diversi riferimenti sembrano alludere a eventi recenti: dai membri del movimento Boogaloo, all’assalto al Campidoglio del 2021. C’è un’unica differenza. Per qualche oscuro motivo: “È guerra”.

Il film inizia ricordando qualcosa che lo spettatore dovrebbe già sapere. Un invito a tenere a mente una consapevolezza ormai data per scontata: i media mentono. Il discorso alla nazione del Presidente, iniziato fuori fuoco, è provato e riprovato, ripetuto e modificato, ridimensionato – passando da “la più grande vittoria dell’umanità” a “la più grande vittoria bellica” – e tendenzioso, trasmesso in tv e infine visto da Lee attraverso la sua fotocamera digitale. L’informazione trasmessa dai media è una recita, una mistificazione, la sua autenticità compromessa. E nonostante questo, la storia che ci aspetta parla proprio di coloro che si incaricano di diffondere i grandi eventi mediali. Persone che “non fanno domande, ma documentano per far sì che possano farle gli altri”. Che vanno alla ricerca dell’intervista e dello scatto perfetto, dello scoop sensazionalistico, pur consapevoli di non avere il controllo (o l’interesse?) su quali messaggi, informazioni, veicoleranno.

Le scene che abbiamo imparato a conoscere nei grandi film di guerra sono trasportate nello scenario urbano statunitense di oggi. Ma più che al war movie, Garland sembra interessato al rapporto tra soggetto che produce (fotografo) e oggetto prodotto (fotografia), tra chi crea e ciò che crea. Rapporto che nasce dal profondo, da un’urgenza, da un’esigenza esistenziale. “Se non è nello schermo non esiste” dice Mel Burgess e seguendo tali parole il percorso delle due reporter Lee e Jessie si configura come una ricerca della realtà più che della verità. Una realtà che per le protagoniste parrebbe poter essere colta soltanto attraverso l’occhio superiore dell’obiettivo, come se l’essere umano avesse finalmente compiuto quell’assimilazione postulata da Vertov con il suo cine-occhio. Così Jessie scatta una foto a Lee con un bell’abito, sorridente, un sorriso rubato, reale ma non vero, in un paesino che all’apparenza sembra essere rimasto fuori dal tempo. “Lo sa che c’è una guerra civile in tutta l’America?” chiede Joel alla commessa. Mentre la verità si nasconde sui tetti, armata di fucile e lontana dagli obiettivi fotografici.

Il percorso compiuto da New York verso Washington D.C. si presenta in un modo duplice e parallelo. Da una parte risponde ai codici del road movie, finendo per riversarsi tuttavia in una struttura schematica pseudo-videoludica. La parte centrale prosegue per scenette, livelli, o quadretti indipendenti che hanno lo scopo di incorniciare e restituire uno specifico messaggio. C’è la banalità del male dal benzinaio (“Quello lo conoscevo”); il nemico interno senza volto e dalla bandiera incerta nel duello tra cecchini (“Chi c’è là dentro? Uno che spara!”); il nazionalismo pretestuoso e degenerato che punta a una pulizia etnica nella scena della fossa comune (“Che tipo di americano sei?”). Raggiungendo infine l’ultimo livello, in cui le truppe avanzano stanza dopo stanza giungendo al Presidente, al boss di fine gioco. Da un’altra prospettiva, il film risponde ai codici del coming of age, con un viaggio che segna una crescita per Jessie a scapito di Lee. Due identità che sin dall’inizio appaiono molto simili, anche se in stadi differenti della vita: entrambe le donne hanno il padre in campagna e scattano le prime foto di guerra con una Nikon analogica.

Nel rappresentare questa evoluzione, Garland ricorre a un tema fondamentale del suo cinema: quello del duplicato. Dopo l’emulazione del corpo umano da parte di un’intelligenza artificiale (Ex Machina, 2015), di un’entità extraterrestre (Annientamento, 2018) e di un trauma (Men, 2022), in Civil War è il turno dell’essere umano che riproduce un essere umano. Così come l’alieno del faro, che impara a esistere riproducendo a specchio il corpo che gli si para davanti, Jessie osserva e riproduce sempre più fedelmente movimenti e gestualità del suo mentore. E l’emulazione che si fa crescita – legata al citato rapporto soggetto e oggetto, mostrato attraverso l’utilizzo del campo e controcampo che segna una distanza con il fotografato – pone difatti a confronto le due protagoniste. Il corpo stanco, provato e spento di Lee, minato dalle atroci esperienze testimoniate, che riemergono a tormentarne i ricordi sotto forma di immagini in movimento (grazie all’utilizzo del ralenti), è contrapposto a quello fresco, energico e curioso di Jessie, che sente il bisogno di soddisfare il brivido giovanile: “Non ho mai avuto tanta paura in vita mia e non mi sono mai sentita più viva”.

Ciò conduce a un processo di inversione, o meglio, a un passaggio di testimone dalla vecchia generazione alla nuova, dal mentore all’allieva, realizzato da Garland sempre solo tramite il corpo e l’immagine, rifiutando la parola. Tutto avviene in modo chiaro, esplicito ed evidente. Man mano che l’esperienza è trasmessa all’emulo moderno, il corpo obsoleto inizia a svuotarsi venendo meno alle proprie posizioni. Una regressione, quella di Lee, che risulta quindi funzionale all’evoluzione di Jessie, contraddistinta da una progressiva perdita di empatia e umanità. Se nelle fasi iniziali la donna rimprovera alla ragazza di aver pianto alla vista di un cadavere, con l’arrivo a Washington D.C. le posizioni saranno ormai invertite. Sarà Lee a tremare terrorizzata, scioccata dalla morte di Sammy, mentre Jessie ormai non piange più. Reagisce impavida proprio perché “non deve farsi coinvolgere, non deve farsi domande”. Fino ad arrivare a dentro il Campidoglio, in cui l’inversione è ormai quasi completa.

Con un ultimo gesto, il mentore salva nuovamente l’allieva che ha sbagliato movimento, infrangendo ancora una volta la sua regola di non interferenza. Un salvataggio avvia il film e un salvataggio lo conclude. Jessie cade a terra e alza la macchina fotografica. Lee rimane in piedi di fronte a lei. Campo e controcampo. La distanza che separa soggetto e oggetto. “Tu scatteresti una foto se mi sparassero?”. Sì. Il proiettile la colpisce. Scatta. Il corpo cade a terra privo di vita. Il passaggio è ora completo. Se prima dell’assalto Lee cancella la foto del cadavere di Sammy, sintomo di un coinvolgimento, Jessie si alza non voltando neppure lo sguardo verso il suo cadavere. Dopo qualche passo si gira. Campo e controcampo, ma quest’ultimo ormai è vuoto. Lee e Sammy muoiono perché riscoprono l’empatia, Jessie vive perché ha imparato a ignorarla: è il corpo moderno, abituato alla disumanità. E mentre si allontana a fotografare l’esecuzione del Presidente, con i volti sorridenti dei militari e di Joel in posa intorno al trofeo, riecheggiano nella mente le parole di James Nachtwey in War Photographer (Frei, 2003): “Se l’ambizione e la carriera dovessero avere la meglio sulla compassione avrò venduto l’anima”.

Civil War. Regia: Alex Garland; sceneggiatura: Alex Garland, Pascal Bonitzer; fotografia: Rob Hardy; montaggio: Jake Roberts; interpreti: Kirsten Dunst, Wagner Moura, Cailee Spaeny, Stephen McKinley Henderson, Nelson Lee, Nick Offerman, Jesse Plemons; produzione: DNA Films, IPR.VC; distribuzione: 01 Distribution; origine: Regno Unito, Stati Uniti d’America; durata: 109’; anno: 2024.

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