Interrogati da Fata Morgana Web sui cinque libri che hanno segnato la loro conoscenza e il loro amore per il cinema, studiosi, critici e cineasti italiani, hanno scelto i loro livres de chevet, spesso argomentando le ragioni della selezione. Che cosa è emerso, al di là delle scelte singolari e talvolta felicemente curiose di ogni partecipante? Proviamo a riassumere in alcuni punti cosa viene fuori dalla graduatoria dei primi cinque libri e dalle scelte complessive, che rappresentano qualcosa che va molto al di là della mera indicazione di un gusto:

♦Quando si arriva al dunque e si prova a circoscrivere il perimetro di un territorio che si è studiato ed amato (e si continua a studiare ed amare), quest’operazione tende a far ritornare ai “classici”. Il classico non è ciò che fonda il canone, ma è ciò che sa restituire quel territorio nella forma più ricca e complessa, e dunque vitale, possibile. È dunque un ritorno che apre al futuro. E questo è il senso della presenza, tra i cinque libri più votati, di André Bazin (Che cosa è il cinema?, 25 voti), dei due volumi di Gilles Deleuze sul cinema  (L’immagine-movimento e L’immagine-tempo, 14 voti), di Truffaut (Il cinema secondo Hitchcock, 13 voti), Ejzenštejn (La natura non indifferente, 10 voti), e Pasolini (Empirismo eretico, 7 voti). Ma molti altri “classici” sono stati votati, a partire da Epstein e Balázs.

♦Al di là degli interrogativi occasionati da contingenze e mode, ciò che sembra restare è una domanda ontologica, troppo sbrigativamente liquidata a favore di domande “funzionali” (come funziona il cinema nei nuovi contesti? Quali dispositivi attualizza?) o escatologiche (il cinema vivrà o morirà?). La pertinenza di queste domande può restare tale se e solo se le si consideri come modi di espressione della domanda ontologica: che cos’è il cinema? Che non è solo la domanda di Bazin e di Deleuze, ma anche quella di Pasolini (unico italiano entrato nei primi cinque), e anche di Ejzenštejn (per quanto in quest’ultimo – diversamente dagli altri tre – l’ontologia sconfini nell’antropologia).

♦Pensare e scrivere sul cinema significa intrecciarlo ai film. Registi e critici lo fanno per destino e professione: sono i più votati. Netta dominanza infatti di testi di poetica, breviari, memorie, riflessioni sul cinema da parte di cineasti (in coda ai cinque troviamo Bergman e La lanterna magica con 6 voti e, un po’ più giù, Epstein, Bresson, Godard), e testi di critici (oltre Bazin, Serge Daney con ben 7 voti, distribuiti però su più titoli). Poco presenti invece testi di carattere teorico generale nei quali il filmico viene preso in carico solo come oggetto esemplare o annegato in categorie illimitatamente estese (come quella di visuale, per esempio).

Ed ancora, due testi (con 4 voti ciascuno) che leggono due cinematografie nazionali fondamentali, come l’americana e l’italiana: Michael Wood, L’America e il cinema, e L’avventurosa storia del cinema italiano, a cura di Fofi e Faldini. E, tra le scelte curiose, colpiscono quelle di chi ha optato per romanzi o racconti: a conferma che la chiave d’accesso alla comprensione di un’arte può passare anche (ma direi spesso) per altre arti. Ma tutto questo ancora non coglie quello che è l’elemento prevedibilmente dirompente di questa votazione. Un libro e un autore su tutti svettano, André Bazin con Che cosa è il cinema? e i suoi 25 voti (più del 50 % dei 42 partecipanti).

Perché Bazin? Perché ancora Bazin (nel cui solco “Cahiers” si muovono, per restare ai primi cinque libri, anche Truffaut e Deleuze)? Perché ancora Bazin con l’uscita proprio in questi giorni degli Écrits complets (che saranno presentati domani al convegno di Palermo) e un numero di “Critique” a lui dedicato?

Questa è la vera questione, a cui proviamo a dare una rapida risposta. Se il cinema è stato effetto anche dei discorsi che lo hanno investito, Bazin, nel momento chiave della modernità cinematografica, nata nel secondo dopoguerra dopo le devastazioni belliche e le dittature, ha saputo adottare il nuovo cinema collocandolo in un solco simbolico nel quale la novità delle forme espressive incontrava l’essenza del cinema tout court. Una estetica esprimeva un’ontologia: il realismo delle forme restituiva quello ontologico del cinema. Le sue letture del cinema neorealista facevano emergere, per esempio, come la straordinaria novità del cinema italiano di allora risiedeva nella capacità di restituire il reale in tutta la sua densità, opacità, aleatorietà e concretezza. Questa restituzione determinava uno scarto con il découpage astratto del cinema classico e realizzava quella che era la forza specifica del cinema, dare la parola al mondo in quanto mondo, il fatto che «prima di essere condannabile, il mondo, semplicemente è» (Bazin 1999, p. 280).

E se la verità di un’arte (come di un uomo) emerge nel mezzo, nella fase della maturità, è proprio nel turning point del secondo dopoguerra, in un contesto storico e sociale critico, che vediamo emergere attraverso la contingenza della forma la verità della nuova arte, nello scarto da ciò che l’aveva preceduta (“astrazione”, “espressionismo del montaggio e dell’immagine”), e nella resa dominante di ciò che fino ad allora era emerso solo in forma carsica (in Stroheim, Murnau, Renoir). Questa verità, occorre ribadirlo, si trova oltre l’equilibrio drammatico dei generi o il simbolismo delle forme, nella rivelazione di un reale singolare che al cinema appare come scarto (tra un’immagine e l’altra, il visivo e il sonoro) e come messa in questione dell’azione, sostituita dall’erranza e dalla veggenza dei personaggi (secondo la ripresa che ne farà Deleuze) il cui sguardo sul mondo intercede quello dell’autore.

«Oggi [e siamo all’inizio degli anni cinquanta] finalmente si può dire che il regista scrive direttamente in cinema. […] Il cineasta non è più soltanto il concorrente del pittore o del drammaturgo, ma finalmente l’eguale del romanziere» (ivi, p. 92). Mettendo a fuoco il carattere potente ma “non-vero” del cinema classico, Bazin attesta l’emergere, nella “debolezza” del cinema moderno (riscontrabile non solo nella “povertà” del cinema neorealista ma anche nel non-finito di quello wellesiano), di una verità del cinema affidata alla “scrittura” diretta delle cose, che significa affidata al gesto che incontra il mondo, che lo contempla e con ciò stesso lo istituisce, prescindendo da ogni modello rappresentativo.

Prescindendo in definitiva dall’”ontologia della prassi” di matrice aristotelica (ripresa dalle scuole americane di sceneggiatura), e accedendo ad una ontologia (alternativa) del reale e della durata, di matrice “bergsonienne”, come dirà riferendosi a Le Mistère Picasso. Questa nuova ontologia, ripresa e radicalizzata anni dopo da Deleuze, che il cinema è capace di incarnare all’ennesima potenza, definisce non solo il modello alternativo a quello “pratico”, ma quello che il cinema ha di più specifico, la sua verità, che abita il filmico in ciò che questo presenta di eccedente rispetto alla storia e all’azione raccontata. Rimane esemplare il caso del bambino in Ladri di biciclette, «toglietelo e la storia resta sostanzialmente identica» (ivi, p. 310), ma il senso del film cambierebbe radicalmente, la vicenda dell’operaio derubato perderebbe tutta la sua “dimensione etica” e morale (che risposa nello sguardo del bambino su ciò che accade), divenendo mero dramma sociale.

Per concludere, Bazin non solo tiene insieme “tutto il cinema”, nel passaggio dal classico al moderno, ma mostra anche l’emergere difficile e contrastato della sua verità. E lo fa in un corpo a corpo stretto con il film. Bazin non è solo un critico, dunque, ed è molto più di un teorico. Bazin, e ciò che lo segue nella tradizione dei “Cahiers”, è colui che in buona parte ha fatto sì che il cinema sia ciò che è. L’ha adottato e condotto nella sua fase adulta, riconsegnandocelo diverso, ricco e complesso, contrastando anche chi continuava a lasciarlo infante, rigettandolo sotto cappe ideologiche (pensiamo alla lettura del neorealismo fatta da buona parte della nostra critica più autorevole di allora). Per questa ragione continuiamo ad amarlo, a leggerlo e a citarlo (anche se in taluni casi si è pensato di archiviarlo come oggetto desueto). E per questa ragione ci auguriamo che almeno ora qualche editore coraggioso abbia il desiderio e la forza di tradurre i suoi Écrits complets. Sarebbe non solo omaggio al più grande critico cinematografico, ma al cinema come arte e forma espressiva che riguarda pienamente le nostre vite e il nostro presente.

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 2014. 
G. Deleuze, L’immagine-movimento, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino 2016-2017.
S.M. Ejzenštejn, La natura non indifferente, Marsilio, Venezia 2001. 

F. TruffautIl cinema secondo Hitchcock, Il Saggiatore, Milano 2014. 
P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Garzanti, Milano 2015.

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