Immediatamente dopo le prime proiezioni nelle sale, Non aprite quella porta (The Texas Chain Saw Massacre, 1974) entra a pieno titolo nell’olimpo della cinematografia dell’orrore statunitense. Nonostante il film di Tobe Hooper abbia gettato le basi per la formazione di nuovi orizzonti espressivi dell’horror moderno, la critica ne ha rimproverato l’uso ossessivo e malsano della violenza, la semplicità del racconto e il suo “plastic script” che tipizza eccessivamente i personaggi in nome di una rappresentazione cruda e deliberata degli omicidi. In realtà il film offre delle interessanti prospettive analitiche riguardanti la trasformazione del contesto culturale e simbolico degli Stati Uniti meridionali. L’oscenità del film non si limita solo al sensazionalismo degli omicidi, ma ad una perturbante distorsione del contesto culturale sudista del quale Leatherface e la famiglia Sawyer sarebbero gli ultimi esponenti. Il ritratto dei freaks proposto da Hooper è frammentato poiché da un lato prosegue una certa tradizione letteraria tipica del Southern Gothic e del folclore regionale, dall’altra ne scardina i valori simbolici attraverso un lavoro parodico: il freak è dunque il risultato di un processo di stratificazione culturale che ha modellato progressivamente l’immaginario americano, conferendo al diverso la connotazione di nemico.
L’anglista Francesco Dragosei sostiene che fin dai tempi della “scoperta” del Nuovo Mondo, la società americana ha vissuto nella costante paura di un imminente attacco da parte dell’altro, inteso non solo dal punto di vista etnico, ma anche come entità spirituale in grado di impedire ai coloni di realizzare il progetto divino. Il vittimismo paradossale dei puritani, prima ostracizzati e poi conquistatori di terre, provoca un clamoroso slittamento semantico tra i concetti di vittima e carnefice e impone loro la necessità di allestire «un grande teatrino di autosuggestione collettiva in cui fingono non solo di trovarsi tuttora all’interno del cerchio ormai definitivamente abbandonato sulle sponde inglesi, ma di essere loro accerchiati e minacciati dai (preesistenti, ignari) abitanti del mondo in cui sono sbarcati» (2002, p. 18). Secondo lo studioso questa autocommiserazione persiste nel corso dei secoli, tanto da creare una «serie infinita di auto suggestioni e auto infingimenti, di grandi e piccoli equivoci che accompagneranno tutto lo svolgersi della storia e della cultura “americana”» (ibidem).
Un esempio concreto di questa condizione è la Guerra di secessione: una riproposizione del concetto di assedio postulato da Dragosei in cui il Sud dovrà fingere di difendersi a tutti i costi dalle “barbarie” del Nord, mentre quest’ultimo vedrà la Confederazione come crogiolo di una cultura retrograda e antagonista all’inevitabile progresso. Ma l’assedio è anche mentale, immaginario, e nel corso degli anni l’identità sudista sarà marchiata dalla paura di essere compromessa da un indefinito altro, che può assumere sia sembianze del progresso industriale, sia quelle del viandante straniero o del turista perduto che si addentra in territori ostili. Queste ultime due “incarnazioni” del nemico le ritroviamo consistentemente nel film di Hooper ma rappresentate in modo piuttosto anomalo: invece di ricorrere alla classica contrapposizione tra un eroe valoroso e un antagonista spregevole, il regista decide di utilizzare i mostri come strumento di resistenza contro l’ostilità del mondo capitalistico e l’invasione da parte degli “estranei”. I freaks, storicamente esclusi e segregati dalla comunità, assumono all’interno della pellicola il ruolo di giustizieri, di difensori della propria terra e della propria identità comunitaria.
I mostri di Non aprite quella porta sono il prodotto di una feroce società capitalistica, vittime della crisi – il film è uscito nel 1974, un anno dopo la recessione economica dovuta allo shock petrolifero – e dell’automazione che sta progressivamente togliendo lavoro alla manodopera sudista. In diverse scene viene fatto riferimento alle difficili condizioni di vita in cui riversano i cannibali e, da alcune di esse, si evince una diffusa refrattarietà al progresso tecnico: pensiamo per esempio al dialogo tra Franklin e l’autostoppista, in cui quest’ultimo confesserà di preferire il martello alla pistola abbattibuoi perché i nuovi metodi di uccisione del bestiame stanno sostituendo la forza lavoro. Oppure la tragicomica scena del rapimento di Sally dove Drayton, dopo aver legato e caricato la ragazza sul furgone, si accorge di aver lasciato la luce accesa nel negozio e scende per andare a spegnerla. Una volta tornato al mezzo si rivolgerà a Sally dicendo: «Had to lock up and get the lights, cost of electricity is enough to drive a man out of business!». Inoltre, nella sequenza del banchetto, al nonno della famiglia Sawyer verrà affidato il compito di uccidere Sally con il vecchio martello usato per sopprimere gli animali, un’evidente metafora della loro ostilità verso il progresso incarnato dalla ragazza e dalla sua condizione benestante tipica della classe media urbana.
Come accennavamo prima, il rapporto con il soggetto esterno è un altro grande tema ricorrente nella cultura e nella narrativa sudista: in particolar modo ritroviamo spesso l’archetipo del “turista perduto” che si addentra a suo malgrado tra le paludi o i monti appalachiani, costretto ad un violento confronto con gli autoctoni. Nella letteratura gotica ci sono numerosi esempi di questa tendenza rappresentativa, come il racconto A Good Man Is Hard to Find (1955) di Flannery O’Connor in cui una famiglia di città si perde in un bosco della Georgia per poi venire sterminata da un assassino e la sua banda; ma anche nel cinema, oltre a Non aprite quella porta, sono stati realizzati film come Un tranquillo weekend di paura (Deliverance, 1972) di John Boorman o I guerrieri della palude silenziosa (Southern Comfort, 1981) di Walter Hill, basati entrambi sullo scontro tra estranei e autoctoni mostruosamente ostili. Ma se la differenza qui proposta si basa su un’opposizione dicotomica e qualitativa dove lo straniero è inquadrato come personaggio tendenzialmente “sano” e portatore di valori positivi, costretto a difendersi dalle angherie dei locali raffigurati come creature ripugnanti, nel film di Hooper questa tendenza viene rivisitata in modo radicale. L’assedio non solo si spezza, ma si ribalta completamente nella misura in cui ad essere attaccati sono proprio quei freaks che nei film sopracitati accerchiano letteralmente i protagonisti.
Il gruppo di amici si perde nel profondo Texas ma non viene attaccato immotivatamente dai locali: essi sono costretti a difendersi da una vera propria invasione da parte dei ragazzi che entreranno sfacciatamente uno dopo l’altro nella casa dei Sawyer quasi come se fosse un gioco, incuranti delle conseguenze. Attorno alla fatiscente villetta non ci sono creature inquietanti e minacciose, ma ragazzi di città cresciuti nel benessere e incoscienti del disagio rurale: il freak, dunque, grottesca e provocatoria incarnazione della resistenza sudista al progresso, riuscirà a difendere il proprio recinto attraverso le forme più becere e malsane della violenza umana. Il filosofo Gilles Deleuze, scrivendo sul finale di Freaks (1932) di Tod Browning, affermava come l’atto violento deve essere necessario da parte delle creature, proprio perché queste «sono mostri solo perché sono stati costretti a passare nel loro ruolo manifesto e solo attraverso un’oscura vendetta si ritrovano, conquistano uno strano chiarore che giunge tra i lampi a interrompere il loro ruolo» (2017, p. 86). Ma se in Freaks la brutalità dei personaggi serve a rivendicare un loro posto nel mondo, in Non aprite quella porta la violenza dei cannibali è prevedibile poiché manifestazione diretta dell’opposizione tra la sacralità del concetto di appartenenza territoriale e la diversità come caratteristica intrinsecamente negativa.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Einaudi, Torino 2017.
F. Dragosei, Lo squalo e il grattacielo. Miti e fantasmi dell’immaginario americano, il Mulino, Bologna 2002.
Non aprite quella porta. Regia: Tobe Hooper; sceneggiatura: Kim Henkell, Tobe Hooper; fotografia: Daniel Pearl; montaggio: Larry Carroll, Sallye Richardson; musica: Wayne Bell, Tobe Hooper; interpreti: Marilyn Burns, Paul A. Partain, Allen Danziger; produzione: Vortex Inc., Cannon Films; distribuzione: Fida Cinematografica; origine: USA; durata: 83′; anno: 1974.