La polizia ringrazia (1972)
La polizia ringrazia (Steno, 1972)

Il 25 febbraio del 1972 usciva La polizia ringrazia di Steno, il primo poliziottesco. Anche se non tutti sono d’accordo. Per alcuni il primo poliziottesco è Confessione di un commissario di polizia al procuratore della Repubblica di Damiano Damiani (1971) o addirittura Svegliati e uccidi di Carlo Lizzani (1966), ma non è vero: il film di Damiani è bello ma verboso – gli undici minuti della sfuriata tra il commissario e il procuratore –, mentre in Svegliati e uccidi il melodrammone tra il criminale e la sciantosa prende troppo spazio.

Il film di Steno è più quadrato e ci sono quasi tutti gli ingredienti del genere: l’ispettore abbandonato dai superiori e costretto a fare indagini poco ortodosse, le trame nere che minacciano la democrazia, l’inseguimento in automobile, la catastrofe finale. Manca la rapina in banca, ma c’è il sequestro di persona. Mezzo secolo dopo, le banche si sono dotate di porte blindate e metal detector, il sequestro non esiste più, le trame nere si sono sfilacciate, però i poliziotteschi continuiamo a guardarli. Perché?

Una prima ragione sono gli attori, ma non i protagonisti. I coraggiosissimi e legnosissimi commissari, biondi o mori, con o senza i baffi, sbiadiscono dietro le facce e i tic dei caratteristi: il bolso Corrado Gaipa, i tisici Ernesto Colli e Fernando Cerulli, i rincagnati Giorgio Trestini e Biagio Pelligra, gli impassibili Mario Novelli e Luciano Catenacci, il mellifluo Enrico Marciani, il saraceno Elio Zamuto, il tetro Carlo Gaddi, lo stralunato Gianfranco Barra, Nello Pazzafini – il più memorabile tra gli “scagnozzi” – che sembra un soldato di Gengis Kahn, l’accattonesco Corrado Solari, e troppi ce n’è.

Il protagonista recita una parte, ma i caratteristi sono trattati viventi di fisiognomica, non hanno bisogno delle parole per metterci sotto il naso un’umanità allo sbando, cinica e corrotta, senza ombra di pentimento, sottoproletaria oppure aristocratica – i vari baroni, industriali e politici – comunque cialtrona e aggressiva, le cui disavventure scatenano tutta la Schadenfreude di cui siamo capaci.

Un altro punto di forza sono gli oggetti: le alfette verdi della polizia e le Porsche grigie dei criminali, le bottiglie di Punt-e-Mes e acqua Pejo, le tv Brionvega, le prime pagine dei giornali con i titoloni su scioperi e governi democristiani, le Muratti, le pellicce Annabella, le diecimila lire con Michelangelo, il ritratto del Presidente Leone, i cartelloni pubblicitari di gelati e jeans, le insegne di benzinai e night. I caratteristi incarnano delle psicologie, gli oggetti evocano un mondo. Il poliziottesco di solito finisce male e la sconfitta è resa più amara dal fatto che non ci sarà rivincita perché quel mondo non ha un futuro, è scomparso. Sono gli oggetti che ce lo fanno sentire, demodé e ingenui, così diversi dai nostri. Per la stessa ragione, funzionano come un balsamo: dopo un decennio di oblio il poliziottesco ha ripreso quota nelle televisioni degli anni novanta, quando gli oggetti del film hanno cominciato a emanare una melanconia che rende sopportabili gli ammazzamenti e le torture.

Un motivo non secondario per cui i poliziotteschi continuano a piacere è che ci sono le ventenni più esili, le gambe più vertiginose dell’Europa di allora: Barbara Bouchet, Barbara Bach, Gloria Guida, Lilli Carati, Agostina Belli, Annabella Incontrera, Anita Strindberg, Beba Loncar, Barbara Magnolfi, Carole André, Dagmar Lassander, nei ruoli di ballerina, amante, prostituta, dropout, che si fanno sistematicamente spogliare e malmenare, anche se spesso finiscono col mettere nel sacco i loro aguzzini. Per il pubblico tutto maschile del poliziottesco, la ninfa violata e trionfante è il massimo della seduzione, è una situazione archetipica che gli anni Settanta hanno portato sugli schermi un’ultima volta, prima che gli italiani si convertissero a un immaginario erotico pacioso e mammista.

La polizia incrimina, la legge assolve (Castellari, 1973)
La polizia incrimina, la legge assolve (Castellari, 1973)

Un’altra specialità del poliziottesco è l’uso dei grandi spazi urbani. Ci sono due paradigmi: la città invernale di Milano Calibro 9 (Di Leo, 1972) e la Roma estiva di tanti film. Milano è nebbiosa, livida, ostile, l’orizzonte azzurro-grigio che merita un’umanità crudele e fallita. Roma è canicolare, oziosa, l’aria greve, le vie vuote, fa sudare e innervosire. I centri storici sono lo sfondo delle rapine, il resto dell’azione ha come teatro le periferie con i casermoni di cemento, le strade sterrate, i negozi scalcinati. Le mattanze, il bottino, il sesso, i successi e gli insuccessi, sono passeggeri e inutili, si perdono dentro uno spazio desolato e indifferente, troppo freddo o troppo caldo, così vasto che nessuna violenza è capace di scuoterlo. Naturale prolungamento delle periferie sono le autostrade, che all’epoca avevano un limite di velocità di 100km/h e per la gioia degli spettatori vengono attraversate in barba a ogni codice di circolazione. I criminali sono spesso dei tossicomani, ma si eccitano ancora di più quando vanno a tutto gas. Dopo la tensione della rapina, la fuga ha un effetto liberatorio, in auto le lingue si sciolgono e i criminali litigano mentre si sporgono dal finestrino per tirare sugli inseguitori.

Un’ultima e fondamentale ragione per cui i poliziotteschi continuano a piacerci sono le inquadrature. Forse la trovata più geniale fu quella di Umberto Lenzi che per girare gli inseguimenti montava una cinepresa Arriflex sui paraurti di auto e moto, con le ruote che occupano un lato dello schermo e sussultano leggermente mentre si mangiano la strada. Poi ci sono gli zoom velocissimi che da un campo lungo stringono sul primo piano del commissario o del criminale che cammina nervoso. Anche il trunk shot, l’angolo di ripresa da dentro il bagagliaio di un’automobile, reso celebre da Scorsese e Tarantino, c’è per la prima volta in Milano rovente di Lenzi.

Il poliziottesco non conosce la dimensione dell’opera, non vive nei film presi a uno a uno, ma nell’intreccio tra i film. In questo assomiglia al mito, i cui racconti sono mosaici fatti con le stesse tessere, composte ogni volta in modo un poco diverso. Da un film all’altro c’è un numero finito di elementi che circolano: protagonisti, caratteristi, attrici, oggetti, città, inquadrature, sequenze, situazioni, vengono mutuati e riassemblati. Il risultato fu una coerenza stilistica rara e una riconoscibilità immediata, ma le combinazioni possibili si esaurirono presto e il filone ebbe vita breve. La prima parodia, Il brigadiere Pasquale Zagaria ama la mamma e la polizia, esce già nel 1973 (Davanzati). La polizia s’incazza inflitto ad nauseam al potentissimo professor Guidobaldo Maria Riccardelli, è una strizzata d’occhio iettatoria, e siamo nel 1976.

Film epigonali fanno capolino all’inizio degli anni ottanta, ma l’ultimo vero poliziottesco è La polizia è sconfitta (Paolella, 1977) con la sceneggiatura di Dardano Sacchetti che è un requiem. L’attempato commissario non ne indovina una, le sue iniziative sono tutte inutili, compresa quella di un campo paramilitare per addestrare dei superpoliziotti. Il criminale è un vigliaccone che ammazza la gente mettendo bombe fatte esplodere con una telefonata. Se ne La polizia ringrazia i questurini respingono una folla di commercianti esasperati dalle rapine e pronti a farsi giustizia da sé, La polizia è sconfitta finisce con il criminale linciato dai viaggiatori di un autobus. Anche il commissario viene strattonato dalla turba che a poco a poco riempie la piazza. Commissario e criminale vengono fatti uscire di scena insieme, al loro posto adesso ci sono quelli che prendono i mezzi, hanno il negozietto e la domenica vanno a passeggio, cioè gli spettatori dei film. Vogliono che si torni a parlare di loro e delle cose che stanno davvero a cuore: gli amorazzi, le corna, le vacanze. Basta con gli ammazzamenti. Di lì a pochissimo il cinema italiano li avrebbe accontentati.

Barbara Bouchet in Milano Calibro 9
Barbara Bouchet in Milano Calibro 9 (Di Leo, 1972)

La polizia ringrazia. Regia: Stefano Vanzina (Steno); sceneggiatura: Stefano Vanzina (Steno), Lucio De Caro; fotografia: Riccardo Pallottini; montaggio: Roberto Perpignani; musiche: Stelvio Cipriani; interpreti: Enrico Maria Salerno, Mariangela Melato, Mario Adorf, Cyril Cusack, Franco Fabrizi; produzione: Primex Italiana, Dieter Geissler Filmproduktion; distribuzione: P.A.C.; origine: Italia, Germania Ovest; durata: 94′; anno: 1972.

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