Eisenstein
Il vecchio e il nuovo (Ejzenštejn, 1929),

Quelli della mia generazione (i ventenni, o poco più, del ’68) erano inclini a vedere il politico dovunque, ma anche a pronunciare giudizi molto severi e punitivi quando si trattava di riconoscerlo nel “mondo dell’arte”, che per qualche motivo non ci piaceva. Figuriamoci in quello dei media. Così c’è voluto un certo lasso di tempo, per noi (di certo per me), prima di cominciare a capire davvero che cosa fosse in gioco nell’idea rivoluzionaria di un cinema politico – una delle proposte davvero importanti e ancora feconde che abbiamo ereditato dall’avventura (effimera: non più di un decennio) delle avanguardie russo-sovietiche.

Siccome in un modo o nell’altro mi è capitato di essere tra i primi a mettere le mani su quel lascito – ho pubblicato gli scritti di Vertov nel 1975 e ho iniziato l’edizione italiana di quelli di Ejzenštejn, tuttora in corso, nel 1981 – mi permetterò di dire due parole, a beneficio dei più giovani, su come andavano le cose a quell’epoca. Il prototipo di cinema politico, per noi, era quello dei registi (Godard, Marker, Resnais) che avevano partecipato al film collettivo Loin du Vietnam (1967). Ma guai a mettere nel numero Lelouch che, pure, quel film l’aveva firmato anche lui. Voglio dire che eravamo intransigenti e intolleranti: adorniani senza saperlo (almeno io, che Adorno lo avrei letto più tardi con molta ammirazione ma con pochissima passione), amavamo in segreto Buster Keaton, Totò e Jerry Lewis ma poi passavamo ore al Fimstudio a seguire in religiosa concentrazione i film di Straub e di Kluge (quando ne faceva) arrivando al massimo fino a Kenneth Anger, ai fratelli Mekas e alle prime esperienze di John Cassavetes: non senza sospettare che già concedessero troppo al gusto corrente. Guy Debord, da parte sua, non ci aiutava certo a rilassarci un po’. Naturalmente era fuori discussione (e lo resta, dopotutto) che il cinema politico potesse essere un cinema che parla direttamente di politica: il famoso cinema impegnato, come fu definito con un aggettivo infelice, presto divenuto oggetto di triviali – ma meritati – sbeffeggiamenti.

Non la faccio troppo lunga e chiudo con la visione del film che mi fece completamente cambiare registro. Inizio anni Settanta, nella sede di Italia-Urss (all’epoca il mio amico Giorgio Kraiski mi aveva convinto a scrivere su “Rassegna sovietica”), mi capita di vedere l’unico film di Ejzenštejn che non avevo ancora visto, Il vecchio e il nuovo (1929), e rimango strabiliato dalla freschezza e dalla potenza dell’invenzione narrativa, nonché dalla strepitosa ricchezza di implicazioni “ideali” (lasciatemi usare questo termine desueto che chiarirò tra un attimo) di quelle immagini sorprendenti, impressionanti, spesso inquietanti.  Mi ci è voluto un bel po’ prima di poter dire con un minimo di precisione perché quel film fosse un episodio esemplare (benché criptato: ci tornerò alla fine) di cinema politico, ma credo di esserci alla fine arrivato e condividerò qui le mie conclusioni.

Non prima, però, di aver evocato il grande antagonista di Ejzenštejn, Dziga Vertov, che in quello stesso 1929 aveva girato un altro celebre film, L’uomo con la macchina da presa, assolutamente spiazzante, ma per tutt’altri motivi. Un film, occorre ben dirlo (e io lo feci, nel 1975, scrivendo un libriccino sull’autore), che solo con grandi difficoltà si sarebbe potuto annettere al grande progetto di cinema politico e di massa con cui l’autore aveva esordito cinque anni prima, cioè Kinoglaz (Cineocchio, 1924), di cui L’uomo con la macchina da presa sembrava essere nient’altro che un raffinato e virtuosistico commentario. Come erano andate le cose? Proverò a spiegarlo in estrema sintesi.

Diciamo allora che per Ejzenštejn il cinema politico funziona in questo modo: prendere dei concetti che rientrano in quella sfera (per esempio il concetto di “sciopero” o quello di “cooperazione”) e collegarli con immagini del tutto inattese (per esempio, a proposito della cooperazione, una mucca abbigliata come una sposa – è una famosa, irresistibile sequenza di Il vecchio e il nuovo).

Il verbo “collegare”, che ho appena usato per comodità, è in realtà piuttosto inappropriato. Mi spiego: se il concetto di cooperazione ha, in generale, un senso (se, cioè, non è solo una vuota parola), dev’essere sempre possibile coordinarlo con un’immagine: che so? Cinquanta soldati si dedicano a mansioni diverse nella costruzione di un ponte di barche; oppure: undici persone si sottopongono al rispetto di una strategia comune per condurre la palla fino alla porta avversaria – sono esempi di Ejzenštejn.

Ora, l’dea di cinema politico che aveva elaborato lui consiste in un programma in due fasi. Prima fase: disabilitare la regola che associa, in modo più o meno diretto, un concetto a un’immagine; seconda fase: ricostituire ex novo l’accoppiamento esplorando nuove regole della loro relazione.

Solo così, pensava Ejzenštejn, il concetto potrà tornare ad affondare le radici nel sensibile-percettivo e a nutrirsene. Solo così, inoltre, il cinema saprà generare emozioni profonde e persistenti dovute al fatto che la ricostruzione del nuovo nesso immagine-concetto è stata posta in carico a uno spettatore che in tal modo partecipa, letteralmente, alla nascita di un pensiero, o più precisamente: partecipa all’attivazione di uno scambio reciproco tra qualcosa di sensibile (un’immagine) e qualcosa di ideale (un concetto).  Con il che si spiega l’aggettivo desueto che ho usato prima e che qui appare, come del resto Ejzenštejn ben sapeva, in un’accezione profondamente hegeliana: quella per cui il prodigio dell’arte consiste precisamente nel collocarci nel bel mezzo di una transustanziazione del sensibile in sensato. Da qui all’idea di “schermizzare” niente meno che Il capitale di Marx, rendendo perspicui e appassionanti tutti i suoi aridissimi concetti, non c’è che un passo. Ejzenštejn non si decise mai a farlo, ma ci lavorò lungamente e probabilmente non smise mai di rifletterci.

Notiamo, prima di andare avanti, che la comprensione originaria del cinema politico in Ejzenštejn afferiva innanzitutto a un’antropologia delle immagini: il cinema non è solo, o non è tanto, un’invenzione che fa segnare un formidabile progresso nell’ordine della rappresentazione, il cinema è innanzitutto un dispositivo per l’esternalizzazione e la condivisione (per la “schermizzazione”, appunto) dei processi di produzione del pensiero e delle passioni che al pensiero di regola si accompagnano. Sta in questo la sua essenziale politicità.

Vertov la pensava diversamente, ma solo sull’ordine delle priorità. Per lui il politico del cinema non consisteva in primo luogo in una semantica, come in Ejzenštejn. Consisteva in primo luogo in una pragmatica. Anche per lui, in altri termini, il cinema dischiudeva la straordinaria possibilità di riorganizzare la comprensione delle cose, o meglio del loro “movimento”, mettendo a nudo i processi di produzione che ciascuna cosa porta con sé. Celebre e innovativa, sotto questo profilo, la sequenza di Kinoglaz in cui da un filone di pane esposto nella vetrina di un fornaio si risale, all’indietro, fino alla semina del grano che ne è stata all’origine attraversando tutte le trasformazioni lavorative che si debbono interporre tra l’inizio e la fine del processo. Un movimento di “defeticizzazione” della merce, per così dire, condotto alla piena visibilità.

Sembrerebbe anche questa una direttrice semantica del cinema politico. Ma così non è, o non lo è in primo luogo, perché per Vertov l’essenziale era che questi processi, dei quali Kinoglaz non voleva che esporre una specie di grammatica elementare, fossero presi in carico direttamente “dalle masse operaie e contadine”, implementando la loro attiva “cinematizzazione”. Ecco perché ho parlato di “pragmatica”: alla schermizzazione (del Capitale o di altro) di Ejzenštejn, Vertov contrapponeva la “cinematizzazione” delle masse.  Delle quali masse – come accade oggi in rete per innumerevoli procedure di condivisone, come le Open Street Maps, per citarne una sola di cui è certo che Vertov sarebbe stato un fan – si supponeva che potessero alimentare in tempo reale la struttura del Kinoglaz (un’evidente anticipazione di Internet) scambiandosi esperienze di lavoro in senso stretto (cioè filmando come si opera in una miniera o nella costruzione di una centrale idroelettrica) e in senso allargato (cioè documentando quanto siano efficaci le tutele sindacali esistenti, quali le rivendicazioni specifiche ecc.). Non solo masse di consumatori di immagini, dunque, ma innanzitutto masse di produttori.

Schermizzazione e cinematizzazione, dunque. Una semantica e una pragmatica (interattiva) del politico. Questa fu la principale – e per certi versi sensazionale e ancora inesplorata – proposta dei due principali artefici del cinema politico rivoluzionario. Una proposta che nell’anno fatidico dei due film che ho ricordato prima – il 1929 dell’Uomo con la macchina da presa e Il vecchio e il nuovo – aveva già esaurito del tutto la sua “forza propulsiva”. Ma l’aveva esaurita per motivi squisitamente contingenti, che si chiamano: controllo statale, censura, interdizione al lavoro. I due film, così, si somigliano almeno in questo: che entrambi denunciano la fine (provvisoria?) di un progetto. Quello di Ejzenštejn lo fa intonando un potente e talora terribile controcanto agli slogan della collettivizzazione delle campagne. Quello di Vertov riflettendo sulle figure della reciprocità (il vedere e, insieme, l’esser visti come essenza intersoggettiva del dispositivo della ripresa cinematografica) in assenza di oggetti condivisi sui quali esercitare la riflessione stessa.

I due massimi protagonisti di quell’avventura si autocompresero, e si comportarono, come avversari irriducibili. Noi oggi vediamo che le due nozioni cardinali che ci hanno lasciato in eredità – la schermizzazione e la cinematizzazione – non solo non sono antagoniste, ma riemergono da ogni dove nell’ambito delle tecnologie digitali e delle risorse creative della rete. Sapremo essere buoni eredi di quel lascito? 

Riferimenti bibliografici
M. Ejzenštejn, La natura non indifferente, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 2003.
M. Ejzenštejn, Teoria generale del montaggio, a cura di P. Montani, Marsilio, Venezia 2004.
P. Montani, Dziga Vertov, Il Castoro Cinema, La Nuova Italia, Firenze 1975.
D. Vertov, L’occhio della rivoluzione, a cura di P. Montani, Mimesis, Milano 2011.

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