Che fine fa l’avanguardia poetica, la sperimentazione letteraria, quando va a incontrarsi/scontrarsi con le immagini in movimento? Rivedendo oggi lo strampalato excursus ottocentesco di Dario Argento Le cinque giornate (1973), scritto dal regista romano assieme al letterato milanese Nanni Balestrini (una strana coppia che si specchia nei protagonisti, il romanaccio Cerusico e il milanesaccio Celentano), viene da pensare che il pregio e il difetto del film – un registro grottesco light che oscilla dal gag comico muto all’horror politico – sia merito e colpa non tanto del poeta novissimo passato al romanzo (Vogliamo tutto è del 1971) quanto piuttosto del Balestrini militante extraparlamentare, fondatore di Potere Operaio (gruppuscolo che si scioglie l’anno del film di Argento): la rilettura anti-risorgimentalista della rivoluzione del 1848 ricalca la presa di distanza di Pasolini rispetto al ’68.

Se il montaggio delle attrazioni Argento/Balestrini non ha prodotto un effetto profondo/rosso, viene da chiedersi cosa si aspettava l’autore di Gli invisibili (1987) collaborando all’audiovisualizzazione in tempo reale effettuata da un regista controvertibile come Pasquale Squitieri (notoriamente passato da fiancheggiatore di Lotta Continua a senatore di Alleanza Nazionale). Anche stavolta, l’autore dell’antologia L’orda d’oro (uscita nel 1988 contemporaneamente al film di Squitieri, che al festival di Venezia vince il premio “Cinema nuovo”) sembra più interessato a lasciare testimonianze anche finzionali del movimento-immagine (quello immortalato dal grande fotografo Tano D’Amico, con cui ha cofirmato il volume commemorativo Ci abbiamo provato. Parole e immagini del Settantasette) che non a saggiare la possibilità di resa cinematografica della sua prosa joyciana: il flusso di coscienza è meno importante della coscienza di classe?

Del resto, il rapporto con Squitieri dev’essere risultato soddisfacente ad entrambi, visto che il compagno di Claudia Cardinale chiama nuovamente Balestrini a collaborare alla sceneggiatura di Atto di dolore (1990). Ma se la parentesi Argento si è curiosamente sovrapposta all’unica esperienza radiofonica (due radiodrammi per la Rai datati 1973: Deposizione e Parma 1922), ciò che segue l’ultimo atto di dolore cinematografico è un ulteriore impegno nell’arte visiva che scorre lungo l’arco di un quarto di secolo, dalla mostra Plis plastiques del 1992 (catalogo con testo di Achille Bonito Oliva) all’installazione Tristanoil del 2012 e oltre.

Il poeta che aveva esordito nel 1961 con la prima poesia “elettronica” – prodotta a partire dalle elaborazioni frastiche di un computer Ibm, che processava versi in base a un algoritmo deciso dallo stesso Balestrini, assistito dagli amici Eco e Berio – torna al più tradizionale dei mezzi di montaggio: il taglia-e-incolla. Prima si tratta di poesia verbovisiva o meglio scrittovisiva: ritagli di giornali che da un lato enfatizzano parole o frasi attraverso il corpo tipografico e il lettering, dall’altro costruiscono andamenti spaziali che costringono l’occhio a superare la logica lineare dell’oralizzazione (la definizione “cronogrammi” è anch’essa del 1961).

In seguito arriva l’immagine fotografica o meglio tipofotografica, inizialmente in bianco e nero poi a colori: e qui la parola comincia a farsi “situazionista” alla maniera delle riviste underground degli anni settanta (un esempio è la milanese “Re Nudo”, ancora attiva quando Balestrini pubblica le Ballate della signorina Richmond sulla rivista di fumetti “Linus”). Infine, la gioia della composizione cromatica e del grafismo prende il sopravvento, e si arriva alle “colonne verbali” (Museo del Novecento, Firenze 2016) che trasformano il verbovisivo in elemento architettonico, l’avanguardia in arredo urbano.

In un taglia-e-incolla del 1962, costruito su una pagina del settimanale “L’Espresso”, è possibile leggere le seguenti frasi: l’immaginazione è disoccupata; il cinema semplifica la vita; i film servono a farci divertire. Qui il cinema come arte di massa – prima della definitiva vittoria dello spettacolo televisivo come intrattenimento votato alla manipolazione delle coscienze (e, secondo Pasolini, asservimento alla logica capitalistica del consumo) – è considerato come il contrario della creatività artistica.

Dall’altro lato della lunga operatività balestriniana, l’installazione videoartisitica di Giacomo Verde Tristanoil (2012)  che ripropone il gioco combinatorio del romanzo Tristano (1966) dilatandolo alle dimensioni di “film più lungo del mondo” (2.400 ore, praticamente la durata dell’intera manifestazione Documenta di Kassel) – si riappropria del flusso televisivo (macinando anche pezzi della serie Dallas) secondo i classici criteri del détournement situazionista e dello straniamento spettatoriale. La video-arte è la redenzione del cinema come merce dell’industria culturale che permea la società dello spettacolo?

Ma forse il cinema di Nanni Balestrini non va cercato nei film che ha sceneggiato o nel nucleo narrativo dei suoi romanzi, e neppure negli accostamenti verbovisivi dei collage o nel flusso audiovisuale della sua opera videoartistica, ma direttamente al centro dell’universo di cui ha costruito la “caosmogonia” (termine indebitato con Guattari): la poesia. Nella composizione Fino all’ultimo (titolo che è evidentemente un Godard a cui manca il respiro) scrive: «Al montaggio si incontra il destino / non c’è un’immagine ci sono solo rapporti tra / il montaggio vuol dire vedere la vita // l’importante è sentire di esistere / ciò che ci interessa è il piano fisso / al montaggio si incontra il destino / resurrezione di qualcosa che è passato / cercare di accostare una cosa vicina a una lontana / per me il montaggio è la resurrezione» (Balestrini 2010b, p. 37).

Adesso che il piano-sequenza durato 84 anni ha avuto il suo stacco, possiamo dire che quello di Nanni è stato un cinema generazionale, la rappresentazione praticamente in diretta (o in differita: la morte di Feltrinelli è del 1975, il romanzo L’editore dell’89) degli eventi reali di cui va conservata memoria non manipolata dalla historia official. Un cinema di carta, girato nello splendore di un formato immaginario compreso fra il ’68 e il 77 millimetri.

Riferimenti bibliografici
N. Balestrini, Con gli occhi del linguaggio. Opere visive, Derive Approdi, Roma 2006.
Id., Qualcosapertutti. Collages degli anni ’60, Il Canneto, Genova 2010a.
Id., Caosmogonia, Mondadori, Milano 2010b.
N. Balestrini, D. Argento, Le cinque giornate di Milano, Bompiani, Milano 1974.

*L’immagine di anteprima è un particolare dell’opera Tempesta perfetta di Balestrini.

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