Spettatori della storia

di GIAIME ALONGE

Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani di Giovanni De Luna.

La notte di San Lorenzo

La notte di San Lorenzo (Taviani, 1982)

Il dibattito sul rapporto tra cinema e storia, su come i film ci possono aiutare a comprendere il passato, inizia di fatto con il cinema stesso, quando il fotografo polacco Bolesław Matuszewski si trasferisce a Parigi, la “capitale del XIX secolo”, e qui dà alle stampe due opuscoli: Une Nouvelle Source de l’Histoire (Création d’un dépôt de cinématographie historique) del 1898 e La Photographie animée. Ce qu’elle est, ce qu’elle doit être, dello stesso anno (si possono leggere in italiano in un volume, curato da Giovanni Grazzini, uscito nel 1999 presso i tipi di Carocci). Siamo nel 1898, a meno di tre anni dalla prima proiezione del Cinématographe Lumière davanti a un pubblico pagante, la sera del 28 dicembre 1895, e Matuszewski ha già colto molte delle potenzialità della nuova invenzione come fonte storica.

Matuszewski, però, viveva in una società dove la parola scritta godeva di un prestigio culturale straordinariamente superiore rispetto all’immagine. Almeno fino alla metà del Novecento, gli storici continuano a operare quasi unicamente con le fonti scritte (diari, lettere, atti notarili, trattati, manifesti politici, ecc.). Non è un caso che il confine tra storia e preistoria sia stato tracciato proprio in rapporto all’invenzione della scrittura. La preistoria rappresenta un periodo della vicenda umana che viene “prima” della storia, non perché in tale epoca non sia possibile reperire degli “avvenimenti”. L’estinzione dell’Uomo di Neanderthal è un evento significativo tanto quanto la caduta dell’Impero romano d’Occidente o la Rivoluzione industriale. Se collochiamo quell’evento “prima” della storia è perché di esso non disponiamo di alcuna documentazione scritta.

La storiografia novecentesca – innanzi tutto grazie alla Scuola delle “Annales”, tra gli anni venti e trenta – cambia il paradigma tradizionale e comincia a lavorare con una pluralità di fonti, tra cui le immagini, statiche e in movimento. Il cambio di paradigma è però lento. Marc Ferro, uno dei padri dello studio delle interconnessioni tra cinema e storia, nella prefazione della seconda edizione del suo Cinéma et Histoire (in Italia è stata tradotta solo la prima edizione, quella del 1977), racconta che agli inizi degli anni sessanta, quando era un giovane ricercatore proprio della Scuola delle Annales, nel momento in cui inizia a interessarsi ai film come fonte storica, si sente dire da Fernand Braudel, grande storico dell’età moderna: “Fallo, ma non ne parlare”. All’epoca, procede Ferro, l’immagine non aveva ancora piena legittimità accademica, almeno non l’immagine foto-cinematografica, e dunque il maestro suggerisce all’allievo di fare attenzione a misurarsi con un oggetto “basso”, onde non compromettere la sua carriera. Solo alla fine degli anni sessanta il cinema inizia a entrare nelle università, e studiosi di cinema e studiosi di storia contemporanea cominciano a misurarsi in modo organico con le implicazioni sociali e storiche dei film.

Tale dibattito produce i suoi primi frutti significativi in Francia, proprio grazie a Ferro e a Pierre Sorlin (Sociologie du cinéma: ouverture pour l’histoire de demain, 1977), un altro storico contemporaneo, che però, al contrario del collega, passa armi e bagagli nel campo degli studi su cinema e mass media. In Italia, i seminal books di Ferro e Sorlin vengono tradotti presto. Nel 1979 Garzanti fa uscire Sociologia del cinema di Sorlin. Nel 1980 Feltrinelli traduce Cinema e storia di Ferro. Trascorrono ancora alcuni anni e compaiono i lavori dei primi studiosi italiani. C’è Peppino Ortoleva, con Cinema e storia. Scene dal passato (1991). E c’è Giovanni De Luna, come Ferro uno storico contemporaneo che continua a fare lo storico “puro” per tutta la sua carriera, occupandosi di movimenti politici e sociali (dalla Resistenza agli anni settanta), dei grandi conflitti bellici novecenteschi (Il corpo del nemico ucciso, 2006), dell’identità nazionale italiana (La Repubblica del dolore. Le memorie di un’Italia divisa, 2011, dove propone la categoria – credo assai produttiva – di paradigma vittimario).

Nel suo lavoro di ricerca De Luna ha incontrato in più occasioni, e in più forme, l’immagine in movimento. L’ha incontrata con medium con cui confrontarsi direttamente, essendo invitato spesso a intervenire in televisione. E l’ha incontrata come oggetto di studio, perché davvero non è possibile fare seriamente la storia del ventesimo secolo senza il cinema e senza la televisione. Nel suo La passione e la ragione. Fonti e metodi dello storico contemporaneo (2001), De Luna lo dice chiaramente: la seconda parte di questo libro sulla metodologia nella ricerca storica novecentesca è dedicata ai media. Non solo, ma il volume inaugura una collana, presso La Nuova Italia, diretta dallo stesso De Luna, una collana che sin dal titolo, Nuovi Orchi, vuole collegarsi alla Scuola delle Annales (il richiamo è alla folgorante definizione offerta da Marc Bloch, in Apologia della storia, 1949: «Il buono storico somiglia all’orco della fiaba: là dove fiuta carne umana, là sa che è la sua preda»), e che si presenta appunto come un laboratorio per la riflessione sull’intreccio tra storia e media.

Dunque, con Cinema Italia, Giovanni De Luna aggiunge un nuovo tassello a un percorso che ha intrapreso trent’anni fa, sin dal suo L’occhio e l’orecchio dello storico (1993), il primo volume in cui ragionava sulle fonti audiovisive. Cinema Italia ha un sottotitolo, I film che hanno fatto gli italiani, che sembrerebbe annunciare un’organizzazione strettamente diacronica, e nella seconda parte è effettivamente così, con una serie di capitoli che ci accompagnano dal fascismo all’Italia di Berlusconi. Ma il volume ha una prima parte, di carattere più spiccatamente teorico, che invece ignora le ragioni della cronologia, e anche della geografia, perché comincia con l’analisi di un film straniero, Terra e libertà (Land and Freedom, 1995). Questo capitolo di apertura, apparentemente eccentrico rispetto all’oggetto del libro, funziona come proposta metodologica. Il film di Ken Loach, infatti, viene letto in una doppia chiave. Da un lato, come un film che ricostruisce un evento storico, la guerra civile spagnola, e in particolare lo scontro, interno al fronte repubblicano, tra comunisti di osservanza sovietica e forze della sinistra anti-stalinista. Dall’altro lato, Terra e libertà viene letto alla luce del suo presente: un film che esce a metà degli anni novanta, dopo il crollo dell’Unione Sovietica e l’apertura di una profonda crisi per la sinistra europea e mondiale, in primis della sinistra comunista, ma più in generale di tutti quei partiti le cui radici affondavano nella tradizione del movimento operaio.

Tutto il resto del libro lavora su questo doppio livello, riproponendo la tripartizione elaborata da Ferro negli anni settanta e ancora produttiva: cinema come fonte di storia, cinema agente di storia, cinema come racconto sulla storia. Su questa triade concettuale lavorano certo le analisi dei tre film che seguono le pagine su Terra e libertà, ossia Cabiria (1914), La battaglia di Algeri (1966), La vita è bella (1997), ma anche quelle della seconda parte, disposte – come ho anticipato – in base a un ordine cronologico. Si parte dal primo film narrativo italiano, La presa di Roma (1905) di Filoteo Alberini, in un intreccio tra rappresentazione del passato e autorappresentazione nazionale, e si arriva fino a Jerry Calà, costruendo una storia d’Italia attraverso il cinema, ma al contempo anche una storia del cinema italiano alla luce del suo rapporto con la coscienza nazionale.

De Luna lavora, inevitabilmente, su film importanti e molto noti, dal già menzionato Cabiria (1914) a La notte di San Lorenzo (1982), passando per i classici del cinema dei “telefoni bianchi” e del Neorealismo, ma si ferma anche su film poco noti, dimenticati, esorcizzati, come ad esempio Grattacieli (1943), diretto da Guglielmo Giannini, che da lì a poco avrebbe dato vita a l’Uomo Qualunque, ed è proprio in rapporto all’ideologia del futuro qualunquismo che De Luna legge il film. La parte finale del volume, dedicata agli anni ottanta e novanta, include inevitabilmente, anche la televisione. Ed è proprio su un’opera che, in termini produttivi e linguistici, si colloca a metà strada tra cinema e televisione, ossia La meglio gioventù (2003), che si chiude il libro di De Luna. Il racconto fiume di Marco Tullio Giordana si presta particolarmente bene come punto di arrivo del libro, perché è esso stesso – come la monografia di De Luna – un percorso attraverso la storia italiana.

E nella fitta e ricca lettura che offre del lavoro di Giordana, così come nelle pagine precedenti, De Luna non solo fa emergere dal film i nodi concettuali della storia italiana, ma lavora anche sul film in quanto tale, collocandolo nel quadro del cinema politico italiano, dagli anni sessanta in avanti. Perché questo è, in fondo, l’elemento più importante quando ci si affronta il nesso tra cinema e storia: lavorare sul linguaggio, sulla forma, senza lasciarsi distrarre dalla questione – spesso mal posta, se non decisamente inutile e fuorviante – della “correttezza storica” dei film.

Giovanni De Luna, Cinema Italia. I film che hanno fatto gli italiani, UTET, Torino 2021.

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Un commento

  1. Jolanda Elettra Di Stefano

    Interessante questo excursus sulla storia d’ Italia attraverso il cinema

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