Tra la fine del 1963 e l’inizio del 1964, i Cahiers du cinéma organizzano una tavola rotonda dedicata al cinema americano. Jean-Luc Godard tenta di condensare, in poche righe, la figura nonché l’opera di Charles Chaplin. L’incipit di quel brevissimo testo sembra dichiarare persino l’imbarazzo nel rendere omaggio, in una manciata di parole, a un artista che si trova «al di sopra di qualsiasi elogio perché è il più grande. Che altro dire infatti? Il solo cineasta, comunque, che possa sopportare senza malintesi la qualifica così fuorviante di umano» (Godard 1981, p. 164).

«Sopportare senza malintesi la qualifica così fuorviante di umano»: in che senso il cinema di Chaplin assume quella qualifica che tuttavia non gli si addice? Quale umanità mette in scena il cineasta che non può non confondersi con il suo “personaggio concettuale”, Charlot? Quale mostruosa umanità è in questione in quel personaggio che, in Charlot soldato (1918), si metamorfizza in albero, esibendo, in quel divenire vegetale, un’inquietante capacità camaleontica (cfr. le Blanc 2014, p. 64), quindi animale, facendo saltare i confini tra umano, animale e vegetale? Quel personaggio che, in Il monello (1921), prendendosi cura di un trovatello, rifiutando la filiazione biologica, suggerisce «la possibilité d’une autre filiation qui se prolonge dans la construction sociale du sexe» (ivi, p. 108), e fa saltare, dunque, i confini sociali della cura materna e paterna.

Lo stesso che, in Tempi moderni (1936), incorpora il funzionamento della catena di montaggio e fa saltare ogni presunto, stabilito rapporto tra umano e tecnico, tra umano e naturale, suggerendo l’invenzione di un’altra, rivoluzionaria umanità. Tempi moderni appare come la messa in immagini delle notorie pagine di Benjamin su L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica (1936), laddove individua il cinema, che presenta il funzionamento della catena di montaggio (che con il montaggio può infrangere), ossia lo esibisce spudoratamente, in quanto apparecchiatura che può aprire a una nuova umanità, perché favorisce la creazione di un rapporto ludico e rivoluzionario con la tecnica, ridefinendo, quindi, il rapporto tra umanità e natura (cfr. Benjamin 2014).

Chaplin è uno dei riferimenti centrali dello scritto benjaminiano sull’opera d’arte: come se nelle immagini chapliniane s’inscrivesse quel “potenziale rivoluzionario” che risiede in un uso profanatorio della tecnica del cinemaCome se Charlot, nello specifico in Tempi moderni, fosse il gesto della rivoluzione nella misura in cui incorpora la macchina-cinema. Ma «che cosa lascia apparire Chaplin quando – come scrive Benjamin – “monta l’uomo all’interno del film secondo la sua gestualità?”» (Mancuso 2023, p. 8). È proprio a partire da quella cruciale domanda, che rilancia l’importanza che la tecnica del montaggio riveste tanto per Benjamin quanto per Chaplin, che si sviluppano le riflessioni di Francesco Mancuso nel suo Cinema e rivoluzione. Per una lettura benjaminiana di “Tempi moderni” (Eutimia 2023).

Il compito del testo è scovare, attraverso le categorie estetico-politiche elaborate da Benjamin negli anni trenta del Novecento, il nesso tra estetica e politica, quindi tra cinema e rivoluzione in Tempi moderni, ossia nell’ultima occasione in cui Chaplin permette a Charlot di vivere, compendiando i motivi della straordinarietà di quel vagabondo. Perché è in particolare lo Charlot di Tempi moderni che, nella sua gestualità, si fa corpo di un inaudito, rivoluzionario legame tra estetica e politica?

Il primo numero del 2023 della rivista “K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”, che precede di qualche mese la pubblicazione dell’importante testo di Mancuso, è dedicato proprio a Charlot. Quel tramp indeterminato e anonimo, quel “grande disertore”, attraverso la sua gestualità si fa ulteriore corpo della riflessione sul paradigma estetico-politico del destituente. Perché Charlot fa proprio della catastrofe la sua (benjaminiana) possibilità di aprire a un’altra forma di vita, a un’altra vita della politica, nella misura in cui dalla sua gestualità imprendibile e imprevedibile, senza alcun destino perché rompe innanzitutto con l’ordine del tempo – è un gesto incidentale, come suggerisce Gianluca Solla (Solla 2023, pp. 13-31) – permette di immaginare l’inimmaginabile: l’avvento – per parafrasare Benjamin – di una nuova e barbara umanità.

La preziosità del testo di Mancuso risiede allora nella sua capacità di cogliere la portata estetico-politica del gesto chapliniano filtrato dalle categorie di Benjamin, aprendo a un ripensamento inumano dell’eredità tanto del cinema di Chaplin, quanto del pensiero di Benjamin. In effetti, è proprio attraverso la creazione di un personaggio che fa saltare i confini tra umano, animale, tecnico e persino vegetale, la cui straordinaria ecceità o eccentricità – «L’eccentrico: un essere totalmente fuori dal centro, un’incarnazione della marginalità e, allo stesso tempo, l’artista del teatro di varietà, capace di unire una pantomima clownesca a imprevedibili doti di destrezza» (Mancuso 2023, p. 144) –, che Chaplin permette di pensare a un’imprevedibile soggettività politica il cui «carattere distruttivo», per dirla con Benjamin, impedisce non solo di porsi in antitesi con un ordine delle cose fuori dal quale gli è impossibile vivere, ma persino di far parte anche di quei «senza parte» che l’ordine delle cose include in se stesso escludendoli. Charlot apre, quindi, a una logica «persino ultra-politica» rispetto alle «regole del gioco della politica» (ivi, p. 57): per quanto cerchi ogni volta di farsi una casa, una famiglia, un lavoro, di volta in volta, la catastrofe che lui stesso incorpora lo devia dalle sue nobili intenzioni – Charlot è pur sempre un instancabile gentleman –, fuorviando il suo percorso all’interno dell’ordine delle cose.

La sua bestiale umanità, cioè la sua inumanità che rivela proprio il lato più «distruttivo della natura» (ivi, p. 64), lo conduce, non solo malgrado la catastrofe in cui si trova, ma anche malgrado sé stesso, a farsi il portabandiera, come avviene in Tempi moderni, di una rivoluzione, che, per una serie di sfortunati incidenti, è costretto a disertare. Se «Charlot finisce con il disertare addirittura la rivoluzione e con il distruggere finanche la distruzione» (ivi, p. 79); se «le riflessioni benjaminiane sul “carattere distruttivo” sembrano aprire a una possibile lettura del vagabondo come a una figura della diserzione pura: disertando tutto fuorché la diserzione stessa, Charlot lascia immaginare una pratica rivoluzionaria persino rispetto alla rivoluzione» (ivi, p. 83), è perché nel cinema chapliniano, e in particolare in Tempi moderni, è in questione l’insorgenza di una soggettività barbara in grado di chiamare o, meglio, di fare un gesto, al limite, di dire una parola incomprensibile, appartenente a «una lingua che non concede nulla all’attualità – cioè alle regole che definiscono ciò che si può dire e il modo in cui dirlo» (Agamben 2023), che possa essere profetica per l’insorgenza di un’umanità barbara.

In effetti, nell’ultimo capitolo del libro, dal titolo agambeniano Soglie, soffermandosi sull’ultima e indimenticabile sequenza di Tempi moderni, dove Charlot dovrebbe cantare, Mancuso sembra aprire a una teorizzazione di un cinema barbaro, di un cinema dell’inumanità. Impossibilitato a ricordare le parole della canzone, sempre per una serie di incidenti, Charlot si ritrova a improvvisare: inventando una lingua barbara, inaudita, il vagabondo entra nel cinema sonoro.

La potenza distruttrice della gestualità di Charlot risiede nel rifiuto di Chaplin «a girare un film parlato. […] Chaplin condensa la propria visione del cinema in un’intuizione emblematica: “where words leave off, gesture begins”» (ivi, p. 163). Ma quando Charlot entra nella parola, il suo gesto, lungi dallo sparire, invade il dicibile, facendosi benjaminianamente «simbolo del non-comunicabile» (cfr. ivi, p. 169; Benjamin 2014, p. 69). La lingua di Charlot, allora, la propria alterità anche rispetto ai margini; di essere, per dirla con Deleuze e Guattari lettori di Kafka, minore – non a caso, come mostra Mancuso, Chaplin è per Benjamin innanzitutto la chiave per interpretare Kafka (ivi, p. 178); il cuore del pensiero di Benjamin sembra risiedere in una teoria del gesto che, dalla letteratura al cinema, è forse la posta in gioco per l’avvento di una nuova, positiva barbarie.

La posta in gioco dell’inappropriabile eredità del cinema di Chaplin e delle teorie di Benjamin, nel momento in cui, tanto il cinema quanto la sua teoria, quanto la costituzione dei paradigmi politici, si trovano ad affrontare l’alba di un altro mondo: il digitale. Il digitale cambia di continuo la fruizione e la creazione dei film; sconvolge le regole della politica; ridefinisce i confini dell’umano, nella misura in cui pone propriamente dei problemi di comunicazione. È possibile, dunque, pensare che Tempi moderni non sia l’ultima occasione in cui Chaplin permette a Charlot di vivere: «L’irrompere del sonoro non fa morire Charlot. Piuttosto, costituisce la chance per una sua ultima partenza» (ivi, p. 172). In effetti, alla fine del film, Charlot e la monella si incamminano verso l’avvenire; spariscono, quasi a non voler lasciare alcuna immagine, alcuna testimonianza delle ultime, incomprensibili parole con cui Chaplin si apre al sonoro, abbandonando Charlot. E tuttavia, benché quel “carattere distruttivo” sembri, malgrado sé stesso, distruggere persino la distruzione, l’assenza di un’immagine ci invita a pensare che qualcosa come un’hauntologia chapliniana del cinema infesterà, attraversandole, le immagini a venire. Per ricordare che il cinema, nonostante l’epoca del digitale, della bulimia di immagini e parole, può contribuire all’invenzione di un’altra inumanità (cfr. Lyotard 2001), disertando immagini e parole.

Riferimenti bibliografici
G. Agamben, Sui vantaggi di non essere ascoltati, in “Una voce”, 13 ottobre 2023.
W. Benjamin, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica, Einaudi, Torino 2014.
Id., Sulla lingua in generale e sulla lingua dell’uomo, in Id., Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi, Einaudi, Torino 2014.
J.-L. Godard, Charles Spencer Chaplin, in Id., Il cinema è il cinema, a cura di A. Aprà, Garzanti, Milano 1981.
G. le Blanc, L’insurrection des vies minuscules, Bayard, Montrouge 2014.
F. Lyotard. L’inumano. Divagazioni sul tempo, Lanfranchi, Milano 2001.
G. Solla, Disertare tutti i nomi. L’ipotesi-Charlot. Seguito da Appunti per una teoria dell’incidente, in “K. Revue trans-européenne de philosophie et arts”, 10, 1/2023.

Francesco Mancuso, Cinema e rivoluzione. Per una lettura benjaminiana di “Tempi moderni”, Eutimia, Napoli 2023.

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