«Il cervello, è lo schermo» – afferma Deleuze nel corso della sua ormai nota intervista ai Cahiers du cinéma (1986), di un anno successiva alla pubblicazione de L’Immagine-tempo (1985). Sentenza non certo priva di oscurità che richiede una serie di passaggi preliminari. Ricordiamo innanzitutto che quella riscoperta dal filosofo francese – già a partire da L’immagine-movimento (1983), con la ripresa di alcuni motivi bergsoniani dal primo capitolo di Materia e Memoria (1986) e dal quarto de L’evoluzione creatrice (1907) – è una coincidenza “ideale” o “archetipale”: un’armonia cosmica tra configurazioni del cervello e del mondo. L’organo cerebrale è concepito come uno “stato di sorvolo” raso terra, meglio, un “autosorvolo” (Deleuze, Guattari 2002, p. 213): non una forma percepita, dunque, ma una forma in sé, che si sorvola senza rinviare ad alcun punto di vista esterno, alcuna dimensione supplementare, alcuna trascendenza. In tal senso potremmo iniziare a definire le condizioni del cervello deleuziano nei termini utilizzati da Cézanne per descrivere il paesaggio: «L’uomo assente, eppure è tutto intero nel paesaggio».
Un cervello-mondo in statu nascendi: anima che plana sul mondo o mondo contratto in una molteplicità di anime; sito di una percezione materialista, acentrata e impersonale, «luogo stesso dell’immanenza nel mondo» (Bodini, De Courville, Rebecchi 2024, p. 16). Rinviando ad un “fuori” e a un “dentro” topologicamente in contatto, il cervello si costituisce dunque come una sorta di membrana dalla forte componente intensiva, vissuta: «Interiorità assoluta, che si eguaglia al mondo, di cui è un punto di vista», scriverà Alain Badiou nella sua recensione a La Piega. Acquisito il crollo senso-motorio sul quale si è costituito il cinema moderno, è indubbio che l’organo cerebrale con le sue micro-fessure domini su tutto consentendoci di superare lo storico dualismo interno-esterno.
Quando lo spazio scompiglia le proprie direzioni e i propri orientamenti – spiega Deleuze nel capitolo conclusivo de L’immagine-tempo – il quadro (o lo schermo) inizia a funzionare come tavola d’impressione sulla quale ciascun’immagine non cessa di stagliarsi in un’altra; il piano stesso da cui sorgono tutte le immagini «più che a un occhio, assomiglia a un cervello sovraccarico che assorbe senza sosta informazioni: è la coppia cervello-informazione, cervello-città, che sostituisce la coppia occhio-Natura» (Deleuze 1989, p. 295). Si legga il fondamentale capitolo VIII, dal titolo assai emblematico Cinema, corpo e cervello, pensiero: «Corpo o cervello è quel che il cinema esige gli si dia, quel che egli stesso si dà, quel che inventa, per costruire la propria opera secondo due direzioni ciascuna delle quali è insieme astratta e concreta (…)» (ivi, p. 226). Si tratta di un passaggio decisivo. Poco più avanti, riconoscendo il suo debito nei confronti del pensiero di Antonin Artaud – con la propria capacità di «ricominciare una resurrezione dopo la morte» (ivi, p. 235) – Deleuze dichiarerà che il cervello è divenuto ormai: «Il nostro problema o la nostra malattia, la nostra passione, più che la nostra signoria, la nostra soluzione o decisione» (ibidem).
Il cinema – che non è mai stato una lingua e nemmeno un linguaggio ma costituisce piuttosto tutta una psicomeccanica (diremmo allora l’enunciabile di una lingua) – non fa che aggiornare una materia intellegibile che è la sua condizione prima e consiste, da un lato, in movimenti e processi di pensiero, dall’altro, in punti di vista “presi” su tali movimenti e processi. Ed ecco perché, nello specifico, il “cinema del cervello” non potrà mai definirsi completamente astratto rispondendo, di fatto, a un imperativo vitale che consiste nel restituire una credenza malgrado tutto. Una credenza in un mondo instabile: mondo da costruire prima ancora che da ri-costruire.
Se c’è infatti una questione che non cessa di tuonare tra gli interstizi della tassonomia deleuziana e che in seno alle nostre società, segnate dall’impatto delle nuove tecnologie audiovisive, s’impone in maniera decisiva (tanto a livello estetico che sociale), questa concerne l’esigenza di riconnettersi alla realtà del mondo. Con essa Deleuze ha saputo sensibilmente identificare l’urgenza di un tempo a venire che è il nostro. Il cinema obbedirebbe dunque ad una necessità esistenziale. Muovendo dall’esigenza d’interrogare il pensiero deleuziano sulla settima arte e le immagini in movimento alla luce della distinzione operata dal filosofo tra “cinema del corpo” e “cinema del cervello”, il volume, Cinéma du corps, cinéma du cerveau. Deleuze aux frontières de la spectatorialité, raccoglie i contributi offerti da diversi studiosi in occasione delle due giornate di studio dedicate all’argomento. La prima, dal titolo L’écran, corps ou cerveau? Deleuze, Merleau-Ponty et l’écran du cinéma (curata da Jacopo Bodini, Mauro Carbone e Stanislas de Courville) tenutasi presso l’Università di Lione il 26 aprile del 2022; la seconda Cinéma du corps, cinéma du cerveau (curata da Jacopo Bodini, Stanislas de Corville e Marie Rebecchi) organizzata presso l’Università Aix-Marseille il 16 e il 17 giugno del 2022.
Il testo è ordinato in tre parti: la prima, Aux discrete frontières du cerveau, presenta gli interventi di Stanislas de Courville, Dork Zabunyan, Judith Michalet e Giulio Piatti; la seconda, Psychologie et thérapeutique du cinéma, offre i contributi di Laurent Jullier, Stefan Kristensen, Jacopo Bodini, Elena Vogman; la terza, Débordements filmiques des corps et cerveaux, i saggi di Marie Rebecchi, Anna Caterina Dalmasso, Eugénie Zvonkine, Emanuelle André. Le conclusioni, infine, sono affidate a Jean-Michel Durafour. Ciascun intervento si pone l’obiettivo di riesaminare e rilanciare alcune tra le più profonde intuizioni deleuziane, procedendo in accordo e talvolta anche in (parziale) disaccordo con esse, al fine di indagare tra le pieghe del misterioso rapporto che il cinema non smette di tessere tra le immagini, la realtà e l’esistenza.
Consacrare uno studio alle relazioni tra la filosofia di Deleuze e il cinema, vuol dire innanzitutto continuare a porsi il problema dell’esistenza di un’estetica deleuziana – allo stesso modo in cui, anni addietro, aveva potuto interrogarsi Jacques Rancière. Esiste, in altre parole, una “maniera” squisitamente deleuziana di interpretare l’arte? Quando Piatti rilancia, a buon diritto, una celebre nozione di Raymond Ruyer – quella di superficie assoluta – allo scopo di riesaminare alcune dinamiche connesse alla fondazione stessa del piano di immanenza, evidenzia un tratto distintivo di tutto il pensiero deleuziano sull’arte: quello specificamente legato alla creatività del Nuovo, si tratti della pittura di Cézanne o del “cine-occhio” vertoviano. Ciò che conta, è riconoscere la genesi di un atto autonomo in grado di dispiegare un orizzonte altro: «Il quale non è dato che all’occhio che non abbiamo e che, di conseguenza, come aveva già avuto modo di rilevare Paul Klee, rende visibile il reale» (Piatti in Bodini, De Courville, Rebecchi 2024, p. 98).
Giriamo allora sempre attorno alla stessa domanda: creazione cerebrale o deficienza del cervelletto? «Il nuovo automatismo non vale nulla per se stesso se non è a servizio di una potente volontà d’arte, oscura, condensata, desiderosa di dispiegarsi con movimenti involontari che non per questo la costringono» (Deleuze 1989, p. 293). Per questo si rende più che mai necessaria una volontà d’arte originale che sia soprattutto una volontà di cattura, di “presa” sul mondo. Ed è qui che interviene la forza poietica ed estetica del “fatto cerebrale”, alla quale va riconosciuta tutta la sua potenza plastica. In un’intervista successiva di tre anni a L’immagine-tempo, dal titolo Sur la philosophie, il filosofo francese torna ad esaminare le conquiste della microbiologia del cervello soffermandosi in particolare sui meccanismi di probabilità, semialeatori, quantici. «Questo elemento dell’alea o del fortuito» – nota nel suo saggio Dork Zabunyan – «non può essere considerato in maniera isolata, nella misura in cui costituisce la premessa a una dimensione produttiva, vale a dire creativa, che è fondamentale» (in Bodini, De Courville, Rebecchi 2024, p. 69). In tal senso, l’etica dispiegata ne L’immagine-tempo troverebbe nella conoscenza dei meccanismi cerebrali una mediazione scientifica in grado di rinviare direttamente, nel finale, a una scienza della libertà; questa verrebbe a istituire la scena cinefilosofica attraverso la quale la ri-elaborazione del concetto di cervello si inscrive, per estensione, nel rilancio del quesito fondamentale: “Che cosa significa pensare?”.
In conclusione, arrivando a fare di noi stessi un’immagine tra le altre – uno schermo, appunto – del quale affrettarsi a distruggere ogni organizzazione centripeta, Deleuze dichiara il suo intento di tenersi fermamente alle frontiere della spettatorialità. Tra la corteccia (termine utilizzato, non a caso, dal filosofo a proposito del cinema intellettuale di Ėjzenštejn) e il corpo. Una cosa è certa, scrive Durafour: «L’articolazione tra corpo e cervello conduce alle relazioni esterne che le immagini intrattengono con i loro spettatori» (ivi, p. 272). Se dunque nel famoso cap. VIII Deleuze non può fare a meno di marcare una distinzione tra cinema “del corpo” e cinema “del cervello” è per un intento analogo a quello di André Bazin il quale, a sua volta, aveva proposto una distinzione tra cineasti che “credono nell’immagine” e cineasti che “credono nella realtà”. Si tratta di un comune obiettivo di indagare nel “vivo” di una circolazione attiva, se è vero che i corpi sono l’esistere e che ogni esistenza è rivolta al fuori, nelle parole di Jean-Luc Nancy: «Scrivete ai corpi (…): sarà inviato all’essere o, meglio, sarà l’essere che si invia (che altro fa il pensiero?)» (2014, p. 19). Dal corpo siamo condotti alla corteccia, e viceversa: dalla pellicola (piccola pelle) dei film che appaiono sullo schermo, ricondotti al corpo. Tale incarnazione o realizzazione rimane un mistero.
Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, L’immagine-tempo, Ubulibri, Milano 1989.
Id., Le cerveau, c’est l’écran (1986), in Deux regime de fous. Textes et intretiens 1975-1995, a cura di D. Lapoujade, Parigi 2003.
G. Deleuze, F. Guattari, Che cos’è la filosofia?, Einaudi, Torino 2002.
J.-L. Nancy, Corpus, Cronopio, Napoli 2014.
Jacopo Bodini, Stanislas De Courville, Marie Rebecchi, Cinéma du corps, cinéma du cerveau. Deleuze aux frontières de la spectatorialité, Éditions Mimésis, Sesto San Giovanni 2024.