Ordet
Ordet – La parola (Dreyer, 1955).

Può trattarsi di scoprire la metafisica che presiede a una distribuzione dei valori luministici (in Dreyer): “La messinscena di Ordet è, prima di tutto, una metafisica del bianco, cioè, naturalmente, dai grigi fino al nero profondo. Ma è il bianco, che ne è la base, il referente assoluto. È il bianco che, a un tempo, è il colore della morte e della vita. Ordet è in una certa maniera l’ultimo film in bianco e nero, quello che chiude tutte le porte” (Bazin 2017, p. 43).

Oppure, di ritrovare in un certo angolo di ripresa il segreto di una messa in scena, quella di Hitchcock:

Si tratta sempre per lui di creare nella sua messinscena […] una essenziale instabilità dell’immagine. Ogni piano diviene così per lui una minaccia, o quantomeno un’attesa inquietante. […] Non si tratta di un’“atmosfera” da cui possono uscire tutti i pericoli come un temporale, ma di uno squilibrio come se una pesante massa di acciaio cominciasse a scivolare lungo una pendenza troppo levigata e non se ne potesse calcolare facilmente l’accelerazione futura. La messinscena sarebbe allora l’arte di mostrare la realtà soltanto nei momenti in cui la perpendicolare abbassata del centro di gravità drammatico sta per uscire dal poligono di sostegno, disprezzando tanto il vacillamento iniziale quanto il fragore finale della caduta (pp. 128-129).

Che è una perfetta definizione immanente di ciò che chiamiamo suspense.

Altrove è invece la constatazione sorniona di una felice convergenza tra contingenze tecniche e valori estetici (“Così, quando Wyler mi dichiarò di aver fatto uscire di campo Marshall col solo scopo di sostituirlo con una controfigura, pensavo tra me e me che i difetti del marmo non servono che ai buoni scultori”, p. 119).

Ciò che non smette di colpirci dopo oltre mezzo secolo – gli articoli che compongono Il cinema della crudeltà datano tra il 1945 e il 1958, anno della morte di Bazin – è innanzi tutto la stupefacente qualità della scrittura del suo autore. Non un critico ma uno “scrittore” di cinema, così lo definisce Truffaut nel testo con cui nel 1975 licenzia quest’antologia (la cui precedente pubblicazione italiana, per Il formichiere di Milano, risale al 1979). L’acume interpretativo, qui, non è mai realmente distinguibile dalla prosa che ne è animata. Il che ci riconduce a una questione – quella dello stile – che oggi più che mai pare indispensabile alla definizione di un gesto che possa dirsi critico.

Diciamo dunque che c’è un’idea, quella di crudeltà, e che quest’idea non è pensabile al di fuori delle configurazioni espressive (stilistiche) nelle quali di volta in volta si presenta incarnata (aggettivo inappropriato, dal momento che l’idea non è qui un principio trascendente, bensì un qualcosa di immediatamente investito nelle forme dell’espressione: “bisogna guardarsi dal credere che ciò che, convenzionalmente, è definito il ‘contenuto’ godesse, sia pure in astratto, di una esistenza indipendente dai mezzi espressivi che lo rendono vicino alla nostra sensibilità”, pp. 27-28). I differenti stili di mise en scène corrispondono appunto a tale potenza di istituire mondi espressivi che è propria dell’idea, ne costituiscono le realizzazioni singolari: sono gli universi cinematografici di Erich von Stroheim, Carl Theodor Dreyer, Preston Sturges, Luis Buñuel, Alfred Hitchcock, Akira Kurosawa che Bazin convoca come altrettanti momenti esemplari di una certa verità.

Talora l’idea può imporsi dall’esterno, come un’etichetta. È appunto Truffaut ad applicarla ad alcuni scritti trascelti dalla sterminata produzione giornalistica e saggistica del suo maestro, usciti in momenti diversi e in certi casi a notevole distanza di tempo l’uno dall’altro, ma che gli sembrano muoversi entro un orizzonte per certi versi comune. Ma questo carattere esteriore dell’idea non ne diminuisce necessariamente l’efficacia e il portato veritativo, che anzi, nel caso in questione, risultano proprio dal peculiare rapporto di risonanza ideale che si stabilisce tra i diversi nomi propri tirati in ballo – tra i mondi che essi appunto nominano –, determinando così, al di là delle contingenze editoriali, una effettiva unità interna all’opera. Le cinéma de la cruauté può considerarsi a pieno titolo come un libro di André Bazin, al pari degli studi monografici consacrati a Chaplin, Welles e Renoir, se non di un’opera come Qu’est-ce que le cinéma?, che tuttavia differisce più per il portato teorico rivoluzionario delle sue analisi che non per il loro tenore metodologico (poiché centrale, anche in essa, è il concetto di stile, seppur considerato attraverso la lente problematica dell’ontologia). E in questo senso il profilo di un autore, un’idea, una costellazione teorica – pur restando cose radicalmente diverse fra loro – possono disporsi su di un piano comune, possono comunicare.

Non è un caso, forse, che due tra i più grandi cineasti della crudeltà – Stroheim e Buñuel – siano anche, come ci ricorda Deleuze, i due maggiori esponenti del naturalismo cinematografico. È qui, infatti, che la temporalità assume una configurazione particolare, quella di una linea di massima pendenza che segna lo scivolamento su di una dimensione originaria in cui ogni cosa giunge a disfarsi e imputridire. Quella stessa inclinazione che Bazin riconosce nel piano hitchcockiano, come ciò che ne articola la durata, orientandola in termini di attesa e minaccia, diviene qui una legge spietata del tempo e racconta una storia di degradazione, “tutta la crudeltà di Crono” (Deleuze 2002, p. 149). La pulsione presta all’immagine la sua oscura necessità. È un altro tipo di messa in scena, un’altra metafisica.

Ma l’idea di crudeltà trova cittadinanza entro coordinate anche del tutto differenti da quelle, in certo modo astoriche, del naturalismo. È il caso della commedia americana e specialmente di Preston Sturges, che di questo genere rappresenta la fase matura e disincantata (segnata dalla conversione dello humour in ironia, dice Bazin). Negli anni trenta la commedia poteva ancora fornire un racconto capace di alimentare le illusioni della nazione americana, il suo ottimismo sociale e morale. Era il tempo in cui Fredric March e Myrna Loy facevano ridere milioni di spettatori con le loro schermaglie amorose, e James Stewart (Mister Smith va a Washington, 1939, di Frank Capra) nutriva un mito collettivo e individuale. “Ma su tutto è passata la guerra. Da don Giovanni da commedia, Fredric March invecchiato, col volto segnato, è mutato in un personaggio drammatico. La commedia americana è invecchiata, come i suoi interpreti, assieme alla storia” (Bazin 2017, p. 46). Nel sistema della crudeltà costruito da Bazin compare inevitabilmente questa cesura che in vario modo attraversa tutti questi profili autoriali. Ma è col rinnovamento profondo della commedia americana che, nella forma più dirompente, il cinema manda in frantumi lo specchio dell’illusione e smaschera i miti che fino a poco prima aveva contribuito a tenere in piedi, mettendo in luce la fragilità di un corpo sociale e politico e dell’ordine simbolico che lo sostiene: in Evviva il nostro eroe (Sturges, 1944), “privato del suo alibi, il comportamento della società e degli individui appare nella sua oscena nudità di rituale che non si conosce, nel suo formalismo di liturgia senza Dio” (p. 52).

All’interno di questo quadro, un posto speciale – sebbene non un posto d’onore – spetta ad Alfred Hitchcock, la cui presenza è ingombrante innanzi tutto sul piano quantitativo (è la sezione più cospicua, oltre un terzo del libro). Com’è noto, il padre dei “Cahiers du cinéma”, la rivista che pochi anni più tardi avrebbe elevato Hitchcock al rango dei grandi inventori di forme, non amava particolarmente l’opera del maestro britannico. Gli riconosceva al più la straordinaria abilità del mestiere; non un’autentica vena poetica. Lo accusava, in sostanza, di essere arrivato a Hollywood come specialista di un solido poliziesco d’atmosfera e psicologico e di essersi trasformato successivamente in un virtuoso della cinepresa, uno che si è messo a fare le acrobazie, permettendosi perfino di rinunciare al montaggio (in Nodo alla gola, 1948). Il plan nel quale Bazin individuava la soluzione più persuasiva per rimanere fedeli all’essenza del cinema – alla sua vocazione realista – non aveva certo le fattezze dei vertiginosi movimenti della camera hitchcockiana, semmai quelle più austere (nella fissità) che mostrava in Wyler o nei grandi chiaroscuri wellesiani. La perpetua successione delle reinquadrature nelle quali si distribuisce ed articola il piano-sequenza di Hitchcock (che a Deleuze ricorderà la tecnica dell’arazzo) non è, per Bazin, che una triviale e sensazionalistica, seppur camuffata, riproposizione del linguaggio più frusto che appunto a Hollywood aveva trovato la propria codificazione nelle leggi del découpage analitico, così come Griffith le aveva forgiate, ma senza una uguale grandezza di ispirazione.

Poiché questo è ciò che Bazin rimprovera sostanzialmente al cineasta inglese: l’essere “tradizionale”, “convenzionale”, insomma, al fondo, malgrado l’estrema raffinatezza tecnica, incapace di contribuire seriamente all’avanzamento del cinema in quanto forma espressiva, all’evoluzione del suo linguaggio. Molti dei pezzi dedicati a Hitchcock esprimono un giudizio severo, talora ingeneroso e pieno di astio (che probabilmente tradisce la coscienza di un confronto critico che non riesce ad articolarsi in modo compiuto). Questa sequenza di articoli è straordinariamente significativa appunto nella misura in cui lascia emergere, nel tempo, il diagramma di un’elaborazione critica, certamente difficoltosa e colma di resistenze, ma anche, nella sua mutevolezza e nelle sue oscillazioni, sensibile alle sollecitazioni provenienti da un’opera di cui sembra indovinare a tratti l’originalità profonda – mostrando anche una potente intuizione quando afferma che “con Hitchcock il cinema cominciava ad assaporare le gioie della concordanza dei tempi e l’imperfetto del congiuntivo” (p. 104; è il salto decisivo che si può registrare rispetto al modello griffithiano, nel momento in cui la rappresentazione smette di essere soltanto un mondo dispiegato davanti agli occhi dello spettatore, per diventare un sistema nel quale egli si trova incluso). E tutto culmina nella pagina meravigliosa in cui Bazin analizza (sulla scorta di una dichiarazione del regista) la sequenza dei fuochi d’artificio di Caccia al ladro (1955), e in cui finalmente le resistenze vengono meno, lasciando spazio, provvisoriamente, a un incontro felice.

Deleuze svilupperà molte di queste intuizioni. Sarà lui in particolare (ne L’immagine-tempo) a ricollocare le riflessioni di Bazin sulla linea artaudiana della crudeltà; e lo farà, significativamente, situando questo rapporto nell’alveo della discussione intorno a un problema linguistico classicamente baziniano, quello relativo alla profondità di campo e al piano-sequenza. Decisivo è il riferimento alla nozione di necessità, che al cinema si presenta come un dato costitutivo, inscritto nello stesso automatismo materiale delle immagini. Deleuze vede nella profondità di campo di Welles una possibile via d’accesso stilistica a questa necessità intrinseca all’immagine cinematografica; Bazin parla di necessità a proposito di Stroheim e della sua rinuncia all’ellissi narrativa. Si tratta, in entrambi i casi, di conservare l’integrità e la densità inarticolata di un campo percettivo, nello spazio o nel tempo. In qualche modo, l’esigenza è ora quella di far vedere tutto (Deleuze lo chiama “l’intollerabile”). Ed ecco che ci appare come un dato decisivo del cinema della crudeltà ciò che il critico rileva al cuore proprio dell’opera di Stroheim, che ne è il fondatore: la centralità di un puro mostrare, di cui il cinema sarebbe tornato a farsi carico dopo avere scoperto e lungamente appreso – con Griffith – che era in suo potere di dire e di raccontare delle cose, oltre che di farle vedere (d’altra parte, il cinema è un linguaggio…). È un trionfo dell’evidenza, quello che ha luogo in un film come Rapacità (1924), una vera e propria “rivoluzione del concreto” (p. 29).

In questa nuova pornografia che Stroheim inaugura, va riconosciuta la vera proprietà che questi sei cineasti condividono. Ma in questo modo  Bazin sembra anche riannodare il proprio discorso alla celebre dicotomia da lui stesso formulata in quegli anni a proposito dell’evoluzione del linguaggio cinematografico, con la quale distingueva una classe di registi “che credono nell’immagine” da un’altra classe, composta da quelli che “credono nella realtà” (Bazin 1999, p. 75). Inutile dire a quale di questi due gruppi il critico francese accordasse la propria preferenza, e da che parte stia la crudeltà. Traspare così, in maniera ben più significativa di qualunque ascendenza sadiana o artaudiana, il nesso tra quest’idea e quel realismo ontologico che per Bazin costituisce un assunto teorico fondamentale (e quasi un’ideologia della visione).

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 1999.
Id., Il cinema della crudeltà, Medusa, Roma 2017.
G. Deleuze, L’immagine-tempo. Cinema 2, Ubulibri, Milano 2001.

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