È un avvenimento importante la pubblicazione in volume, presso Gallimard, per la cura di Bernard Bastide, degli articoli di François Truffaut apparsi su “Arts-Spectacles”. Aperto da un’ampia introduzione del curatore, il libro costituisce una ricca (524 pp.) e assai preziosa antologia del Truffaut di “Arts”. Dal suo arrivo nella rivista, nel febbraio 1954 e lungo il corso di cinque anni, pubblica sul settimanale più di cinquecento testi, di natura, conformazione e ampiezza differenti: come indicato dal curatore, prendono posto in questa antologia tutti i pamphlets truffautiani pubblicati sul settimanale, un’ampia parte delle recensioni – con l’eccezione, precisa Bastide, soprattutto di quelle consacrate a film minori o oggi privi di visibilità –, i testi firmati con gli pseudonimi Robert Lachenay (l’amico di infanzia che Truffaut aveva portato ai “Cahiers du cinéma”) e Louis Chabert, e alcuni articoli non firmati, i primi pubblicati sul periodico; ne restano invece esclusi i reportages sui film in lavorazione, le notizie bio-filmografiche sui registi, le note di lettura e – purtroppo, davvero (ma la scelta si deve senz’altro alla necessità di scongiurare una paginazione complessiva altrimenti assai difficoltosa in termini editoriali) – tutte le conversazioni.
In totale l’antologia raccoglie 178 testi del Truffatut critico di “Arts”, che è un numero significativo per osservare in modo ordinato, progressivo, in profondità e nella sua singolare specificità (cosa non possibile, ad esempio, attraverso la lettura de Les films de ma vie, per la cui pubblicazione, nel ’75, Truffaut aveva ripreso, e in parte rielaborato, diversi di questi testi), l’esperienza, fondamentale nel cammino verso l’affermazione della Nouvelle Vague, del giovane critico sulle pagine dell’allora assai letto settimanale culturale. E allora questi articoli raccolti in volume esibiscono presto i tratti individuanti di un pezzo importante di storia del cinema, di storia della cultura, non solo cinematografica, francese, del cinema moderno e di una molto determinata postura critica e applicativa che ne accompagna lo sviluppo, della pratica critica – furiosa, incendiaria, deliberatamente provocatoria – di uno dei maggiori cineasti del secolo scorso, ma soprattutto del grande, ostinato combat che i giovani critici dei “Cahiers” conducono sulla rivista di Bazin ma anche, appunto, dalla metà dei ’50, sulle colonne di “Arts”, su cui pubblicano un’enorme quantità di contributi (che in quanto insieme plurivoco conchiuso, in quanto corpus vasto e plurale, sono stati nel complesso poco esplorati, soprattutto come oggetto di studi dedicati: un lavoro prezioso e importante in questa direzione è Grosoli/Joubert-Laurencin 2014).
Ecco allora, di quel combat, in questi articoli truffautiani, le direttrici portanti, in attacco e in difesa. In attacco: l’intento di demolire la cosiddetta tradizione della qualità, cui Truffaut, ventiduenne, aveva portato il più potente assalto nel celebre Une certaine tendance du cinéma français, apparso nel gennaio ’54 sul numero 31 dei “Cahiers”, dopo lunga gestazione e richieste di riscrittura da parte di Bazin. Chiamato subito dopo la pubblicazione dell’articolo a scrivere su “Arts” – rivista di punta della destra hussarde, diretta da Jacques Laurent –, Truffaut, che può così garantirsi un sostentamento economico, vi trova la sede ideale per ampliare il suo uditorio (“Arts” è un settimanale culturale grand public, non una rivista specializzata) e sferrare su più fronti il suo attacco, seguito gradualmente da molti dei suoi colleghi dei “Cahiers” (Rivette, Rohmer, Godard, de Givray, Domarchi, Douchet, ecc.), che porterà a scrivere sul settimanale.
In mezzo a cronache di festival, resoconti, bilanci, recensioni di film in cui Truffaut scaglia i suoi strali contro il cinema francese allora più prestigioso e più influente, risaltano in particolare due grandi polemiche, condotte sulle pagine del settimanale (a colpi di confronti pubblici, lettere di protesta dei diretti interessati, clamorose controrepliche del giovane critico), con i due principali registi della qualità francese, Jean Delannoy (alla fine del 1955) e Claude Autant-Lara (in un confronto più articolato e complesso, che prevede fasi e atteggiamenti diversi, ha il suo culmine nella primavera/estate del 1957, si conclude, per Truffaut, che sa di aver vinto e sente ormai da più parti il nuovo che arriva, nel 1958).
«Queste polemiche oggi dimenticate hanno segnato il loro tempo e hanno un posto importante nella storia del cinema francese perché è attraverso di esse che Truffaut ha simbolicamente trionfato, con la scrittura e con l’astuzia, portando prepotentemente all’attenzione della stampa culturale una battaglia fin lì confinata alle riviste specializzate. Per una delle prime e rare volte, un critico costringe il cinema a dialogare alla pari con lui sotto i riflettori della scena intellettuale francese» (de Baecque 2003).
Ma il confronto, violento, diretto, meditato in ogni sua parte, è, più in generale, con l’intero universo cinematografico francese contemporaneo (festival, industria, professioni, sindacati, ecc.), critica compresa. Un testo, noto ma sempre impressionante, Les sept péchés capitaux de la critique (il lettore italiano può leggerlo anche ne Il piacere degli occhi), del 1955, spicca in modo particolare: facendo, come è suo costume, nomi e cognomi, anche molto illustri (Sadoul, Charensol, ecc.), Truffaut vi definisce la critica del suo tempo inconsistente, approssimativa, soprattutto ignorante (di storia del cinema, di tecnica cinematografica), segnalandone con puntiglio di censore errori e mancanze. Poco più tardi, dopo l’ennesima stoccata alla categoria, il presidente dell’Association française de la critique de cinéma et de télévision chiede a Truffaut, che ne fa parte, le sue dimissioni.
L’attacco, certo, ma anche, evidentemente, la difesa, e cioè, nel corso del suo farsi, quindi nella sua esplicita e compiuta formulazione, che proprio si deve a Truffaut, la politique des auteurs. E allora, ecco le pagine truffautiane di “Arts” sui cineasti prediletti, beneamati, oggetto dell’amore erudito: l’Olimpo in cui coabitano Renoir (in particolare, naturalmente, ma non solo, quello dei ’50, de La carrozza d’oro, di French Cancan, ecc.), Rossellini (Viaggio in Italia, il film-faro dei jeunes turcs, somiglia, dice Truffaut nel ‘55, «a ciò che si girerà tra dieci anni»), Hitchcock (sul quale, solo su “Arts”, egli pubblica, precisa Bastide, una dozzina di testi di fattura e estensione diverse), Hawks («il più sottovalutato dei cineasti hollywoodiani», la cui opera è invece quella di un «moralista severo»); poi, oltre a Renoir, ecco i pochi cineasti amati attivi in Francia, Bresson, Cocteau, Becker – che era stato «l’occasione, con [il suo] Alì Babà, per creare la formula tanto celebre» della politique, sui “Cahiers” (de Baecque 1993) –, Tati, Gance, Guitry (sempre ostinatamente difeso da Truffaut) e Ophuls, in particolare con l’intensa battaglia su Lola Montès. Uno spazio assai grande, a parte il duo Hitchcock-Hawks, è senz’altro, nel Truffaut di “Arts”, quello occupato dagli hollywoodiani: Lang, naturalmente, e Welles e Preminger, ma anche altri autori che in breve diventano emblemi della critica dei turcs, Aldrich («non sono il solo a considerare Robert Aldrich come uno dei tre o quattro più importanti cineasti americani del momento»), Nicholas Ray, Anthony Mann, Samuel Fuller, ecc.
Ci sono poi gli incontri (prima mancati, poi riconosciuti come folgoranti: Bergman, cui Truffaut consacra su “Arts” un intenso ritratto), gli accecamenti, evidentemente motivati dalla battaglia (non tutto il cinema di qualità, lo sappiamo da tempo, era da buttare), ma anche, in senso proprio, le incomprensioni, come quella, vistosa, relativa a Ford, che il giovane Truffaut considera, lo sottolinea Bastide, un cineasta antiquato, sopravvalutato, sostanzialmente noioso. La sua stroncatura, nel ’56, di Sentieri selvaggi fa davvero impressione. Inoltre, ecco profilarsi in questi testi i segni del cinema di domani, da farsi a tutti i costi e già imminente, il cinema di giovani realizzatori: il resoconto della seconda edizione del Festival del cortometraggio di Tours, nel ’56, che premiava Dimanche à Pékin di Marker, elogia in particolare il Resnais di Toute la mémoire du monde, il Demy di Le sabotier du Val de Loire, e… il Rivette di Le coup du berger (in cui, come noto, era coinvolta mezza redazione dei “Cahiers”); un articolo sul film “fuorilegge” di Varda, La pointe courte, ne segnala, tra pregi e difetti, la decisa singolarità; le pagine, controcorrente, sul primo Vadim e, soprattutto, sulla figura autenticamente nuova, tutta inscritta nel proprio tempo, di Bardot; le note su Les amants, in cui, dice Truffaut, Malle filma la prima notte d’amore al cinema, o ancora l’elenco ragionato – siamo ormai nel ’58, Truffaut ha già fatto Les mistons… –, dei nomi nuovi del cinema francese, ecc.
Infine, e per concludere, è proprio sulle colonne di “Arts” che Truffaut pubblica uno dei suoi articoli più ispirati, più tesi e più noti, sorta di compiuta sintesi della sua intera pratica critica, Le cinéma français crève sous les fausses légendes, del ’57 (anch’esso poi confluito ne Le plaisir des yeux), che è un testo perfettamente sospeso tra furore e passione – farà gran rumore, ancora – e che, inquadrando con trasporto una svolta a venire, annuncia di fatto un altro tempo del cinema e pare raccogliersi, e quasi disciogliersi, nella sua celebre chiusa: «Il film di domani sarà un atto d’amore».
Riferimenti bibliografici
A. de Baecque, Assalto al cinema, Il Saggiatore, Milano 1993.
Id., La cinéphilie. Invention d’un regard, histoire d’une culture, Fayard, Paris 2003.
Id., S. Toubiana, François Truffaut, Gallimard, Paris 2001.
G. De Vincenti, Il cinema e i film. I “Cahiers du cinéma” 1951-1969, Marsilio, Venezia 1980.
M. Grosoli, H. Joubert-Laurencin (eds), The Cahiers Film Critics in Arts Magazine, special issue of “Film Criticism”, vol. XXXIX, 1, 2014, pp. 1-99.
F. Truffaut, Chroniques d’Arts-Spectacles 1954-1958, textes réunis et présentés par B. Bastide, Gallimard, Paris 2019.