Subito dopo il Boris Godunov, Modest Musorgskij si dedicò a un lavoro intenso e forsennato di ricerca su svariate fonti per comporre la seconda sua opera sulla storia russa, pensata come parte di una trilogia che non porterà mai a compimento. Sfibrato dall’alcol e dalle crisi nervose, non porterà nemmeno a compimento Chovanščina, che sarà orchestrata dopo la sua morte prima dall’amico Rimsky-Korsakov, e poi, in maniera oggi ritenuta più aderente al progetto originario, da Šostakovič.
A differenza della sua prima opera, questa seconda non deriva dunque da una fonte letteraria, cosa assai rara nella storia del melodramma: dai documenti storici Musorgskij trasse a poco a poco (non aveva problemi di scadenze, data la sua nascita nobile) un libretto visionario e folgorante, assolutamente unico nella sua potente fisionomia espressiva. Vi si trovano mescolati eventi appartenenti a fasi storiche diverse: il racconto non è mai lineare, ma si coagula attorno ad alcuni quadri di grande pregnanza.
Siamo oltre quella drammaturgia en tableaux, di cui parla la semiologia teatrale (Anne Ubersfeld), basata su salti temporali e discontinuità, molto amata dai romantici e utilizzata nell’opera da Puccini in Manon Lescaut; siamo a una «drammaturgia futurista», come scrive Elisabetta Fava nel programma di sala, o alle «immagini di un quadro cubista» evocate da Mario Martone. Siamo soprattutto di fronte a un’opera profondamente corale, non solo nel senso immediato del termine, che si riferisce al ruolo primario del coro, ma anche nel senso più ampio che si usa anche per alcuni grandi romanzi del Novecento (Joyce, Dos Passos), in cui la funzione protagonista è annullata o distribuita fra diverse voci alla pari. I personaggi di Chovanščina, pur conservando una loro autonomia e bellezza (soprattutto Marfa, figura di veggente dostoevskiana e verdiana), sono alla fine tutti fagocitati nel flusso caotico di una storia che non sembra avere senso, direzione, finalità.
Ma forse la caratteristica che colpisce di più in quest’opera perturbante è la decostruzione radicale dell’opposizione fra buoni e cattivi. Chovanščina raffigura i terribili conflitti che caratterizzarono il periodo della presa del potere di Pietro il Grande, notoriamente la figura fondativa per eccellenza della Russia moderna; nella prima fase, la guardia speciale di tiratori scelti (gli strel’cy) prima sostiene la reggente Sofia (Pietro aveva dieci anni al momento in cui era stato designato alla successione dello zar Aleksej, assieme al fratellastro Ivan), poi tenta un colpo di stato, per sostenere la chiesa tradizionale ortodossa (rappresentata dal gruppo dei “vecchi credenti”, i raskol’niki), da cui si staccava la reggente, che seguiva in questo il principe Golicyn, filooccidentale e progressista.
I due aristocratici a capo di questo colpo di stato, Ivan Chovanskij e suo figlio Andrej (da cui il titolo, un neutro che significa “roba da Chovanskij”), sono due figure negative: dispotico e violento il primo, debole e perversamente feroce il secondo; ma anche il principe progressista ha i suoi lati oscuri: è terribilmente superstizioso, e dà ordine di strangolare Marfa, per sventare la profezia negativa che ha appena ricevuto da lei. Il patriarca Dosifej, figura autorevole che guida i vecchi credenti, a cui la musica dà forte espressività, si rivela però alla fine fanatico e integralista, spingendo Marfa al suicidio sul rogo.
Ma il rovesciamento avviene anche in direzione opposta: il boiaro Šaklovityi, figura negativa per eccellenza di delatore roso dall’ambizione e dalla sete di potere, canta al centro dell’opera un lamento solenne e sublime sui mali della Russia; Musorgskij stesso commenta che ci può essere «un che di grandezza in una natura assetata di sangue», condensando così il meccanismo dell’empatia negativa.
Affidare a Mario Martone la regia di questo capolavoro così arduo è stata, da parte del Teatro alla Scala, una scelta molto felice, soprattutto se si tiene conto del lavoro complessivo – fra cinema, opera e teatro – che il regista ha svolto negli ultimi anni sull’Ottocento e su alcuni grandi temi storici (la rivoluzione francese, il Risorgimento, l’utopia): un lavoro che spesso si è concretizzato in opere profondamente corali: basti pensare al film Noi credevamo (2010), alle Operette Morali (2011) di Leopardi, allo spettacolo inaugurale della Scala del 2017, Andrea Chenier di Umberto Giordano, e soprattutto alla Morte di Danton (2016) di Georg Büchner, un’altra opera estrema di un genio visionario che anticipa l’espressionismo novecentesco. Il flusso corale visualizza in tutti questi casi il flusso caotico della Storia, non governato da un fine e da una logica, ma solo dal caso.
La libertà compositiva della Chovanščina e la sua visione nichilista hanno spinto Martone alla scelta di un immaginario apocalittico: nel primo atto la piazza Rossa a Mosca è uno spazio grigio e desolato, con in primo piano un ponte rotto, una rovina industriale che può ricordare le installazioni di Anselm Kiefer, mentre lo sfondo spettrale e cinematografico, ricco di palazzi scuri, richiama alla mente le distopie filmiche, a partire da Blade Runner in poi (le scene sono di Margherita Palli). Rovine, grate, bunker sono motivi ricorrenti negli altri atti: anche nelle ambientazioni private non legate alla violenza della storia e quindi meno cupe, come il padiglione estivo del principe Golicyn nel secondo atto o la sala da pranzo del principe Chovanskij nel quarto atto, dominano sempre le rovine, la militarizzazione, e una luce grigia e nebbiosa, che assume un valore simbolico (Un futuro avvolto nella nebbia si intitola il saggio di Martone per il programma di sala; le luci sono di Pasquale Mari).
Questa lettura apocalittica culmina nell’ultimo, bellissimo atto (completato da Igor Stravinskij), che rappresenta il suicidio collettivo dei raskol’niki, a cui partecipano anche Marfa e il suo amato, il principe Andrej Chovanskij: la loro morte insieme potrebbe richiamare il finale della Norma, se non fosse, come sempre, pienamente assorbita nella dinamica corale. La didascalia prevede abiti bianchi, mentre qui i costumi (firmati da Ursula Patzak) conservano fino alla fine il loro colore scuro e militaresco. La scena è dominata da un enorme pianeta (un’idea di Ippolita di Majo), che produce un effetto di sublime cosmico (può ricordare per certi versi il finale di un film apocalittico e wagneriano: Melancholia di Lars von Trier), e che diventa a poco a poco un fuoco distruttivo. Un finale potente, poco catartico direi, che lascia lo spettatore scosso e rapito da un’esperienza non comune.
Notevole il lavoro sui personaggi, perfettamente riuscito grazie a un cast eccezionale non solo dal punto di vista vocale (da ricordare almeno Mikhail Petrenko nella parte di Ivan Chovanskij, ed Ekaterina Semenchuk in quella di Marfa) e spesso affidato a dettagli geniali: il legame fra Golicyn e la zarina Sofia (non presente nell’opera per motivi di censura, e qui invece personaggio muto) viene visualizzato da un ballo e un brindisi; l’esuberanza selvaggia del principe Ivan Chovanskij si concretizza prima nella caccia di uccelli sparando dal terrazzo, e poi da un gioco sadomaso con le sue schiave persiane, in cui si rovesciano i rapporti di potere (lui gioca il ruolo di sottomesso). Infine va ricordata la sinergia eccezionale fra la regia di Martone e la direzione d’orchestra di Valery Gergiev, specialista di questo repertorio (ma anche di Verdi), che ha reso magistralmente la complessità impressionante della partitura. Una sinergia che sarebbe bello rivedere presto, magari in qualche altro affresco storico (il Don Carlo di Verdi?).
Riferimenti bibliografici
E. Fava, Pessimismo storico e drammaturgia visionaria nella “Chovanščina”, in Chovanščina, Teatro alla Scala, Milano 2019.
M. Martone, Un futuro avvolto nella nebbia, in Chovanščina, Teatro alla Scala, Milano 2019.
M.P. Musorgskij, Lettera del 23 luglio 1873 a Stasov, in E. Fava, Pessimismo storico e drammaturgia visionaria nella “Chovanščina”, cit.
A. Ubersfeld, Lire le théâtre I, Belin, Paris 1996.
*Le immagini presenti nell’articolo e in copertina sono foto di scena di Marco Brescia e Rudy Amisano. Fonte: Teatro alla Scala.