Paul Cézanne, La Montagne Sainte-Victoire.

L’arte moderna è l’anello di congiunzione tra la pittura e la fotografia, tra la rappresentazione e l’impronta, tra la lentezza della mano e la velocità dell’automa. Per questo amiamo ancora l’Ottocento, come Benjamin e tutti i “figli di Nadar” (l’espressione è di Pierre Sorlin). Per questo Wim Wenders dedica al Cézanne dell’acquerello La Montagne Sainte-Victoire (1900) una poesia che apre il catalogo della mostra Les archives du rêve (Musée d’Orsay, Parigi 2014).

In questo saggio poetico – genere paradossale ma non tanto, per un regista fotografo intellettuale – Wenders si chiede come fa questo piccolo capolavoro ad essere “emozionale e analitico nello stesso tempo”, a presentare rispettosamente un oggetto amato (l’aura della montagna…) e contemporaneamente a rivelare “il riflesso delle condizioni del vedere la montagna”. Cento anni dopo Cézanne, però, “chiunque è in grado di scomporre ciò che vede / fin nei suoi atomi, per così dire (o pixel, se volete), / e poi di ricomporlo”. Dunque, ciò che davvero sconvolge nella visione dell’opera è la distanza storica fra la nostra pratica quotidiana (la fotografia digitale, tanto più banale quanto più tecnologicamente avanzata, come ci ha spiegato Flusser) e l’hic et nunc in cui tutto ciò ebbe inizio. Il veloce Cézanne che non ha affatto riflettuto ma dipinto e basta (“con un paio di tratti a matita”) è il testimone di quello shock che Benjamin ancora percepiva e a cui noi siamo definitivamente assuefatti. Difficile figurarsi l’intreccio che oppone e collega Manet, Nadar e Baudelaire: la pittura impressionista nasce quando i fotografi impressionano le pellicole… Molto dopo, quando ormai il cinema è l’occhio del Novecento, alcuni pittori (americani) tornano al figurativo come narrazione, al quadro come inquadratura o fotogramma: nello sguardo di Andrew Wyeth (mai primo sguardo, semmai terzo) c’è “una freschezza / che si ritrova solo nelle fotografie”, eppure, questo realismo è ottenuto con mezzi ben lontani dalla istantaneità, per cui Wenders può dire del suo amato Edward Hopper che “lui dipinge contro la fotografia” pur producendo “fotogrammi del sogno americano”.

Il paradosso della poesia saggistica è quello di un genere che vuole essere emozionale e analitico nello stesso tempo, ma anche quello di una scrittura che vuole essere riflessiva essendo comunque veloce: l’oscillazione di Wenders, e la sua soluzione stilistica, ripetono un andamento che conosciamo dai tempi di Cézanne e Manet e soprattutto di Duchamp, amicissimo di Man Ray come Manet e Baudelaire lo erano di Nadar. Man Ray è un pittore che si ricicla come fotografo sperimentando le specificità del dispositivo (in primis la luce, come teorizzato da Moholy-Nagy, con cui condivide l’invenzione o scoperta delle immagini off-camera). Marcel Duchamp è un artista pigro che, ragionando sull’inutilità della pittura “retinica” nell’epoca delle icone achiropite (se la fotografia è un’istantanea, il quadro non può che essere definito “un ritardo”), procede lungo le due direttrici indicate dalla rivoluzione tecnologica: l’irruzione del reale (non del realismo) nell’opera artistica; la velocità d’esecuzione ridotta allo zero (allo “snapshot” della macchina fotografica). Lo storico dell’arte Elio Grazioli, riprendendo intuizioni di Rosalind Krauss, ripercorre i risultati all’insegna delle “strategie dell’infrasottile” (categoria sfuggente quanto la forma poetica wendersiana).

Il “grande vetro” di Duchamp (titolo ufficiale La Sposa messa a nudo dai suoi celibi, anche, 1915/23) è la classica opera modernista per cui vale l’assioma che il medium è il messaggio: il supporto trasparente, questo “ritardo di vetro” che è anche “riposo istantaneo” (la terminologia duchampiana è criptica ma non indecifrabile), presume non il consueto quadro da parete bensì una superficie da inserire nell’ambiente come un effetto speciale cinematografico. Proprio come il glass shot in uso in quegli anni ad Hollywood, il Grande Vetro lascia irrompere la realtà nell’opera (come i rumori nella musica di John Cage, che a Duchamp ha dedicato un brano) o, il che è lo stesso, posiziona segni fissi in ambienti variabili (con un effetto “infrasottile” di ibridismo fra testo e contesto, senza peraltro essere un’opera site specific).

Quanto ai ready made, è abbastanza evidente che prendere un oggetto industriale (ruota di bicicletta, orinatoio, scolabottiglie o quant’altro) per rilocarlo come opera d’arte scultorea è esattamente come scattare una fotografia (to take a picture, prelevare un’immagine dall’universo bergsoniano) per ottenere un quadro che non è più faticoso “ritardo” ma comodissima “istantanea”. Se il Grande Vetro è ciò che può fare l’arte per introiettare il mondo come fa l’obiettivo della macchina fotografica (che ai tempi di Duchamp ancora utilizzava lastre di vetro per il negativo), il ready made è ciò che può fare l’arte per azzerare i tempi d’esecuzione fino alla dimensione puntuale dello “scatto”. E anche se questa fuoriuscita concettuale dalla fattività autoriale è sempre stata vista come gesto provocatorio e nichilista, Elio Grazioli ci tiene a “rivendicare poeticità alla strategia artistica di Duchamp, per quanto essa appaia allontanarsi verso il punto più distante di quello che intendiamo tradizionalmente per poesia”.

Ma, giustappunto, anche la poesia è passata attraverso le forche caudine della modernità e delle sue tecnologie di produzione industriale, standardizzazione, automazione – dai cadaveri squisiti delle avanguardie storiche alle combinatorie computerizzate di Balestrini. Se l’equazione tra ready made e fotografia è già in Rosalind Krauss, l’equazione tra poesia e fotografia è già in Roland Barthes, per il quale l’istantanea è come uno haiku giapponese votato a un “terzo senso” insviluppabile. Anche le poesie di Wenders, allora, sono i pensieri di un fotografo. E la passante di Baudelaire è un capolavoro di street photography.

Riferimenti bibliografici
E. Grazioli, Duchamp oltre la fotografia, Johan & Levi, Monza 2017.
W. Wenders, I pixel di Cézanne, Contrasto, Roma 2017.

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