Il continente africano è la terra nella quale affondano le radici – non solo musicali, ma anche culturali e ideologiche – alcuni tra i generi musicali extracolti più ascoltati (reggae, hip-hop, ecc.). Tra questi, naturalmente, figura anche il jazz, che nasce dalla convergenza di culture africane ed europee nelle colonie nordamericane, in quell’oscuro e tragico processo che va dal XVI al XX secolo e che conosciamo come “tratta degli schiavi”. È proprio da qui che ha inizio la storia del jazz che formula Stefano Zenni, a partire da una «prospettiva globale» (Zenni 2012). Questo fenomeno, che ha coinvolto circa venti milioni di persone, ha prodotto una commistione culturale come forse mai prima di allora, tanto per caratteristiche specifiche quanto per modalità.
Restringendo il campo alla musica, negli Stati Uniti sbarcano strumenti come il banjo, ma anche pratiche musicali legate sia alla danza sia ai canti. Nelle sterminate piantagioni, la fatica e la tristezza trovano la loro declinazione nei field hollers, un vero e proprio richiamo, un lamento solitario, un «grido lungo, forte, musicale» (Southern 2007, p. 162). Il field holler si trasformerà poi nel più sacro spiritual, nelle colonie inglesi della Virginia, della Carolina e della Georgia. Diversamente da quel che accade lì, in Louisiana, più precisamente a New Orleans, i “creoli” fanno un’altra musica, più swingante, con influenze provenienti dalla cantillazione coranica e che alla trama poliritmica preferisce gli strumenti a corda portatili (Sublette 2008). New Orleans si trasforma in una città danzante, nella quale sensibilità africana, cubana e mediterranea si combinano insieme. Intanto, negli anni novanta dell’Ottocento, nella zona del Delta del Mississippi, tra la Georgia e il Texas orientale, nasce una lirica musicale di ambiente rurale per voce solista e strumento accompagnatore, il blues:
Frutto culturale della prima generazione di neri contadini nati dopo la schiavitù, i quali si trovarono ad affrontare nuovi problemi di indipendenza economica, adattamento sociale, organizzazione familiare ed espressione individuale. Il blues scaturì così dalle nuove sfide che i giovani neri nati liberi dovettero affrontare in una società sempre più ostile e violenta (ivi, p. 43).
In quegli stessi anni, un po’ più a nord, esattamente a Chicago, iniziano a riversarsi musicisti provenienti da New Orleans, soprattutto bianchi che vanno ad esibirsi nei cabaret. Siamo nei primi anni del Novecento, nel 1916, e nasce la ODJB. L’Original Dixieland Jass Band, che porta nel proprio nome il riferimento all’intero sud della Louisiana (Dixieland), non è la sola importante formazione che nasce in quel periodo, né la sua musica è l’unica forma di jazz in circolazione. Anzi. A San Francisco e Chicago il jazz indica la musica polifonica e swingante dei neri provenienti da New Orleans, mentre a New York indica la polifonia frenetica della ODJB. Stiamo parlando, quindi, di jazz nero e di jazz bianco. Siamo già nel bel mezzo di una lunga e complessa storia, che si arricchirà presto di figure leggendarie come Bix Beiderbecker, Duke Ellington, Charlie Parker, Dizzy Gillespie e molti altri. Alla stessa generazione di Beiderbecker ed Ellington, entrambi nati a cavallo tra Otto e Novecento, appartiene uno dei più grandi, una vera e propria icona, modello forse insuperato di equilibrio tra capacità strumentali e virtù canore, Louis Armstrong.
Louis Daniel Armstrong, detto “Satchmo” (combinazione delle parole “Satchel” e “Mouth”), è uno dei maggiori trombettisti della storia della musica e una delle figure in assoluto più rivoluzionarie e influenti della storia del jazz. Per quanto lui abbia sempre detto di essere nato all’alba del nuovo secolo (1900), Satchmo nasce esattamente centoventi anni fa, il 4 agosto 1901, ovviamente a New Orleans. Appena battezzato, il padre Willie, che lo aveva visto nascere quando aveva vent’anni, abbandona lui e sua madre Mary (o Mayann), che di anni ne aveva poco più di quindici. Immaginate un bambino nero, senza padre, con una madre ragazzina, all’inizio del Novecento a New Orleans. Il piccolo cresce in condizioni di estrema povertà, facendo, non appena l’età gliel’ha consentito, lavoretti qua e là, saltuari e, ovviamente, sottopagati. Cantando con altri tre ragazzi, Louis inizia ad avvicinarsi alla musica, presente a New Orleans almeno quanto l’aria che lì si respirava.
E proprio mentre è insieme al suo quartetto vocale, alla ricerca di un angolo dove fermarsi a cantare sulla South Rampart Street, il primo giorno del 1913, durante una parata organizzata per i festeggiamenti del Capodanno, Armstrong esplode sei colpi a salve, utilizzando una calibro 38 appartenente al patrigno. A quel punto, per come scrive James Lincoln Collier nel suo Louis Armstrong: An American Genius (1983), un grosso poliziotto bianco spunta fuori e lo arresta. Nell’arco di ventiquattr’ore viene processato, condannato e trasferito nella Colored Waif’s Home, un riformatorio alla periferia di New Orleans dove resterà più di un anno. Oltre alla sproporzione tra reato e condanna, quel fatto avrà un inevitabile impatto sulla vita e sulla personalità del giovanissimo Louis, ma non solo in senso negativo. Proprio mentre si trova in riformatorio, impara a suonare la “cornetta”, strumento molto simile alla tromba. Quell’incontro casuale diventerà poi una vera e propria passione che crescerà con il tempo, portandolo a migliorare progressivamente le proprie qualità strumentali, anche ascoltando i grandi trombettisti dell’epoca, come il mitico King Oliver. Proprio lui, nel 1922, lo farà chiamare per invitarlo a entrare nella sua Creole Jazz Band come secondo cornettista. Con questa band Satchmo inciderà i primi dischi. Siamo nel 1923.
La popolarità del giovane trombettista non tarderà ad arrivare. Il suo stile e i suoi assoli diventeranno da subito leggendari. Inevitabile, quindi, uscire dalla Jazz Band di Oliver e dall’orchestra di Fletcher Henderson, della quale ha fatto parte per poco tempo. Arriviamo così al battesimo della sua prima formazione: 1925, gli Hot Five (che diventeranno poi Hot Seven). Ormai la rivoluzione è a portata di mano. Come scrive ancora Collier, Armstrong colpirà le successive due generazioni di musicisti jazz con la forza di una mazza. Darà loro una nuova coscienza, lasciandoli talmente abbagliati e disorientati che, all’inizio, nemmeno avrebbero potuto comprendere la potenza del cambiamento in atto.
Tra i tanti elementi che hanno reso Armstrong un rivoluzionario ci sono sicuramente l’abilità tecnica, il suono ricco, l’attacco pulito, la rapidità con cui affrontava passaggi difficili. Proprio queste caratteristiche hanno contribuito a sviluppare quella tecnica moderna che poi i trombettisti successivi hanno fatto propria: «When Armstrong was coming into prominence, many technical skills today taken for granted were then unheard of» (Collier 1983, p. 345). C’era poi la sua capacità ineguagliata di portare lo swing a livelli altissimi, nonché la sua straordinaria creatività, che gli ha consentito di dare vita, sia improvvisando sia lavorandoci su, a linee melodiche geniali e bellissime.
Intanto, nel 1929, già molto famoso, Armstrong si trasferisce a New York, iniziando una vita fatta di tournée nel Vecchio e nel Nuovo Continente, portando in giro per il mondo la sua musica, per la quale spesso attinge non tanto al repertorio basato sul blues, ma alla tradizione della canzone popolare, in particolare quella riconducibile a Ellington o Berlin. Dal 1935 al 1971, anno della sua morte, la carriera (musicale, cinematografica e radiofonica) di Satchmo sarà nelle mani sapienti ed esperte di Joe Glaser, il quale metterà massimamente a frutto le specificità strumentali e vocali di Armstrong. A proposito di specificità vocali, appena lo si sente cantare brani di successo come Mack the Knife o Hello, Dolly! si è colpiti da quella voce così rauca e raspante, ma anche estremamente duttile e versatile. Un po’ per la conformazione del suo apparato, un po’ per il fumo pesante e un po’ per la leucoplachia, Armstrong ha sviluppato uno stile vocale originalissimo, rimasto unico e rispetto al quale qualsiasi forma di emulazione sarebbe risultata ridicola.
Attraverso la sua parabola esistenziale, dalla miseria di New Orleans alla fama universale, Satchmo, che si spegna a New York il 6 luglio 1971, ha lasciato un’immensa eredità musicale: la trasformazione stilistica della tromba, l’invenzione del solismo jazz, la radicale rivoluzione del canto. Ma dietro il consumato intrattenitore umoristico e geniale – che pure ha cambiato il corso della storia – c’è molto altro: ci sono l’attore di cinema, lo scrittore compulsivo, il cittadino sostenitore dei diritti civili, lo sperimentatore di tecnologie, il professionista accorto nel difficile mondo del jazz, il creativo che lavora sul linguaggio e sulle immagini (Zenni 2018).
Grande trombettista, leader, cantante, star del cinema, comico: Louis Armstrong, autentico «Master of Modernism» (Brothers 2014), è stato tutto questo. Le sue caratteristiche strumentali e vocali, oltre che il suo contagiosissimo umorismo, l’hanno presto reso una delle figure più popolari al mondo, ben al di là dei confini del mondo del jazz. Ciononostante, all’interno di quel mondo ha scritto a caratteri cubitali il proprio nome, dando al jazz una nuova direzione e contribuendo a fare ciò che, prima e dopo di lui, a molti non è riuscito: renderlo arte.
Riferimenti bibliografici
T. Brothers, Louis Armstrong: Master of Modernism, W.W. Norton & Company, New York-London 2014.
J.L. Collier, Louis Armstrong: An American Genius, Oxford University Press, New York 1983.
E. Southern, La musica dei neri americani. Dai canti degli schiavi ai Public Enemy, il Saggiatore, Milano 2007.
N. Sublette, The World that Made New Orleans. From Spanish Silver to Congo Square, Lawrence Hills Books, Chicago 2008.
S. Zenni, Louis Armstrong. Satchmo: oltre il mito del jazz, Stampa Alternativa, Viterbo 2018.
Id., Storia del jazz. Una prospettiva globale, Stampa Alternativa Nuovi Equilibri, Viterbo 2012.
Louis Armstrong, New Orleans 1901 – New York 1971.