La città deve essere liberata dall’assedio.
Occorre abbattere le mura, aprire una nuova
strada verso la liberazione
(Paolo Volponi)
Non sono molti gli scrittori del Novecento che hanno attraversato la letteratura legandola coraggiosamente alla storia del loro tempo, alle dinamiche sociali e del lavoro e soprattutto alla difesa e alla costruzione di una cultura nuova dopo il lungo periodo delle guerre mondiali e dei totalitarismi. Volponi ha vent’anni quando (lo sottolineerà a più riprese) vede “cambiare” il mondo. Non era solo un paese che cambiava, mutando pelle da monarchia a repubblica, ma un mondo, un’intera civiltà, qual era quella millenaria contadina, ormai al tramonto, che lasciava il posto a quella industriale, che imponeva una nuova concertazione delle risorse umane e intellettuali disponibili.
La scelta di Volponi, nella figura di Guido Corsalini del suo ultimo romanzo, è la “strada per Roma”, che fuor di metafora significa uscire dalla dolce, inquieta, problematica culla della provincia e affrontare il nuovo. La strada per Roma è l’ultimo romanzo in ordine di pubblicazione, non di scrittura, in grado pertanto di illuminare retrospettivamente l’opera intera. Il giovane Paolo, che nel 1947 si laurea in Giurisprudenza, ha anche un’altra carta da giocare, mentre scioglie il nodo del suo ruolo sociale, del suo “lavoro”, lasciando – per usare i versi dello stesso Volponi – «il caldo respiro / del sole sulle mura, / la tortura delle case, / lo stesso temporale / che ritorna da anni»: è appunto la carta della poesia.
Le mura di Urbino, cui appartengono i versi sopra citati, è una di quelle poesie che sopravvivono al loro tempo da qualunque angolazione ideologica o militante le si voglia leggere. Siamo all’indomani della fine dell’esperienza di “Officina”, fondamentale sia per la poesia di Volponi sia per la sua visione del mondo che trascende l’attività letteraria sussumendola in un orizzonte più ampio. Ad “Officina”, titolo nel quale risuona il motivo imprescindibile del lavoro, Volponi si avvicina e vi collabora negli stessi anni in cui ha la possibilità di lavorare per Adriano Olivetti, risiedendo stabilmente ad Ivrea. Sono anni di un’attesa stabilità e fiduciosa progettualità (i compiti dirigenziali, il matrimonio, la famiglia, la letteratura, senza dimenticare il tentativo di entrare in politica nelle file del Partito Repubblicano, nel 1958), improvvisamente interrotti però dalla morte di Olivetti nel 1960: un evento che assume oggi un valore simbolico di cesura epocale, dal momento che segna non solo un momento di ripensamento degli obiettivi strategici dell’impresa olivettiana, ma anche la ridefinizione degli equilibri nel mondo dell’industria, ormai saldamente innestata nella spina dorsale del paese. Tutto questo avviene parallelamente all’evolversi, nella letteratura, di un nuovo sperimentalismo, più aggressivamente programmatico e meno disponibile al confronto, e magari all’autocritica, con quello propugnato nelle pagine di “Officina” da Pasolini (un Pasolini, tuttavia, determinato a perfezionare la sua ricerca espressiva nel linguaggio di un cinema a sua modo sperimentale, un “cinema di poesia”).
La felice intuizione di Paolo Volponi è di tenersi fuori da questi delicati equilibri e dalle polemiche, e di aprire, per contro, nella sua opera nota attraverso raccolte di versi, una stagione nuova: quella del romanzo. Il romanzo d’esordio è Memoriale, nel 1962, incentrato sul tema del lavoro nella chiave privilegiata del mondo dell’industria e degli effetti collaterali che esso ha sul “capitale umano”. È un tema attuale. Fra il 1961 e il 1962, sui numeri 4 e 5 della rivista “Menabò” di Elio Vittorini e Italo Calvino, viene data grande attenzione al rapporto fra industria e letteratura. Senz’altro vi sono rapporti di reciproca e schietta stima tra Volponi e i due direttori di “Menabò”, ma vi è una disponibilità istintiva e generosa, nello scrittore urbinate, a considerare la letteratura non un mondo chiuso, autoreferenziale, bensì uno strumento di conoscenza della realtà, o meglio atto “politico”, ove per politico non sia da intendere tout court finalizzato a un disegno di partito, bensì nel senso di una visione che pone al centro di ogni discorso (quello letterario compreso) un’idea della polis che l’uomo sogna, costruisce e governa.
Il povero contadino fuggito da quell’Appennino ormai in stato di abbandono cantato da Volponi ne Le porte dell’Appennino, è ora il protagonista de La macchina mondiale, preoccupato di inventare un sistema che reinventi i rapporti fra gli uomini in un mondo che pare uscito (rubando un’immagine all’Amleto) fuori dai cardini; e non per diventarne un tiranno visionario, un folle alchimista, simile a quell’Auric Goldfinger che negli stessi anni sbancava il botteghino nel terzo film della saga di James Bond. Anteo Crocioni, il suo nome, è un uomo che viene dal passato con un suo sogno, si interroga sul destino dell’umanità, invano spera di rimettere in sesto la macchina del mondo ma nessuno lo prende in seria considerazione. Di là dallo scacco finale del romanzo, che esce nel 1965 e miete consensi e premi, importa il significato che l’autore assegna ormai alla “letteratura”. L’anno dopo La macchina mondiale, in una conferenza dal titolo Le difficoltà del romanzo tenuta a Milano per l’Associazione Culturale Italiana, Volponi avvisa il lettore:
Quando si prende in mano un romanzo, non si deve cercare un passatempo, una specie di lavoro a maglia o di pettegolezzo; ma occorre affrontare il romanzo con l’animo di studiare, con il desiderio di capire e di mettersi in relazione con quell’universo nuovo che il libro, la sua lingua, i suoi temi, la sua struttura costituiscono.
Quindi rincalza svelando il punto di vista dell’autore:
Io comincio a lavorare tenendo presente che ciò che scrivo non deve rappresentare la realtà ma deve romperla: romperne cioè gli schemi, la abitudini, gli usi, i modelli di comportamento, cioè tutto quello che mi pare il contrario della realtà e che vi potrebbe definire lo status actualis, entro il quale una certa società padrona della maggioranza delle sorti, delle attività, delle fabbriche e dell’attualità e di tutte le cose in scatola, costringe le realtà economica, storica, sociale.
Rompere la realtà, ecco l’obiettivo. Evitare bamboleggiamenti narcisistici – leggiamo nella stessa conferenza qualche pagina dopo – e indulgenti evocazioni di amori perduti, d’accordo, ma a che cosa sta davvero pensando Volponi? Forse già prende forma quel romanzo, giudicato unanimemente fra i più complessi, che avrebbe visto la luce nel 1974 con il titolo di Corporale? Ricco di pieghe e di faglie, Corporale sembra essere scivolato lungo i versanti sempre più ripidi di quel mondo industriale nel quale Volponi tenta ancora di comprendere e trasformare la così detta società del benessere inseguendo l’ideale olivettiano di un’industria a misura d’uomo.
Sono note le vicende che porteranno Volponi ad allontanarsi dall’impresa del suo maestro, ormai travisato e tradito, e ad accettare alcuni incarichi di prestigio per la FIAT, fino alle nuove dimissioni determinate dalla sua esternazione di voto su un giornale. Il Partito Comunista, cui lo scrittore si è progressivamente avvicinato, rappresenta l’estremo approdo di uno scrittore che intende, apertis verbis, il suo operare non come evasione dal suo tempo, tutt’altro, come forma di interpretazione critica, di contestazione, e in fondo di lotta. Il comunismo nel quale Volponi dichiarerà di credere fino alla fine, anche dopo la famosa svolta della Bolognina, non è riducibile nei termini di un’adesione partitica; presuppone una meditazione più ampia sul senso della giustizia e della libertà nel mondo, sulle falle della “macchina mondiale”, sull’urgenza di cercare l’umano, di conservarlo e valorizzarlo anche dopo la fine del glorioso modello del sapere umanistico, che ancora alligna nei ceti intellettuali più intransigenti e reazionari.
Occorre andare “oltre” questo tempo e guardare avanti, come accade ne Il pianeta irritabile, in cui appaiono più umani i quattro protagonisti in fuga (tre animali e un nano) che il governatore Moneta che li insegue con i suoi mercenari, sopravvissuti agli effetti di un’immane catastrofe. Insomma, quando Francesco Leonetti, nella lunga conversazione Il leone e la volpe gli chiede di dare una definizione di comunismo, Volponi risponde:
Significa ritenere che il capitalismo non sia l’ultima sorte toccata all’umanità: anzi rivendicare la necessità di criticare ancora il capitalismo. Essere comunista vuol dire inoltre far sì che la scienza e la cultura diventino dominio di nessuno, ma appartengano agli uomini e ai loro gruppi, alle loro scuole, alla loro voglia di progettare e di fare ancora.
Occorre non fidarsi troppo delle formule parlando di Paolo Volponi. Egli è sempre un passo avanti, come scrittore e come intellettuale. Intellettuale organico non a un partito ma a un’idea, che sopravvive allo scioglimento del PCI, nelle cui file era entrato già a partire dal 1980, come consigliere comunale di Urbino. È dal 1983 che possiamo seguire l’attività di Volponi, eletto al Senato come indipendente nel collegio di Urbino, e come tale rimasto fino al 1992, quindi deputato nelle file di Rifondazione Comunista nel 1992, e rimasto in carica fino alla morte, nel 1994. Il Volponi che dall’’87 al ’92 è membro di varie commissioni (Affari esteri, Industria, Istruzione e Beni culturali), autore di importanti interventi (a partire già dai primi mesi del 1984) parzialmente raccolti in Parlamenti (a cura di E. Zinato, Roma 2011) e in Discorsi parlamentari (a cura di M.L. Ercolani, Lecce 2014), non è l’altra faccia di un pianeta immaginario o mai esplorato, un’appendice schizofrenica dello scrittore che prova a darsi la posa di engagé: semplicemente è lo stesso autore del Ramarro e di Memoriale e del Pianeta irritabile, e così via; il suo urgente corollario, il completamento di un’articolata dialettica intrinseca all’opera di Volponi, che segue non una ma più strade, dagli uccelli che popolano i versi di Con testo a fronte al disegno di legge per la conservazione degli uccelli selvatici del 7 dicembre 1984.
Attento alle diverse occasioni della vita che lo distraggono dalla ricerca di un confronto serrato con la società del tempo, con le manipolazioni del linguaggio, con la fragilità e la necessità della memoria, l’ultimo Volponi ci lascia intendere l’ampio orizzonte del suo ultimo straordinario decennio produttivo – dal Lanciatore di giavellotto (1981) a Con testo a fronte (1986), a Le mosche del capitale (1989), a La strada per Roma (1991) – senza tralasciare passaggi editorialmente meno conclamati e più appartati – penso all’originale versione della Lisistrata di Aristofane (1982), a quel gioiello di memoria poetica e saggistica che è Cantonate di Urbino (1985), e infine all’ultima amara e dissacrante raccolta di versi, Nel silenzio campale (1990).
Se provassimo a raccordare queste opere del Volponi letterato con quanto l’uomo politico andava annotando, nei suoi interventi parlamentari su questioni ancora oggi essenziali (dalla scuola all’ecologia, alla pace nel mondo), vedremmo con chiarezza come la complessità dell’opera dello scrittore urbinate riporti la nostra riflessione sulle ragioni di una letteratura che si rimodella intorno al confronto ineludibile con un nucleo incandescente di questioni che la realtà pone all’uomo, ammesso che questi intenda vivere (come propugna fino alla fine, anche di fronte al fallimento, il protagonista de Le mosche del capitale) in un mondo migliore, e non accontentarsi del meno peggiore dei mondi possibili.
Non si tratta di stabilire e risolvere un eventuale iato fra un primo e un secondo Volponi, quasi a voler mettere d’accordo – per esempio – l’afflato lirico che soffia nei versi scritti nella drammatica temperie postbellica, con la nuova disincantata prospettiva che l’autore matura di fronte alle questioni poste dal forzato sviluppo economico. Meglio provare a rileggere, fuori da ogni prontuario concettuale, l’opera di uno scrittore non “prestato” alla politica ma intimamente “integrato” nella polis, e mirare a cogliere nelle sue dinamiche interne – nel suo percorso non privo di ostacoli, ripensamenti, dubbi, tensioni irrisolte (come dimostrano quei singolari appunti del 1972, editi in Volponi personaggio di romanzo, a cura di G.C. Ferretti e E. Zinato, Manni, Lecce 2009) – un’esigenza di ricerca e di progetto morale esposta alle intemperie e alle incongruenze della storia, alle contraddizioni dell’uomo, alle svolte inopinate, ma anche ai suoi slanci, a una fondamentale domanda di partecipazione, libertà, cultura democratica. Quale comunità (per riprendere Olivetti) attende di abitare la deserta “Città ideale” del quadro di autore ancora ignoto conservato nel Palazzo Ducale di Urbino, e più volte interrogato da Volponi, e di liberarla da una silenziosa e stupefatta attesa? Quale polis alligna in questa trasformazione, nella sua – direi – dimensione utopica, che l’arte crea e custodisce?
Riferimenti bibliografici
P. Volponi, F. Leonetti, Il leone e la volpe. Dialogo nell’inverno 1994, Einaudi, Torino 1995.
P. Volponi, Romanzi e prose, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2003, 3 voll.
Id., Parlamenti, a cura di E. Zinato, Futura, Roma 2011.
Id., Discorsi parlamentari, a cura di M. L. Ercolani, Manni, Lecce 2014.
Id., Poesie, a cura di E. Zinato, Einaudi, Torino 2024.
Paolo Volponi, Urbino 1924 – Ancona 1994.