Cento anni fa nasceva Chris Marker, il 29 luglio 1921 (solo alcuni anni dopo il mio fulminante incontro pesarese con questo grande artista ho scoperto, non senza un certo orgoglio, che era nato nel mio stesso giorno). Nove anni fa, sempre nello stesso giorno, moriva Chris Marker. Sembra sicuramente ingenuo sostenere che l’opera di Marker, uno degli intellettuali-filmaker più rilevanti del Novecento e dei primi anni duemila, rimane attuale a distanza di anni e continua a parlare con indefessa energia e forza anche alle nuove generazioni. Sembra sicuramente ingenuo se non si motiva in maniera più circostanziata questa affermazione apparentemente retorica e consunta dall’uso. Secondo il pensiero ermeneutico non esistono fatti, ma solo interpretazioni. Rapportando questo concetto all’estetica del cinema si può ragionevolmente sostenere che gli unici film che si salvano sono quelli che si aprono a numerose interpretazioni, in grado di modificarsi attraverso l’età anagrafica, le esperienze e le conoscenze del critico o dello studioso di turno. Il cinema di Marker, e in alcuni suoi lavori questo dialogo con l’avvenire è più vivo rispetto ad altri, è sempre vivo e presente, perché caratterizzato da una inesauribile polisemia del senso e dell’immagine.

Pensiamo a Level Five (1997). Laura (Catherine Belkhodja), in una dimensione pre-pandemica, è chiusa in casa dall’inizio alla fine del film, i suoi rapporti con il mondo sono mediati dalla presenza di uno schermo con il quale interagisce per portare a termine un videogioco sulla battaglia di Okinawa, che il suo compagno, appena scomparso, non è riuscito a terminare. In Level Five c’è una donna e un computer, ma questa solitudine che preconizza la nostra triste condizione attuale, diventa una modalità per mettere in contatto tempi lontani, presente, passato e futuro, dimostrando come si possa rendere fertile il rapporto con il virtuale, utilizzandolo come una “porta” che ci permette di entrare in una “zona” di tarkovskiana memoria, in cui i tempi si mescolano e le immagini, insieme alle informazioni prodotte dalla rete, diventano indizi per aiutarci ad interpretare il nostro presente sfuggente ed enigmatico.

Laura nelle sue peregrinazioni incorre in una sequenza drammatica: un’abitante di Okinawa, una giovane donna, corre verso un altopiano, sale, mentre una macchina da presa, acefala, la riprende, immaginando che la donna stia per compiere il gesto fatale, e quindi lanciarsi giù dalla gola, compiuto da molti suoi connazionali nel momento in cui l’isola cade nelle mani dell’esercito statunitense. La donna però, dopo essere salita in cima, ha un attimo di esitazione, forse un ripensamento, si guarda intorno e l’incrocio con lo sguardo implacabile della macchina da presa la spinge, per orgoglio, al tragico gesto, che forse, sarebbe stato scongiurato in assenza di testimoni. Lo sguardo che uccide, come nel film di Powell e Pressburger, oggi più di allora, nel momento in cui ogni azione viene immortalata da una microcamera nascosta in un telefono cellulare. Marker, come sempre, ci aveva visto lungo.

Una terza guerra mondiale viene descritta con toni millenaristici ne La Jetèe (1962): la guerra nucleare ha reso inabitabile la superficie e vittime e carnefici devono rinchiudersi nei sotterranei della città (nuovamente una visione del futuro in cui l’esterno è espunto dall’esperienza umana) per poter trovare i mezzi della propria sopravvivenza. Il viaggio nel passato e il viaggio nel futuro alla ricerca di un antidoto (un vaccino?) in grado di salvare l’umanità. Ma il contatto con gli uomini del futuro è reso possibile soltanto per individui che abbiano un’immagine forte del proprio passato, che li possano salvare dal trauma di un viaggio nel futuro, giusto un’immagine, non necessariamente un’immagine giusta. La memoria rimane il viatico per la sopravvivenza del genere umano. L’uomo ottiene dagli uomini del futuro un generatore di energia, la salvezza del pianeta è già in mano alla scienza e non ai filosofi, tantomeno ai teologi e neanche ai politici. Autore dalla vocazione cosmopolita, Marker intuisce tra i primi, l’inutilità dell’appartenenza a scuole, correnti, gruppi, clan culturali e di potere, tenendosi alla larga da qualsiasi filiazione e mantenendo una libertà di pensiero e un’indipendenza creativa, che arriva spesso a rasentare l’autarchia.

Cittadino del mondo, animato da uno spirito filantropo, che solo un misantropo come lui poteva esprimere, sempre nascondendosi e lasciando che fosse il prossimo, attraverso il gesto inatteso, lo sguardo segreto a palesarsi in tutta la propria imperfetta e fallibile umanità. Ricordiamo gli sguardi rubati nella metropolitana di Tokyo o la timida bellezza delle donne del mercato in Guinea-Bissau. Marker ha sempre difeso i più deboli dalle sopraffazioni e dalle ingiustizie soprattutto quando quest’ultime erano di natura culturale; Vincenzo Trione recentemente ha aperto un editoriale sul settimanale del “Corriere della Sera” ricordando la straordinaria attualità di uno dei primissimi lavori di Chris Marker, codiretto con Alain Resnais nel 1953,  Les statues meurent aussi, opera dal  messaggio apertamente anticolonialista e centrato sull’ingiusta subalternità dell’arte africana rispetto a quella europea:

Les Statues meurent aussi (1953) è un documentario dedicato al mistero delle opere dell’“altro mondo”: un montaggio disinvolto e un ipnotico gioco di luci rivela, nella penombra, il nero legno di seducenti invenzioni plastiche, testimonianze di civiltà dimenticate. Siamo dinanzi a un film politico. Resnais e Marker denunciano i meccanismi di sopraffazione, di disprezzo e di razzismo compiuti dai colonialisti.

Lo spunto dell’articolo di Trione scaturisce da una proposta ancora inattuata del presidente francese Macron di restituire all’Africa le opere d’arte trafugate e sottratte dai paesi europei durante gli anni della sopraffazione umana e culturale del colonialismo. Il documentario di Marker e Resnais già esprimeva questa necessità, che a distanza di decenni, è diventata una vera urgenza. Le grandi intuizioni markeriane sono sempre scevre da qualsiasi forma di retorica e si sono non di rado accompagnate ad una costante riflessione sul mezzo cinema, come potenzialità espressiva attiva e non come supporto puramente funzionale. In Lettre de Sibérie (1957), Marker riflette sul potere mistificante della voce fuori campo, montando tre diversi commenti, di matrice ideologica opposta, sulle stesse immagini neutre, di una piazza di Jakutsk, la capitale della Siberia, sostenendo infine che nessun commento, neanche quello oggettivo, è in grado di esaurire la polisemia dell’immagine; l’oggettività non esiste, l’unica strada è tornare alla fallace, ma sincera soggettività, ritornando all’idea iniziale che non esistono fatti, ma solo interpretazioni.

Ogni immagine si incontra e si scontra con chi la guarda, con il suo bagaglio culturale ed esperienziale, con i suoi tempi, con la sua vita. Marker gira immagini che incontrano e che si scontrano con tempi in continua evoluzione, riuscendo spesso ad essere profetico, come abbiamo visto, come tutti i grandi artisti. Nel 1997 è stato tra i primi a intuire le potenzialità della rete realizzando il CD-ROM interattivo Immemory, pensato per la fruizione individuale e per un’esposizione museale, percorso stratificato nella memoria personale e invito collettivo alla costruzione di una propria memoria numerica. In Marker si è fatta pressante la necessità di utilizzare le nuove tecnologie come espressioni artistiche della caducità umana: del tutto disinteressato alla fragilità del digitale, egli ha avvicinato più volte la vita umana alla vita dell’opera d’arte, evidenziandone l’assoluta estemporaneità. Lunga vita quindi al grande Chris Marker, sperando (forse) che le sue immagini ci assalgano ancora, almeno in questa nostra esistenza, con la loro violenta e sconcertante presenza.

Riferimenti bibliografici
C. Lupton, Chris Marker: memories of the future, Reaktion Books, London 2005.
V. Trione, È possibile (giusto) decolonizzare i musei?, in “Sette”, 1 marzo 2021.

Chris Marker, Neuilly-sur-Seine 1921 – Parigi 2012.

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