Esce nelle sale cinematografiche un film in lingua spagnola, prodotto negli Stati Uniti, diretto dall’austriaco John Reinhardt. Il protagonista, Julio Argüelles, è interpretato da un già famoso Carlos Gardel, francese di nascita, ma argentino di fatto. Attorno al quarto minuto del film appare, quasi di spalle, un ragazzino che ha l’aria di qualcuno che attende di vedere cosa accade. Ha berretto e borsa a tracolla, larghi pantaloni e dei giornali in mano. Quel film è El dia que me quieras (1935) e quel ragazzino che vende giornali è Astor Piazzolla. Lo scorso 11 marzo, si sono celebrati i cento anni dalla nascita di questo personaggio tanto anomalo quanto attraente, da molti considerato una figura “borderline”: difficilmente assimilabile a un musicista “pop”, ma neppure pienamente riconosciuto nell’ambito della cosiddetta musica colta; suonato nei teatri, ma ballato nelle milongas di mezzo mondo; considerato da alcuni colui che, con il tango nuevo, ha rivoluzionato un genere (quello del tango), per altri ne avrebbe accelerato la fine. Insomma, Piazzolla sembra collocarsi in un punto intermedio, costantemente. Nel mezzo tra alto e basso, salotto e strada, reazione e rivoluzione, musica e danza. Che ci si schieri tra i suoi apologeti o tra i suoi detrattori, sarebbe difficile contestare un fatto: Piazzolla è diventato un’icona e il suo nome, così come alcune sue pagine in particolare, è tra i più noti del panorama musicale internazionale. Il centenario della sua nascita ci offre l’occasione di ricostruire alcuni tratti salienti della sua biografia e del suo pensiero musicale, e chi scrive intende dichiarare subito da che parte sta: da quella di chi lo ama.

Piazzolla è sempre stato convinto, fin da giovane, che il destino gli avrebbe riservato sorprese gratificanti. All’inizio, non sapeva con esattezza a cosa sarebbero state legate, ma sapeva che ci sarebbero state. In effetti, cento anni dopo la sua nascita (ma era così anche quando era in vita e in attività), il suo nome è stabilmente presente nelle sale da concerto e nei festival, così come nelle vie e nelle piazze di mezzo mondo. Nel primo caso, siamo in linea con le aspirazioni di questo compositore (è così che lui effettivamente, e a ragione, si autodefiniva). Nel secondo caso, lo saremmo un po’ di meno. Ballare i suoi brani, infatti, lo farebbe irritare, sebbene, dato un certo indubbio autocompiacimento, vedere migliaia di persone danzare sulle note e sul ritmo della sua musica forse, in fondo, non gli dispiacerebbe.

Come detto, Astor Pantaleón Piazzolla nasce l’11 marzo 1921, in Argentina, precisamente nell’affascinante Mar del Plata. Come molti altri argentini, è figlio di migranti italiani. Da parte di padre, è pugliese e, da parte di madre, toscano. Quando lui è ancora molto piccolo, la famiglia Piazzolla si trasferisce a New York, dove suo padre Vicente, detto “Nonino”, presta i suoi servizi alla mafia. Astor resterà nella Grande Mela, eccezion fatta per il biennio 1929-31, fino al 1937, trascorrendo lì fanciullezza e prima adolescenza. La sua vita si snoda tra la casa e la strada, teatro, quest’ultima, di sparatorie, ammazzamenti, furti, violenze e, soprattutto, musica. C’è Bach, suonato dal vicino di casa Béla Wilda, pianista ungherese e allievo di Rachmaninov, e c’è il klezmer, genere musicale tipico degli ebrei aschenaziti dell’Europa centrorientale, scandito da quella formula ritmica 3+3+2 che diventerà uno dei marchi di fabbrica di Piazzolla.

In una New York nel pieno di una profonda trasformazione, «mentre George Gershwin scrive il suo Porgy and Bess, Astor Piazzolla suona in un cabaret chiamato El Gauchito» (Fischerman, Gilbert 2012, p. 35), e suona il suo bandoneon, strumento che il padre gli regala quando ha circa otto, nove anni. Non si è trattato di una richiesta del fanciullo, ma di una scelta di Nonino: “Se il mio vecchio mi avesse regalato un sax, oggi sarei un grande sassofonista”, dirà molti anni dopo. Il bandoneon, quindi, non è una scelta ma è frutto del caso. Eppure, il destino di Astor, da quel momento, sarebbe stato irreversibilmente legato a quello strumento, tra le cui pieghe si nasconde il ritmo del tango, la voce dei Buenos Aires. A proposito di Buenos Aires, Piazzolla ci ritorna attorno ai sedici anni e l’accoglienza non è delle migliori. Lo chiamano “el Yoni” (traslitterazione argentina di “Johnny”), che è un po’ come dire “gringo”, ricorrendo quindi ad appellativi che tracciano una distanza, un mancato riconoscimento d’appartenenza. Ma quelle diffidenze iniziali verranno presto sostituite dal loro contrario, anche se, come vedremo, i detrattori non mancheranno mai.

Piazzolla inizierà a fare musica con il collega bandoneonista Calixto Sallago, senza però ancora muoversi nel mondo del tango. Inizierà a farlo di lì a poco, inserendosi rapidamente in una disputa che assumerà toni particolarmente accesi, animata da coloro che intendono preservare i caratteri tradizionali del tango (salvaguardandone il carattere di danza) e coloro, come Astor, che vorrebbero liberarlo da certe costrizioni ed elevarlo al rango di genere musicale strumentale (senza la danza).

Vale la pena ricordare come il tango nasca dall’incrocio di tradizioni culturali e musicali anche molto diverse: «In origine, […] è un’ibridazione urbana di danze locali portuali – creole e nere – con il ritmo della habanera e con elementi melodici, armonici e formali di musica popolari – soprattutto italiane e spagnole – introdotti nei porti di Buenos Aires e Montevideo da immigranti europei alla fine del secolo scorso» (Pelinski 2006, pp. 1132-52). Negli anni dieci del XX secolo, il tango, che inizialmente era ballato da soli uomini, sbarca in Europa (Francia, Italia, Finlandia, Russia, Germania, Inghilterra), ma anche negli Stati Uniti e in Giappone. Si tratta di una versione “europea” del tango tradizionale porteño, che tuttavia trova una sua codificazione come ballo da salotto. Il tango viene “benedetto” in Europa, per poi ritornare in Argentina e «negoziare la sua accettazione nei “salotti distinti”, in cambio del riconoscimento politico dell’identità collettiva di chi lo aveva inventato» (ivi, p. 1139). E così, nell’arco di pochi anni, si passa dall’avversione di nazionalisti come Manuel Gálvez (Fischerman, Gilbert 2012, p. 48) alla consacrazione del tango come musica e patrimonio nazionali.

In questo quadro, si accende una feroce querelle che vede contrapposti i rinnovatori (come Roberto Firpo, i fratelli Francisco e Julio De Caro o da Carlos Di Sarli) e i tradizionalisti (come Francisco Canaro). Neanche a dirlo, Astor Piazzolla si schiererà con i primi e, per rafforzare la propria posizione, inizierà a fare sul serio, suonando e studiando. Alla fine del 1939, entra nell’orchestra di Aníbal Troilo, detto “Pichuco”, cerca di non cedere alle sirene notturne del mondo del tango e sposa la diciottenne Odette María Wolff, detta “Dedé”.

Mentre si dedica allo studio con il compositore Alberto Ginastera, la posizione di Piazzolla nel mondo del tango è sempre più chiara: per lui il tango, oltre a essere rinnovato, va suonato e non ballato. La sua notorietà aumenta sempre di più, tanto che il primo agosto 1947, sulle pagine di “Noticias Gráficas”, viene definito un «beniamino», l’«asso della milonga». Riuscire ad accreditarsi nel mondo della musica cosiddetta “colta” resta comunque uno dei suoi principali obiettivi. Prova a studiare con Aaron Copland a Berkeley, senza però riuscirci, e con la mitica Nadia Boulanger a Parigi, nel 1954. L’anno successivo, Piazzolla torna a Buenos Aires e crea il celebre Octeto Buenos Aires, che programmaticamente non si avvale né di direttori d’orchestra né di cantanti (salvo rare eccezioni) e non intende esibirsi in sale da ballo: dev’essere «soltanto ascoltato». Questa formazione inciderà due album fondamentali: Tango progresivo (1956) e Tango moderno (1957). A ulteriore conferma delle intenzioni “rivoluzionarie” di questo gruppo, nelle note di copertina di Tango moderno, si leggono queste parole: «Occorreva riscattare il tango dalla monotonia che lo avvolgeva […]. Insomma, far sì che il tango entusiasmasse anziché stufare l’esecutore e l’ascoltatore, senza smettere di essere tango. E che fosse, più che mai, musica».

La spinta rinnovatrice di Piazzolla, a un certo punto, deve fare i conti anche con lo “spirito del tempo”, il che significa, dal punto di vista musicale, interloquire con i mondi apparentemente molto distanti del jazz, del rock e dell’elettronica. Con queste premesse, prenderanno vita i progetti del Quinteto Yei-Te (forma storpiata di J. e T., che stanno per jazz e tango), di Conjunto 9 (negli anni settanta, si usava la parola conjunto per riferirsi ai gruppi rock) e dell’Octeto Electrónico. Ma tra tutte le formazioni che Piazzolla ha creato, probabilmente quella che più di altre si è caratterizzata per l’alto livello raggiunto è stata il Quinteto Tango Nuevo, nato nel 1960 e che pubblicherà altri due album fondamentali: Piazzolla Interpreta a Piazzolla (1961) e Tango para una ciudad (1963).

Intanto, nella seconda metà degli anni sessanta, Piazzolla si dedica anche a collaborazioni con il mondo letterario sudamericano (Ernesto Sabato, Luis Borges e Horacio Ferrer), oscillando tra fallimenti e successi. Qualche anno dopo, nel 1974, oltre a trascorrere un periodo in Italia, Piazzolla incide il famosissimo Libertango, disco che i “puristi” considerano il suo peggior lavoro, che attesta una sorta di compromesso al ribasso con il mercato discografico e con un certo gusto commerciale di stampo occidentale. Questa bocciatura, tuttavia, coinciderà con un ulteriore balzo in avanti della notorietà ormai planetaria di Piazzolla, il quale, nonostante un infarto e quattro bypass, non sembra voler rallentare i propri ritmi di lavoro. Concerti, dischi, nuove formazioni, sebbene nessuna abbia più raggiunto il livello del Quinteto Tango Nuevo. Arriviamo così all’inizio degli anni novanta. Il 5 agosto 1990, Astor cade nel bagno del suo appartamento parigino, colpito da un ictus. Seguiranno due anni di coma e si spegnerà il 4 luglio 1992.

Si chiude, così, la parabola esistenziale del più famoso compositor de musica de tango del Novecento, ma non si interrompe di certo la vita del suo nome, della sua musica e del suo inconfondibile tango. Piazzolla è riuscito dove nessun altro era riuscito: de-etnicizzare il tango senza privarlo del carattere porteño, dando vita a una musica al contempo argentina e internazionale (Pelinski 2006, p. 1147). E questo è stato possibile anche in virtù del suo essere una figura, come dicevamo in apertura, “liminare”, al confine con mondi, sensibilità, esperienze e obiettivi diversi. Un autentico «rompicapo», per come l’hanno definito Fischerman e Gilbert, nel quale convivevano

la sua conoscenza del tango e l’idea che una musica dovesse essere rappresentativa di un luogo e di una cultura particolare, i primi studi con Ginastera, gli insegnamenti della Boulanger e, soprattutto, l’esigenza di coniugare tutto ciò con l’immagine gershwiniana del musicista “bifronte”, capace di “salvare” al tempo stesso la musica popolare, arricchendola con l’erudizione accademica, e la musica classica, mettendola a contatto con il sapere popolare indispensabile per non farla diventare un esperimento sterile (Fischerman, Gilbert 2012, p. 132).

Astor Piazzolla è questo.

Riferimenti bibliografici
D. Fischerman, A. Gilbert, Piazzolla. La biografia, Minimun Fax, Roma 2012.
R. Pelinski, Migrazioni di un genere: il caso del tango, in Enciclopedia della musica, vol. I, Einaudi, Torino 2006.

Astor Piazzolla, Mar del Plata 1921 – Buenos Aires 1992.

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