Su uno schermo che funge da sipario si proietta una scena cult del cinema moderno: il finale di Le Mépris (1963) di Godard. Paul (Michel Piccoli) scende la ripida scalinata di Villa Malaparte a Capri, una sorta di piramide rovesciata che si erge su un costone roccioso che lo stesso scrittore ideò e fece costruire tra il 1938 e il 1940. Camille (Brigitte Bardot) passeggia in punta di piedi sulla terrazza, Paul seduto accanto alla roccia legge la lettera d’addio di Camille, poi lo schianto dell’Alfa Romeo rossa e il corpo insanguinato della Bardot, mentre risuona l’adagio di Georges Delerue.
Quindi Paul incontra Fritz Lang che sta girando la sua versione dell’Odissea: Ulisse è di spalle mentre guarda la linea marina dell’orizzonte, si batte il ciak, Lang intima: «Silenzio!» Buio. Si illuminano, incorniciate da strisce di luce rossa, le pareti senza intonaco di uno stanzone entro cui si aprono due finestroni che danno su scenari in movimento immersi nella nebbia: città in rovina, paesaggi apocalittici, ruderi, fabbriche vuote, discariche. Di spalle a guardare le immagini che scorrono oltre le finestre-schermo ci sono Godard e Lang ora incarnati da due attori, ma insieme raddoppiati dai frammenti del dialogo tra i due cineasti filmato all’epoca di Le Mépris. Intanto nella penombra della platea si aggira una coppia completamente nuda, un uomo e una donna, mentre sul boccascena si illumina di rosso una mela. L’uomo dice alla donna: «Guarda! Luce!», si accorge che non sono soli, che sono in un teatro, ci sono degli spettatori e invita la donna a seguirlo, scavalcando le poltrone.
La “cacciata dal paradiso” significa il ritrovarsi nel mondo, e quel mondo è un teatro, e quel teatro è racchiuso nello spazio di una casa («Casa come me» la chiamava Malaparte quasi identificando il suo essere forte, solitario e crudamente aspro con essa) e attraverso quel teatro-casa da lì in poi apparirà come una visione spettrale ciò che a noi «nati subito dopo la fine del mondo» (secondo le parole di Malaparte) non cessa ancora oggi di venirci incontro. «La storia nasce dal caos e dalla nebbia», «È difficile sapere cosa vede qualcuno quando guarda a lungo … Quando due persone guardano… Uno vede, l’altro no – chi ha ragione?», «In che anno siamo?», «Faccio sempre lo stesso sogno. Mi addormento e mi sveglio trasformato in un computer», «virus, distruzione, pubblicità…».
Mentre queste frasi rimbalzano tra Godard e Lang, fa il suo ingresso l’incarnazione di Brigitte Bardot. Ma quando sopraggiungono sia Axel Munthe (il medico e scrittore svedese che costruì a Capri Villa San Michele, altra “dimora-sogno”) e lo stesso Malaparte, si parla di “guerra permanente”, ecco che comincia a prendere forma la struttura ipnotica e visionaria, ma anche la cifra politica, entro cui i corpi vivi del teatro e quelli evanescenti del cinema si intersecano, in uno spettacolo folgorante e meditativo, di lancinante e straziante lucidità come Capri-The Island of Fugitives realizzato da un maestro indiscusso della scena internazionale contemporanea come il polacco Krystian Lupa (presentato nella sezione internazionale del Campania Teatro Festival 2023), e di cui fin qui si è evocata l’emblematica ouverture.
Lupa è un grande protagonista della scena contemporanea e il suo lavoro si incentra su una capillare anatomia della struttura teatrale che scava nell’orchestrazione corale degli attori costruita tanto sulla improvvisazione quanto su una precisa drammaturgia dialogica, così come su una compagine visiva distesa nello spazio in complesse architetture che riverberano e riflettono i corpi vivi e le visioni scenografiche in una sorta di spettrale duplicazione tramite squarci, dissolvenze e sovrimpressioni filmate. Assoluto demiurgo delle sue invenzioni teatrali, Lupa concepisce i suoi spettacoli come una Gesamtkunstwerk, “opere d’arte totale” che traspongono spesso nelle tessiture drammaturgiche la forma romanzesca (come ha fatto con Dostoevskij, Musil, Rilke, Gorky, Gombrowicz, Witkiewicz) arrivando a creazioni che raggiungono l’autonomia di opere-mondo disposte in falde temporali che prolungano la durata oltre il consueto.
Le quasi sei ore di Capri confermano questa sua cifra facendola confluire in una coalescenza tra teatro e cinema composta come un intarsio di incarnazione e proiezione conferendo al tutto un perturbante indice fantasmatico in cui sembra di assistere a una sorta di film dal vivo. Qui si tratta di evocare la scrittura crudele e icastica di Malaparte attraverso due sue opere chiave. La prima è Kaputt (1944), libro in cui le sue esperienze belliche sul fronte russo entrano come schegge feroci restituendo lo spettacolo di una Europa devastata dalle carneficine e dalle distruzioni entro cui la guerra appartiene all’ordine fatale del “paesaggio” e insieme dello “spettatore” sul versante della “parte maledetta” (per dirla con Bataille) tanto dell’umano che dell’inumano.
La seconda è La pelle (1949) in cui si aprono gli squarci dei giorni della peste nella Napoli della liberazione, dove lo scrittore era ufficiale di collegamento aggregato all’Alto Comando statunitense, e in cui le visioni della città e del suo popolo appaiono come apocalittiche, visionarie, percorse da un’aura infernale e pagana, allucinatoria, culminante nell’eruzione del Vesuvio nel 1944. Fulcro dello spettacolo è lo spazio epitomico di Villa Malaparte, il cui perimetro a parallelepipedo è restituito da un interno che somiglia a una scatola ottica, a un dispositivo di proiezione, con i due grandi finestroni che diventano spesso schermi (così come la quarta parete che la dispone in assolvenza e in dissolvenza), ma che si fa anche emblema di una condizione di costrizione claustrofobica, una prigione mentale entro cui gli attori diventano parvenze, abitandola come spettri stanchi e indolenti e riflettendo la condizione di spettatore nel momento in cui si dispongono frontalmente al pubblico a scrutare un orizzonte cieco e invisibile, che ci chiama in causa.
Malaparte stesso appare sdoppiato (ora in uniforme, ora abbigliato spettralmente tutto in bianco in veste di narratore-interlocutore sulla soglia del luogo deputato e al limite tra palcoscenico e platea) muoversi tra queste parvenze illusorie («Una persona è un’illusione» si dice a un certo punto) che di volta in volta assumono le sembianze del governatore Hans Frank o di Ludwig Fischer (il carnefice nazista del Ghetto di Varsavia) seduti immoti, a discorrere stancamente di atrocità nei salotti del Castello del Wawel a Cracovia o nell’atrio del Palazzo Brühl a Dresda (nella parte dello spettacolo dedicata a Kaputt); oppure, nella parte ispirata a La Pelle, del colonnello Jack Hamilton e degli ufficiali americani seduti con le loro signore intorno a un tavolo su cui viene servito su un vassoio un pesce-sirena dall’aspetto inquietante di una bambina, in una scena allegoricamente cannibalica; oppure ancora di un gruppo di giovani prostituti stravaccati sui divani sdruciti di un bordello napoletano, o degli assatanati “femminielli” intenti al rito ancestrale della “figliata”, una forsennata cerimonia dionisiaca, un rito pagano di fertilità in cui un uomo abbigliato da donna partorisce un omuncolo di legno con un pene mostruoso (e le pareti della grande stanza restituiscono gli affreschi erotici pompeiani), mentre la scena si conclude con un’orgia omosessuale, restituita da Lupa in un montaggio filmato percorso da un furore selvaggio e solcato da visioni dell’orrore del lager nazisti.
Emerge allora con la forza di visioni laceranti il mondo atroce di una “guerra permanente” visto dagli occhi di un testimone impietoso come Malaparte (al secolo Kurt Erich Suckert, di madre italiana e di padre sassone, che scelse il nom de plume di Malaparte per assumere nello sguardo la parte cattiva, «mentre tutti vogliono essere la parte buona» come nello spettacolo confida agli spettatori). Un personaggio geniale nelle sue contraddizioni, dai mille volti e dalle mille vite, snob e millantatore, uomo d’ordine e ribelle, fascista, oppositore, repubblicano, comunista, assertore di valori spirituali e materialista («un pensiero si veste di un corpo e lo abita per un po’» afferma a un certo punto). Lo stesso scrittore sembra essersi mosso nella vita come un personaggio cinematografico, attraversando il mondo come in un film e assorbendone, restituendoli, gli orrori (del resto lui stesso fu sceneggiatore e regista di un film girato nel 1951, Il Cristo proibito, storia di un’ambigua vendetta antinazista e di un paradossale sacrificio).
Allora lo spettacolo si conforma come un organismo, sorta di “macchina celibe” che ininterrottamente genera immagini che si incarnano o si virtualizzano, procedendo per sequenze e per quadri viventi oppure per “inquadrature” in cui il cinema viene assorbito, come in un trompe l’oeil, diffondendosi e trascorrendo senza soluzione di continuità in un’osmosi tra scena e schermo, virtualizzando i corpi o incarnando le immagini, riversandosi nell’aria e diffondendosi nell’intero teatro, solcando il confine tra animato e inanimato, tra i morti e i vivi, fisicità e evanescenza, come in una prolungata seduta spiritica. Le due sfere della presenza fisica e dell’immagine riprodotta si fondono e si confondono, precipitando infine in una materia alchemicamente sospesa nella luce pulviscolare che investe gli spazi: tutto ciò concorre a restituire plasticamente una condizione umana di cui gli orrori e gli spettri della guerra, ma anche la pregnanza simbolica del luogo Capri come isola di fuggiaschi da un mondo in fiamme e ritrovo di fantasmi della storia e della cultura, del cinema e dell’arte (da Cocteau a Rilke, dall’imperatore Tiberio ai primi cristiani, da Gorky a Picasso, da Gide a Wilde, fino a Jean-Luc Godard e Fritz Lang), si raggrumano e si dissolvono, facendo risuonare appunto il ritratto del mondo, del bisogno di credenza nel mondo, e dell’ umanità che lo abita come una casa che si sta sgretolando, in cui nella nebbia di un caos incipiente si confondono le epoche e le lingue.
«Eravamo persone vive in mezzo a un mondo morto. Che mi importa sapere chi è colpevole e chi è innocente? Sulla terra ci sono solo persone vive o morte» così riflette a voce alta lo spirito vagante di Malaparte. Ma lo stesso scrittore intravedeva una specie di palingenesi, una radicale «regolazione attraverso la crisi», negli incubi bellici come se guardare in faccia quell’orrore privo di pietà potesse aprire un varco per un inizio nuovo, in una sorta di riscatto sacrificale (lui stesso ricorda come il termine Kaputt, titolo di quel romanzo che terminò di scrivere a Capri nel 1943, derivi dall’ebraico Kapparoth che corrisponde a un rituale di espiazione e sta per “vittima sacrificale”).
Nelle note di regia allo spettacolo Lupa scrive: «Siamo i fuggitivi dal mostro dell’Europa: lo Stato, la religione, la dittatura, la democrazia, il mostro dell’Homo Christianis, la guerra… Casa Malaparte, Villa Tiberio, Casa San Michele… Fuori infuria una guerra. Non si sa se sia la prima, la seconda o la terza guerra mondiale, causata dalla follia dell’uomo contemporaneo…». Ma nell’immagine finale che appare sullo schermo-sipario in modo folgorante Lupa ci proietta verso un altrove, che chiude il cerchio richiamando l’orizzonte marino dell’inizio, verso cui guarda l’Odisseo di Lang/Godard. In riva al mare, su una spiaggia disseminata di cadaveri, si apre una grande grotta, una ragazza sola si pettina, con un lungo sguardo in macchina ci scruta. «Forse da qualche parte c’è una casa che diventerà la mia casa» ci dice, e il fuori campo del mare si rivela con un movimento circolare della camera mostrandoci in lontananza una barca che veleggia. Lo stanzone si dissolve e la casa rivela il suo mistero: diventa il mondo, che percorriamo incessantemente, noi viventi, mentre qualcuno ci sogna e ci proietta come in un film interminabile.
Riferimenti bibliografici
C. Malaparte, Kaputt, Adelphi, Milano 2009.
Id., La pelle, Adelphi, Milano 2010.
Capri – The Island of fugitives. Testi: Curzio Malaparte; regia, sceneggiatura, scenografia: Krystian Lupa; costumi: Piotr Skiba; contributi di: Natan Berkowicz (foto sull’isola di Capri); interpreti: Karolina Adamczyk, Grzegorz Artman, Michal Czachor, Michalina Dement- Żemla, Anna Ilczuk, Michal Jarmicki, Andrej Klak, Mateusz Łasowski, Vova Makovskyi, Monika Niemczyk, Filip Orlinski, Halina Rasiakòwna, Maria Robaszkiewicz, Nikodem Rozbicki, Karolina Rzepa, Karina Seweryn, Piotr Skiba, Ewa Skibinska, Julian Śweiezewski, Pawel Tomaszewski, Mateusz Wieclawek, Wojciech Wojcik, Michal Zielinski, Wojciech Ziemianski; durata: 5 50′; anno: 2023.