L’analisi della serialità complessa è faccenda complessa. Affermazione un po’ tautologica, però sufficientemente icastica nel rendere conto del problema. C’è la serie anzitutto, quel prodotto finito che si può fruire indifferentemente su diversi supporti, i cui confini sono tuttavia abbastanza sfumati: miniserie di pochi episodi, serie antologiche, serie high concept distribuite su diversi anni. In realtà, la serie è l’ultimo strato di un processo creativo che nasce con le dimensioni di un piccolo seme e, passando di mano in mano, cresce sino a diventare quello che vediamo: pitch, soggetto, sceneggiatura, shooting script. Vi sono poi le arborescenze che gemmano in corso d’opera: prequel, sequel, spin-off. Ma anche una serie può essere a sua volta una di queste arborescenze, magari una talea prelevata da altri contesti mediali: adattamenti, traduzioni transmediali. E ancora, la serie è anche un deposito di temi, figure, forme di rappresentazione e – perché no – forme di vita, dal quale attingere per appropriarsene dal basso in forme inventive: remix, mash-up, paraquel. La serie, infine, è solo uno degli oggetti che compongono il mondo seriale: il più significativo, probabilmente, ma che da solo non riesce a rendere conto della naturale e radicale predisposizione all’espansione oltre i propri confini mediali che definisce lo statuto della serialità contemporanea e che orienta, inevitabilmente, tanto i processi della sua produzione quanto quelli della sua fruizione.
È proprio questo scenario complesso l’oggetto di indagine di Capire le serie TV. Generi, stili, pratiche, il volume di Nicola Dusi e Giorgio Grignaffini uscito pochi mesi fa per Carocci. Affrontando alcuni casi esemplari, da Breaking Bad (2008-2013) a Gomorra – La serie (2014-in corso) sino a Il nome della rosa (2019), il libro interroga il percorso di costruzione del prodotto finito attraverso l’analisi delle sue varianti tanto espansive (dal pitch allo shooting script) quanto paradigmatiche (le diverse versioni dello stesso materiale), affrontandone al tempo stesso i caratteri ereditari (gli ipotesti che richiama o sui quali si fonda), il percorso di “soggettivazione” (la specifica dimensione transmediale), nonché il lascito (le forme di appropriazione e sopravvivenza). Affrontare questo scenario intricato significa allora mostrare come il senso sia l’effetto di procedure stratificate che procedono per cerchi concentrici di ampiezza sempre maggiore.
Da questo punto di vista, il libro si fonda su una significativa omologia tra metodologia adottata e oggetto d’analisi. La nuova strada di ricerca intrapresa da questo lavoro è infatti saldamente radicata in una disciplina inattuale, la semiotica, posta in costante dialogo con il campo della teoria dei media più affine, da Henry Jenkins a Ruggero Eugeni, nonché con il recente e fiorente dibattito italiano attorno alla serialità. Inattuale in questo caso non vuol dire vetusta; piuttosto, ne indica il carattere intempestivo e “fuori moda”, ma non necessariamente inefficace. Anzi, al contrario: proprio la prospettiva così particolare del libro non può che radicarsi in questa cornice epistemologica.
La tesi è molto chiara in proposito: «La serie tv fatta e finita, disponibile in tv o online, va riconsiderata come lo strato superficiale di operazioni di trasformazione di materiali e di pratiche diverse e precedenti, analizzabili anch’esse con gli strumenti della semiotica» (Dusi, Grignaffini 2020, p. 19). Secondo questa prospettiva, le serie sono dunque il luogo denso di processi di traduzione che nello spazio della cultura mettono a confronto i testi (cioè le opere) e le pratiche (infra-, inter- e trans-mediali). Questo spazio della cultura è dunque un macrosistema che ingloba lo spazio del testo, lì dove si evincono le relazioni tra la serie ed eventuali ipotesti o fonti culturali alle quali attinge (intertestualità), lo spazio del discorso, dove avviene il confronto tra generi e formati (intermedialità), e lo spazio dei media, nel quale si possono analizzare i passaggi da un medium a un altro (transmedialità o, se più libera, crossmedialità). La comprensione di queste dinamiche traduttive diventa così una proficua chiave interpretativa per rendere conto proprio di quei processi di costruzione di mondi seriali complessi che oggi vivono e prosperano oltrepassando i confini dei formati, dei media e delle esperienze.
Dentro questa intricata matassa, è possibile isolare tre nuclei che evidenziano l’originalità di approccio del libro. Il primo, come ricordato, è l’importanza conferita allo studio delle fasi preparatorie. Su questo aspetto si concentrano i primi due capitoli dedicati sia a una ricognizione dei vari passaggi sia all’applicazione di tale paradigma analitico su un oggetto seriale, in questo caso Made in Italy (2019-in corso), ideata da Camilla Nesbitt e trasmessa da Amazon Prime Video e Mediaset. Mettendo a confronto il materiale narrativo attraverso le diverse tappe realizzative, si comprendono dunque con maggiore chiarezza i processi di costruzione del senso e l’orizzonte di significazione complessivo. Ma tale primo nucleo apre anche a una serie ulteriore di questioni, che pure vanno ben oltre il portato di questo tipo di analisi. Ribadisce ad esempio la dimensione collettiva della creazione seriale. Di chi è infatti una serie? Chi ne è l’autore? Sono domande che ovviamente circolano da molto tempo negli studi sull’audiovisivo in generale, ma nel campo della serialità acquistano contorni ancora più marcati, dato che – come del resto rilevano Dusi e Grignaffini – questo è oggi uno dei territori a maggior “impatto autoriale”, che però si parcellizza tra figure (showrunner, regista, sceneggiatore) o tra nomi (l’alternarsi dei registi tra i vari episodi).
Allora, se il passaggio che dallo script porta all’opera finale viene di solito concepito sotto il segno della programmazione, cioè la definizione rigida di un modello di comportamento da parte di un soggetto verso un altro, in realtà sembrerebbe più situarsi sotto quello dell’aggiustamento (Landowski), insomma di un’opera di mediazione e negoziazione tra due soggetti. Una considerazione che descrive una modalità di lavoro, ma che – allargando ancora un po’ lo sguardo – ci permette di riflettere sulle forme di aggiustamento che intercorrono “naturalmente” tra la serialità nella sua dimensione espansa su più stagioni e la realtà, che in qualche modo affida alla serialità stessa il mandato di farsi tradurre al passo coi tempi, soprattutto in quelle opere che fanno dell’aderenza al contemporaneo il proprio tratto distintivo. Se mondo seriale e mondo reale tendono a sovrapporsi sempre di più non è solo per le pratiche di appropriazione che gli utenti mettono in atto nei confronti delle immagini e dei racconti, ma anche perché la serialità, per indole e predisposizione, sempre di più coincide con lo spazio della vita e dell’esperienza tout court.
Il secondo nucleo riguarda invece la centralità attribuita all’analisi del montaggio. Ma il montaggio non è solo un (fondamentale) operatore di senso interno alla serie, che lo studio delle varianti del materiale ci permette ancor meglio di evidenziare proprio a partire dalla scelta dell’ordine sequenziale dei vari blocchi narrativi e figurativi. Il montaggio opera infatti anche un’organizzazione del sensibile, come già sosteneva Ejzenštejn, e dunque produce specifici effetti patemici, oltre che cognitivi, all’incrocio tra teoria semiotica ed estetica. Ma soprattutto, e più radicalmente, il montaggio è principio e metodo di senso: le serie si configurano infatti come complesse operazioni di montaggio di frammenti intertestuali ricompresi dentro un mondo seriale. La serialità è dunque un gigantesco dispositivo di bricolage postmediale definibile come «ibridazione della fiction seriale e dell’estetica cinematografica» (ivi, p. 85), che a sua volta è oggetto di “bracconaggio” da parte degli spettatori, che si appropriano di alcuni elementi, li remixano, li rilavorano, li risemantizzano, per espandere infine quello stesso mondo seriale attraversando i confini mediali, di formato e di genere.
Il terzo e ultimo nucleo, infine, affronta proprio questa “periferia” seriale, sia interna (i recap e i teaser ad esempio) sia appunto esterna (i paratesti ufficiali e quelli ufficiosi). Ecco dunque che il libro opera un doppio allargamento di campo rispetto ad altri lavori, procedendo sia in profondità (la genesi e le espansioni narrative) sia in ampiezza, indagando il mondo seriale prima e al di là della serie stessa. La serie, allora, si configura come un ecosistema a tutti gli effetti, capace di intrattenere relazioni molteplici con il suo spettatore e i cui contorni sono difficili da cartografare con precisione. Da questo punto di vista, lo studio della serialità sembra così poter aspirare a diventare principio metodologico, piuttosto che semplice campo disciplinare o tematico. Dove inizia infatti una serie? Dove finisce? E di chi è una serie?
Parlando di media, migrazioni e metodo, Radha Sarma Hegde ha recentemente proposto un principio fondamentale per approcciarsi al tema: decentering the default, decentrare il predefinito, dislocare lo sguardo non solo al di là del fuoco prospettico, ma propriamente a partire da una posizione periferica. Ecco che la serialità, secondo Dusi e Grignaffini, ci impone di operare secondo un movimento analogo: interrogarla cioè a partire da altre basi e su altri luoghi testuali. Se il paragone può sembrare azzardato, è però proprio nel metodo del libro stesso che una motivazione può essere rinvenuta. Gli ecosistemi seriali sono infatti paragonabili a delle semiosfere, si fondano cioè su logiche traduttive e topologiche tipiche dei sistemi culturali. E in questo senso, lo studio dei mutamenti del paesaggio antropologico, geopolitico e culturale deve influenzare lo studio della serialità nella stessa misura in cui quest’ultimo può proporsi come metodo per uno sguardo che interroghi i processi di mediazione che a questi mutamenti danno forma.
Ma se questo è possibile, e il libro ce lo ricorda in tutte le pagine, lo si deve all’importanza attribuita al momento analitico come strumento di comprensione e presupposto fondamentale della critica, al di là della disciplina di riferimento che si sceglie di adottare. È nell’analisi infatti che si possono gestire insieme il micro (il dettaglio) e il macro (il sistema nel quale un’opera si inserisce). Si tratta di un orizzonte metodologico e teorico che ha innegabilmente subito un parziale accantonamento negli studi culturali contemporanei, ma è proprio nella complessità che dimostra la sua efficacia ermeneutica.
I serial studies, se così si possono definire, possono allora diventare quel luogo di elaborazione di spunti diversi capace di forgiare una strumentazione complessa per affrontare il presente. Perché, come ormai abbiamo capito, il mondo della serie non finisce nei supporti e nelle piattaforme che abbiamo scelto per vederle, né nei processi produttivi stratificati che danno loro forma, ma attraversano i confini, tutti i confini, per abitare il mondo.
Riferimenti bibliografici
R. Eugeni, La condizione postmediale. Media, linguaggi e narrazioni, La Scuola, Brescia 2015.
A. Grasso, C. Penati, La nuova fabbrica dei sogni. Miti e riti delle serie tv americane, il Saggiatore, Milano 2016.
A. Maiello, Mondi in serie. L’epoca postmediale delle serie tv, Pellegrini, Cosenza 2020.
J. Mittell, Complex TV. Teoria tecnica dello storytelling della serie tv, a cura d F. Guarnaccia e L. Barra, minimum fax, Roma 2017.
G. Tagliani, Homeland. Paura e sicurezza nella Guerra al Terrore, EE, Roma 2016.
Nicola Dusi, Giorgio Grignaffini, Capire le serie TV. Generi, stili, pratiche, Carocci, Roma 2020.