L’eco di questa cinquantacinquesima edizione del Festival del teatro Greco di Siracusa è destinata a durare, non solo per l’ennesimo record di presenze ma per la perentorietà del tema – Donne e guerra – e per l’audacia dell’impronta registica di Davide Livermore.

Al debutto nella cornice spettacolare della cavea siracusana, il talentuoso artista torinese si è presentato con piglio e convinzione, impostando da subito la direzione del cast e l’invenzione dei segni della scena verso una eterodossa fedeltà al testo, declinata attraverso una imponente architettura visiva (al cui effetto concorrono la superficie d’acqua che occupa interamente il palco, il grande schermo che abbraccia il retro della skenè, la texture dei costumi di Gianluca Falaschi) e una rarefatta drammaturgia sonora, creata ad arte da Andrea Chenna.

Abituato a orchestrare parole, voci e spazi Livermore si è messo in ascolto del copione euripideo sulla scorta del celebre adagio monteverdiano («L’armonia al servizio della poesia») e ha trasformato l’intermittenza stilistica dell’Elena nell’occasione per riannodare i fili dell’imagery operistica con gli archetipi del mito, secondo un principio di straniamento insito già nell’originale (bastino in tal senso le considerazioni del traduttore Walter Lapini: «L’ingranaggio teatrale è perfetto nei suoi incastri e giunture: scorrevole, brillante, movimentato; poco tragico, si direbbe, data la nostra abitudine ad associare il tragico con l’idea di cupezza», Lapini 2019, p. 77).

L’«aria di commedia» (ibidem) che circola all’interno dell’opera ha in certa misura autorizzato la manovra di détournement con cui Livermore ambienta lo spettacolo nelle pieghe di un Settecento neoclassico, invaso dalle insegne dell’antico e votato al recupero di una allure culturale capace di mescolare registri diversi; del resto, come lui stesso dichiara nel corso di un’intervista: «Lo spettacolo è ambientato in una Londra pre vittoriana. Perché?»: «A Londra, al British Museum, c’è più Grecia che ad Atene. E poi gli spettacoli non sono documentari storici. Volevo ricreare un’atmosfera neoclassica, periodo in cui l’Occidente si riappropria della cultura antica» (Livermore 2019).

Lo slittamento cronotopico messo in atto, lungi dal determinare una deriva di “cattivo gusto” (questa in sintesi la lettura apocalittica di Franco Cordelli), fa scivolare il quadro registico verso i toni di una intrigante coloritura «camp», nella quale i coefficienti scenici tendono verso obiettivi precisi: rendere visibili le “giunture” e gli intervalli fra un episodio e l’altro (sia rispetto ai passaggi di stile sia in riferimento alle diverse temperature emotive dei personaggi), sottolineare il carattere artificioso del plot di Euripide, a partire dalla estremizzazione del tema del doppio (individuato da Massimo Fusillo come matrice del testo), che si fa orma luccicante grazie all’iperbole del palco invaso dall’acqua. Come nota molto acutamente Daniela Sessa, l’acqua rappresenta l’elemento chiave del disegno di Livermore, «lo spazio liquido dei frammenti di memoria di Elena» (Sessa 2019), e così la sua superficie mobile assorbe i movimenti degli attori e restituisce il carattere cangiante del loro destino.

Per cogliere fino in fondo l’effetto di risonanza di questo luogo metamorfico Livermore e il sound artist Andrea Chenna trasformano la distesa in «oggetto sonoro» (Pitozzi 2018, p. 25) liberando, attraverso un sofisticato sistema di filtri e sensori, una profonda intensità espressiva. La musica dell’Elena assume una connotazione diffusa in cui il «suono, come una nuvola, evapora e si disperde in ogni punto dello spazio» (ivi, p. 23). A rafforzare l’impressione di un’audace partitura sonora ci pensa la qualità dei brani ri-utilizzati (di Mozart, Bellini, Ravel, Emerson Lake e Palmer e così via), che assorbiti nelle loro multiformi architetture sonore (di passacaglia, di fandango, di valzer, ecc.), sono coreograficamente illustrati da un coro danzante che produce un sorprendente incrocio di codici prossemici: in bilico fra decoro regale e divertito gioco di corte, tutti si muovono con grazia, con gesti e passi stilizzati che a momenti tradiscono il miraggio di una festa sensuale e irraggiungibile.

La natura fantasmatica e spettrale della protagonista investe ogni segmento compositivo e rilancia l’idea di una regia “demiurgica”, nella quale – senza alcuna ambizione filologica – si cerca di ricreare il pensiero di un’opera d’arte totale. Partecipa della stessa tensione lunare il discorso visivo “allestito” da D-Wok, al quale il regista affida una sorta di contro campo in grado di rendere palese l’indecidibilità dell’azione, il suo tratto discontinuo determinato dall’eccesso di Elena, dal suo essere già oltre l’arco della storia. Il volto in primissimo piano della protagonista, incorniciato da una folta coltre di capelli bianchi, proietta il raggio della performance al di là della linea del tempo, in un sovramondo enigmatico e indistinto.

Attraverso il misurato impiego della voce mentale, che scardina i corpi dalla relazione con lo spazio circostante, Livermore non solo insinua il dubbio che tutto ciò che accade sia solo la proiezione di una mente alterata ma giunge perfino a pre-figurare l’inattendibilità dell’happy ending tramite sovrapposizioni e dissolvenze incrociate, che ribadiscono lo statuto incerto della rappresentazione. Se da un lato l’ossessiva iterazione sullo schermo di immagini di onde marine e nembi può indurre a scoperte analogie, l’uso del volto di Elena/Laura Marinoni (efficace in scena a incarnare le controverse pulsioni di una donna in guerra con il proprio nome) rivela una particolare sensibilità verso una dimensione auratica e con essa verso una provocatoria dialettica fra persona e personaggio.

La ambigua tessitura di questa Elena “post-mélo” richiama dunque alcuni dei principi estetici del camp, che consentono di inquadrare le scelte del regista nell’ottica di un sentire eccentrico ma non volgare, che esibisce la propria teatralità e invita ad “accordare” lo sguardo al vortice di una visione “straniata”. Se per Massimo Fusillo il camp non va confuso con il kitsch, la regia di Livermore non scaturisce da uno scardimento ma «dal successo nel trattare il serio come frivolo (e viceversa)» (Fusillo 2009, p. 158). Il dispositivo spettacolare si fonda su una strategia retorica evidente, che supera «ogni opposizione fra autentico e inautentico, superficie e profondità, contenuto e forma, serio e comico, sfidando copia e originale» (ibidem).

A tale oscillazione si aggiunge la «convertibilità fra “uomo” e “donna”, “persona” e cosa”» (Sontag 1967, p. 253): la performatività propria del camp sembra all’origine dell’idea di ribaltare il genere dei messaggeri e del coro per rafforzare il principio della rifrazione fantasmatica. Pur non trattandosi di una soluzione originale, le attrici-messaggero e il coro di attori in abiti femminili immettono dentro il perimetro della scena una feconda vibrazione queer, che contribuisce ad accendere l’atmosfera e a riproporre il tratto ibrido della scrittura euripidea. L’apoteosi del «Popcamp» (cfr. Cleto 2008) si consuma nel momento dell’apparizione dei Dioscuri, vestiti come scintillanti creature glitterate, e si prolunga nel rito dei saluti, quasi uno spettacolo nello spettacolo, caratterizzato dalla rimediazione della forma del tableau-vivant e da un insistito recupero della grafia di David LaChapelle.

Gli abiti, le luci e la tassonomia di pose del coro rinviano all’orizzonte figurativo del fotografo americano, la cui poetica sembra sovrascrivere l’atmosfera di questa grottesca tragedia dell’apparire: la dimensione surreale degli scatti più noti dell’artista, l’indulgenza verso le insegne della società postmoderna, la vertigine abissale di opere come The Deluge consegnano agli spettatori tracce di un immaginario polimorfico, che intreccia sacro e profano, gravità e spirito ludico rinnovando la metafora barocca della vita come teatro. Come nelle superfici patinate di LaChapelle, l’Elena camp di Livermore ci ricorda negli ultimi istanti dello spettacolo che non c’è alcuna distanza fra apocalisse e miracolo, fra merci e illusione mentre solo il travestimento del reale può liberare l’energia rimossa di ogni archetipo.

Riferimenti bibliografici
Euripide, Elena, con interventi di A. Calbi, D. Livermore, G. Falaschi, A. Chenna, M. Rubino, W. Lapini, INDA, Siracusa 2019.
M. Fusillo, Estetica della letteratura, il Mulino, Bologna, 2009.
Livermore a Siracusa, intervista a cura di S. Antonucci, «il Messaggero», 19 aprile 2019.
E. Pitozzi, Immagini sonore. La scena contemporanea e le sue forme, in «Culture teatrali», 27, annuale 2018.
D. Sessa, Elena di Euripide (in versione postmoderna), «Barbadillo», 10 maggio 2019.
S. Sontag, Note su «Camp», in Ead., Contro l’interpretazione, Mondadori, Milano, 1967.
F. Cleto, a cura di, PopCamp, numero monografico di «Riga», 27, 2008, II voll.

* Le immagini presenti nell’articolo e in anteprima sono foto di Franca Centaro

Share