Questi sono anni warburghiani – forse in più di un senso, se ci riferiamo anche all’epoca in cui lo studioso tedesco visse e studiò, testimone di tensioni politiche e sociali crescenti e della violenza sempre più tangibile in Europa (che esplose poi nella Prima guerra mondiale). Sono anni warburghiani soprattutto perché il lavoro del geniale studioso amburghese è da diverso tempo oggetto di studi e ricerche all’interno di campi del sapere non necessariamente limitati alla storia e alla teoria dell’arte. Warburg viene ripreso e studiato oggi per ricercarne l’originaria fecondità teorica, per indagare la potenza del suo pensiero sulle immagini. Importanti mostre a Berlino, Bonn e Amburgo tra il 2020 e il 2021 hanno lavorato su quella grande macchina teorica ed estetica che è l’Atlante delle immagini Mnemosyne (il Bilderatlas), mostrando come il progetto di Warburg non aveva ancora raggiunto una forma definitiva al momento della morte del suo autore e ideatore, anzi. Negli ultimi anni di vita, Warburg e i suoi collaboratori avevano sviluppato diverse versioni dell’Atlante delle immagini, creando nuovi pannelli, modificando i precedenti, ipotizzando diverse connessioni tra le immagini. Il principio dell’Atlante restava in ogni caso lo stesso: ipotizzare una storia e una teoria delle immagini fatta di circuiti, connessioni improvvise, salti, ritorni improvvisi e intempestivi. Su grandi pannelli neri sono agganciate riproduzioni fotografiche di opere d’arte (ma anche cartoline, foto, francobolli, mappe, disegni), che sono disposte in modo tale da permettere allo sguardo dello spettatore connessioni sempre nuove, non scontate.
L’Atlante non ha una versione definitiva quindi, sia per la morte improvvisa di Warburg nel 1929, che ha interrotto il lavoro di messa a punto del progetto, sia perché forse è la stessa sua natura di macchina generatrice di connessioni e montaggi a impedire che si possa arrivare ad una versione ultima. Le immagini non cessano di rivelare connessioni con altre immagini, non smettono di rivelarsi come potenti ricettacoli di tempo: l’Atlante delle immagini è dunque in costante trasformazione. È anche per questo motivo che la mostra Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini (Gallerie degli Uffizi, 19 settembre –10 dicembre 2023), si presenta come un’occasione preziosa di riflessione sulla fecondità del pensiero dello studioso tedesco, e su quel dispositivo critico e teorico delle immagini che è il Bilderatlas.
La mostra infatti si dipana lungo alcune delle sale del museo fiorentino, presentando alcune delle tavole dell’Atlante più strettamente legate a Firenze (“sono ebreo di sangue, amburghese di cuore, fiorentino nell’anima”, amava dire Warburg) e alle opere presenti all’interno degli Uffizi. Il visitatore del museo incappa in alcune sale che raccolgono i materiali warburghiani: alcune lettere scritte durante i lunghi soggiorni fiorentini, taccuini e materiali di lavoro, appunto le tavole (la 77, 43, 28-29 e molte altre) dell’Atlante che riprendono e rimontano le opere di artisti toscani o presenti all’interno delle Gallerie degli Uffizi. Ma non si tratta solo di omaggiare il rapporto profondo che legò Warburg a Firenze, dove passò diversi anni della sua vita. Un primo scarto, forse più evidente, o più ovvio, inizia a farsi notare dal visitatore: alcune delle opere le cui riproduzioni, integrali o parziali fanno parte dei materiali dei pannelli del Bilderatlas sono lì accanto, o lì vicino, o raggiungibili in quella o in altre sale del museo. Si tratta allora di un ritorno all’origine? Lo spettatore ritrova il vero senso dell’opera passando dalla riproduzione fotografica all’originale? Trovarsi di fronte le opere originali del Ghirlandaio, di Bernardo Buontalenti, di Botticelli, di Paolo Uccello implica un movimento di ritorno al senso compiuto dell’opera? L’aura dell’opera spazza via ogni riproduzione tecnica? La risposta è no.
L’operazione che la mostra suggerisce è un’altra. Le opere originali non sono necessariamente vicine alle tavole warburghiane: a volte sono in altre sale, spesso sono accanto ad altre opere che creano nuove connessioni. Le sale disseminate lungo il museo che contengono le varie parti della mostra warburghiana diventano allora dei luoghi (delle “camere”) a partire dalle quali, rileggere, ripensare, rivedere i gesti, le forme, i movimenti congelati che si riflettono nelle pose, nelle vesti, negli sguardi dei soggetti dipinti, disegnati o scolpiti. Lo scopo della mostra allora inizia a definirsi: l’esposizione non conserva in un luogo la memoria di un autore, di un evento, di un rapporto (Warburg e Firenze), ma moltiplica le possibilità di lettura e di azione della macchina generatrice di forme e rapporti tra le immagini che è il Bilderatlas. Le gallerie degli Uffizi possono allora diventare nuovi spazi per costruire rapporti, per mostrare connessioni, salti e cortocircuiti tra le immagini.
I gesti, le forme, i movimenti non appartengono ad un tempo definito, ma si moltiplicano, ritornano come fantasmi dal passato, non cessando mai di ricrearsi; questa la grande intuizione warburghiana. Dunque il movimento delle immagini non può essere soltanto retrospettivo, non può solo guardare all’indietro. Esso devo anche svilupparsi in avanti, creando costantemente nuove connessioni. Ed ecco allora la sala della Niobe, una delle più suggestive degli Uffizi, dove è conservato uno dei gruppi marmorei più affascinanti della collezione fiorentina (molti dei Medici erano grandi appassionati di arte antica, a partire da Cosimo I): un gruppo di copie romane di originali greci che raccontano la storia dell’uccisione dei figli di Niobe, colei che, in un gesto radicale di hybris, dichiarò di essere una madre migliore di Latona. Per tutta risposta, la titanide madre di Apollo e Artemide fece uccidere i sette figli e le sette figlie di Niobe. Il gruppo scultoreo, che scorre lungo le quattro pareti della sala è ora collegato ad altre immagini, che nascono dalla mostra warburghiana. I gesti congelati nella pietra dei figli di Niobe colti nell’attimo della morte atroce – ognuno raffigurato nell’atto di muoversi, di tentare la fuga, o con l’espressione disperata di chi sta per morire – costruiscono un corto circuito straordinario con le immagini-movimento create da Alexander Kluge per la mostra. Kluge realizza un’istallazione composta da tre schermi le cui immagini scorrono in contemporanea. In ognuno dei tre schermi il flusso delle parole e delle immagini costruisce una serie di commenti visivo-sonori ad alcune tavole del Bilderatlas, riprendendole e ampliandole in ulteriori montaggi e cortocircuiti. L’immobilità del gesto congelato delle statue della sala esplode nelle immagini in loop del regista tedesco. Si rende tangibile il secondo movimento della mostra, che procede non quindi solo con lo sguardo rivolto verso il passato, ma si proietta, letteralmente, in avanti, verso una contemporaneità che di fatto ha proseguito con nuovi media la ricerca warburghiana, moltiplicando e ripensando gli archivi, i raccordi e i montaggi tra le immagini.
Come di fatto lo stesso Warburg ha fatto nel corso del suo lavoro: ecco comparire, tra i materiali, alcune foto scattate in Italia dallo studioso, come la foto della Ninfa di Settignano (1898), una donna che passa davanti all’obiettivo in una strada della piccola frazione fiorentina. Un altro corto circuito colpisce allora l’occhio dello spettatore/visitatore della mostra. L’apertura tecnologica e mediatica verso nuovi dispositivi (come era la fotografia nella seconda metà dell’Ottocento) può continuare con altre forme, mescolando formati e strumenti. Compaiono, insieme ad opere rinascimentali, gli schizzi a carboncino di William Kentridge su carta riutilizzata, che riprendono le pose di Anna Magnani morente in Roma città aperta, o il cadavere straziato di Pasolini all’Idroscalo di Ostia il 2 novembre 1975. Immagini contemporanee che però diventano sacre, o si scoprono sacre, eccedenti, estatiche: come un altro disegno che riprende l’estasi di Santa Teresa del Bernini, che non a caso Ejzenštejn aveva individuato come pura potenza del movimento estatico, prima ancora del cinema. Circondata da dipinti, disegni, schizzi di epoche diverse, appare, circonfusa di luce, un’opera particolare l’immagine di un homeless accasciato su un marciapiede. È un’opera di Joan Fontcuberta, in realtà costruita attraverso migliaia di foto di Instagram, che come tessere di un enorme mosaico compongono l’immagine. La contemporaneità si colloca all’interno del percorso aperto da Warburg, molto più di quanto si potesse inizialmente immaginare. Piccoli cortocircuiti in fondo, aperture ad un ripensamento contemporaneo dei concetti chiave del percorso di Warburg e, soprattutto, di quella grande macchina del montaggio che è l’Atlante delle immagini. Le aperture al contemporaneo potevano essere di più, così come la disseminazione delle immagini warburghiane avrebbe potuto disseminarsi ulteriormente all’interno di un museo vasto come gli Uffizi, ma sono rilievi di poco conto. Quello che importa è che la mostra ha la capacità di mettere in gioco e in questione le due parole chiave che la fondano: L’Atlante e il Museo.
L’Atlante e il museo. Due spazi fisici e due luoghi dell’immaginario che sembrano non potersi incontrare, perché troppo differenti per principio, per essenza. Eppure due luoghi/spazi che hanno in comune l’obiettivo di ripensare il potere delle immagini, di qualsiasi tipo esse siano. L’originalità della mostra sta dunque in questo doppio movimento, quello che rende conto delle molteplici temporalità di ogni immagine e che in un certo senso rilancia l’idea di un museo come spazio aperto e non determinato da epoche, correnti e scuole. È ancora più forte allora la scelta di questo percorso, di questo doppio movimento delle immagini all’interno di un museo come gli Uffizi, che tradizionalmente nell’immaginario è legato alla grande arte rinascimentale toscana e fiorentina e alla stuatuaria romana, ma che qui si apre ad una nuova prospettiva, quella di trasformare potenzialmente ogni sala, ogni spazio, in una camera del tempo, come in fondo erano le tavole del mai finito Atlante Mnemosyne.
Camere con vista. Aby Warburg, Firenze e il laboratorio delle immagini, a cura di Costanza Caraffa, Marzia Faietti, Eike Schmidt, Bill Sherman, Giovanna Targia, Claudia Wedepohl, Gerhard Wolf, Gallerie degli Uffizi, 19 settembre – 10 dicembre 2023.