Bros, ovvero “brothers”, fratelli poliziotti uniti nel giuramento a una divisa e nell’obbedienza agli ordini che vengono impartiti. Uniti per eseguire qualsiasi comando, anche ingiusto e disumano, contravvenendo a quel principio di libero arbitrio e di imputabilità dell’azione sui cui si fonda la condanna ai nazisti al processo di Norimberga. Una sentenza che definisce come ogni soggetto, anche se sottoposto al dominio metafisico della legge a cui ha prestato giuramento, ha il dovere di disobbedire a ciò che ritiene essere un ordine ingiusto.
Ogni esecuzione è in primo luogo affermazione di una volontà imputabile al soggetto, che non può nascondersi dietro l’alibi della prescrizione e del suo presupposto trascendente. Ogni “brother” presuppone dunque un “father” che, esercitando la sua autorità, lo rende comunque autonomo nell’eseguire o meno la sua disposizione, inscrivendola nell’orizzonte indipendente dell’arbitrio e della sua facoltà di essere o non essere tale. È il principio che indica il confine tra l’autorità e il soggetto nelle società moderne, a partire da Norimberga, che però è del tutto assente in Bros, lo spettacolo di Romeo Castellucci andato in scena al Teatro Argentina di Roma.
L’idea di base dello spettacolo, come scritto nella brochure consegnata a ogni spettatore prima di entrare in sala, è infatti molto semplice: in scena non ci sono attori ma persone comuni vestite da cops americani che hanno fatto il giuramento di eseguire qualsiasi comando gli venga impartito attraverso degli auricolari. Non devono far altro che quello, senza reagire a eventuali provocazioni del pubblico o qualsiasi altra cosa possa accadere di imprevisto. Hanno semplicemente il dovere di obbedire.
Per un’ora e mezza commettono torture (assistiamo a una pratica di waterboarding simulata), picchiano selvaggiamente con i bastoni, si uniscono formando pose plastiche con i loro corpi intrecciati, scendono persino in platea minacciando velatamente di aggredire gli spettatori. Poi, colti da un attacco collettivo di epilessia, stramazzano a terra uno dopo l’altro.
Ma il loro agire eccede e universalizza, in qualche misura, la maschera di poliziotti che li rende così ostentatamente riconoscibili. La loro infatti è una “rappresentazione” comandata e violenta (che è anche una grande metafora del teatro) in cui trova forma l’esito tecnico dell’intera storia della cultura occidentale, che Castellucci simboleggia attraverso le numerose immagini fotografiche mostrate in scena (da un primate a Samuel Beckett, passando per le colonne corinzie di un tempio) o i rimandi all’iconografia pittorica con cui dispone la prossemica dei corpi (da Rembrandt a Michelangelo).
C’è poi il rumore assordante di una serie di macchine tecniche di controllo (microfoni, radar) che ruotano su loro stesse emettendo suoni con cui si apre lo spettacolo. O ancora i poliziotti che imitano un idolo umanoide e venerano una macchina ad acqua da cui sono emessi suoni elettrici come fosse una sorta di organo. Una violenza rivolta a se stessi o esercitata nei confronti di un vecchio uomo vestito in abito bianco da profeta con un bastone, emblema di un’astrazione umana religiosa e arcaica, che nelle battute iniziali si rivolge al pubblico in un lungo monologo incomprensibile. Fino a quando nel finale consegnano il manganello di servizio a un bambino che deve tragicamente farsi carico di quel destino violento e disumano, annullando definitivamente ogni possibile respiro di umanità autentica.
La riflessione heideggeriana di Castellucci sull’esito violento della tecnica intesa come culmine dell’intera storia metafisica occidentale, che si impianta in modo complesso su un’umanità sempre più elementare, trova in Bros la sua visione più lucida ed esplicita. Privo di qualsiasi mediazione drammaturgica o letteraria, da Tocqueville a Schönberg, ancora presente in spettacoli come Democracy in America e Go Down, Moses, tutto in effetti è molto chiaro, di grande impatto espressivo ed emotivo come Castellucci ci ha abituati.
Ci sono però due aspetti completamente assenti da questo spettacolo, che consegnano alla sua ritualità vertiginosamente claustrofobica una deriva nichilistica e rischiano di mandare in affanno l’intera operazione. In primo luogo, la dimensione redentiva dell’azione e del linguaggio, che era capace di portare a sintesi questa grande dialettica scenica che, già in passato, Castellucci era stato in grado di costruire in suoi spettacoli memorabili. A partire dal Parsifal di Wagner, costruito mirabilmente sull’incontro tra umano e tecnica rispettivamente del mondo del Graal e di quello di Klingsor, portata a sintesi nell’umanità progressiva in movimento sulla piattaforma del terzo Atto. Oppure nello straordinario Giudizio, possibilità, essere, in cui la potenza genitiva e veritativa della poesia di Hölderlin era in grado, pur problematicamente, di rovesciare il dispositivo annichilente del linguaggio, di ogni Gestell che condanna l’umano a una posizione rassegnata o messianica.
Secondo: qui, come altrove, per Castellucci la tecnica non è portatrice di alcuna istanza emancipativa. La sua riflessione, in questo senso, è molto poco dialettica perché non riconosce nei dispositivi tecnici quel punto di convergenza tra istanze oppressive e il loro possibile rovesciamento all’interno di un processo di affrancamento (si pensi, per restare al teatro, a Rau). In questo modo la sua eccezionale macchina teatrale rischia di inabissarsi in un’ontologia del nulla, nell’angoscia come limite metafisico di ogni prassi umana, in una ritualità puramente dissimulata. Quando in realtà, come dimostrano esperienze centrali e liminari del nostro tragico mondo, le prassi tecniche possono e devono salvare quel briciolo di umanità che c’è rimasta. Solo attraverso la tecnica l’uomo è in grado di rovesciare l’abisso disumano a cui la tecnica stessa ci ha condannato. Solo la tecnica, in altre parole, può liberare spazi di umanità astratta, perennemente in pericolo, in cui al soggetto è concesso di riannodare il proprio nesso con la vita. È un elemento cruciale che il teatro di Castellucci deve cominciare a considerare.
Bros. Regia e concezione: Romeo Castellucci; collaborazione alla drammaturgia Piersandra Di Matteo; assistente alla regia Silvano Voltolina; scrittura degli stendardi Claudia Castellucci; interpreti: Valer Dellakeza, Luca Nava, Sergio Scarlatella, Giovanni Antonini, Filippo Braucci, Sandro Calabrese, Sergio Casini, Davide Cherstich, Nicola Ciaffoni, Marcello Di Giacomo, Stefano Donzelli, Gabriele Ferrara, Francesco Gentile, Damjan Gomisel, Pietro Lancello, Alessandro Mannini, Mauro Mercatali, Michele Petrosino, Lorenzo Picca, Danilo Rubcich, Nicolas Sacrez, Piergiorgio Maria Savarese, Fabio Sinnona, Carlo Suppressa, Andrea Vellotti, Vincenzo Vennarini, Luigi Vilotta, Filippo Fermini; musiche: Scott Gibbons; tecnico luci Andrea Sanson; tecnico del suono Claudio Tortorici; responsabile costumi Chiara Venturini; sculture di scena e automazioni Plastikart studio; realizzazione costumi Atélier Grazia Bagnaresi; direttrice di produzione Benedetta Briglia; promozione e distribuzione Gilda Biasini; produzione e tour Giulia Colla; durata: 90′; anno: 2023.