Il nucleo autoritario del moderno e dell’umano

di LUCA MICALONI

Breve profilo storico-teorico del rapporto tra teoria critica francofortese e psicoanalisi.

Qui l’introduzione di Giorgio Fazio allo speciale dedicato ai 100 anni della Scuola di Francoforte.

Herbert Marcuse

Herbert Marcuse (William KAREL/Gamma-Rapho via Getty Images)

Nel corso delle sue diverse stagioni, l’esperienza di “teoria critica” legata all’Istituto per la ricerca sociale di Francoforte ha teorizzato e interrogato con una certa costanza la connessione tra le forme della socializzazione e le forme della soggettivazione, sviluppando ipotesi di cooperazione tra la riflessione sulle strutture e sulle pratiche economico-sociali e l’indagine della composizione psichica degli agenti. L’esigenza di integrazione psicologica della teoria sociale critica si è rivolta primariamente – sebbene non esclusivamente – alla psicoanalisi, in virtù di un comune orientamento al “sospetto” nei confronti della superficie apparente delle cose. In questa prospettiva, tanto il Sé quanto la società sono stati sottoposti a un vaglio critico che, pur con intenti e accenti differenti, ha mirato a far luce sul rimosso dei fenomeni, sugli esiti patogeni del processo storico, sulla “vita offesa” degli individui come singoli e degli individui in relazione.

A questo impiego della psicoanalisi come ausilio descrittivo si è affiancato il coinvolgimento della psicoanalisi come risorsa “normativa”, che forse definisce più di altri elementi la peculiarità dell’accostamento francofortese alla psicoanalisi e ne rappresenta l’aspetto più lontano da altri paradigmi di filosofia e teoria sociale contemporanea. Il bisogno di far poggiare la critica su un criterio, a un tempo dotato di validità razionalmente giustificabile e radicato nella realtà effettuale, ha condotto la Teoria critica a rivolgersi, secondo i casi, alla critica marxiana dell’economia politica, ai presupposti formali della pragmatica del linguaggio, al “potenziale” depositato nelle concrezioni giuridiche e istituzionali dell’epoca moderna. In risposta a questa esigenza, la psicoanalisi è stata a più riprese mobilitata come repertorio di conoscenza dell’umano dal quale ricavare i lineamenti di una soggettivazione e di una socializzazione “ben formate”.

Così per Habermas la psicoanalisi è valsa come esempio scientifico eminente della vigenza di un interesse fondamentale della specie umana alla riflessione critica su di sé e all’emancipazione; ma anche come campo in cui si rendono visibili disturbi della comunicazione, che rinviano all’implicita anticipazione di una situazione discorsiva ideale – e nei quali, contrariamente alla pretesa ermeneutica di conoscere il senso oltre i disturbi, ciò che è più rilevante è il senso simbolicamente condensato dei disturbi stessi e della loro produzione sistematica. Così per Honneth la psicoanalisi – in particolare la visione delle relazioni oggettuali sviluppata, con varie sfumature, dal gruppo britannico dei post-freudiani “indipendenti” – ha supportato l’esplorazione della grammatica profonda dei conflitti sociali, ricondotta a schemi di simbiosi e individuazione appresi nella prima infanzia e trasferiti nelle mature relazioni di gruppo; ma ha anche permesso di definire i requisiti di legami di gruppo non patologici, nonché di indicare nella libertà dall’angoscia e nella fluidità del rapporto con il proprio mondo interno i requisiti essenziali per l’esercizio di una cittadinanza democratica compiuta. Se l’interesse della Teoria critica per la psicoanalisi dura tuttora (cfr. Allen, O’Connor 2019; Allen 2020), il centenario della fondazione dell’Institut für Sozialforschung è occasione per volgere lo sguardo alle origini di questa sinergia.

Ancora nei primi decenni del Novecento era rimasto sostanzialmente non chiarito, entro il quadro teorico dei marxismi, in che modo le dinamiche strutturali legate al modo di produzione determinassero gli sviluppi nella dimensione sovrastrutturale, e in che modo la vita della sovrastruttura retroagisse sull’assetto della struttura, consolidandolo o promuovendone la trasformazione. Come caso specifico di questo tema generale, era di particolare rilievo il problema concernente la genesi della volontà trasformativa rivoluzionaria. L’idea che la società capitalistica fosse destinata a produrre, in forza delle sue leggi di tendenza, il becchino chiamato a seppellirla, e la fiducia nel fatto che il proletariato industriale, educato alla scuola della fabbrica, fosse in grado di costituirsi come forza capace di dar luogo a un rovesciamento pratico dello «stato di cose presente», apparivano storicamente falsificate dalle inesaurite capacità di ristrutturazione di un capitalismo impegnato nella transizione da una fase liberale a una fase “organizzata” e monopolistica, stabilizzata sul terreno sociale, politico e giuridico da un autoritarismo di massa, operante in forma pienamente dispiegata nel fascismo, latente e tendenziale nelle società democratiche liberali.

Nelle intenzioni del «materialismo interdisciplinare» progettato da Max Horkheimer quando all’inizio degli anni ’30 subentrò a Carl Grünberg nella direzione dell’Istituto, il coinvolgimento della psicoanalisi nella teoria sociale serviva tanto allo scopo generale di individuare le «mediazioni psichiche» tra struttura e sovrastruttura, quanto allo scopo ristretto di reagire al fallimento politico della coscienza di classe attraverso l’indagine della costituzione inconscia dei soggetti sociali. La psicologia di massa, nata come razionalizzazione scientifica del minaccioso dinamismo sociale delle classi inferiori e come bacino di conoscenza messo a disposizione delle tecniche di governo, divenne così strumento dell’autoanalisi di un movimento rivoluzionario posto dinanzi al proprio arretramento strategico. O, per meglio dire, di un’analisi riferita al movimento rivoluzionario, ma conservata in piccoli gruppi o perfino soltanto in singoli individui: a giudizio dei francofortesi, infatti, nella Germania degli anni ’30 l’organicità dell’intellettuale al compito dell’emancipazione non poteva che implicare la sua disorganicità rispetto alla “situazione psicologica” del soggetto collettivo, che la teoria era chiamata a contraddire piuttosto che a ratificare e sistematizzare.

L’indagine francofortese in questo periodo ruota attorno a due domande fondamentali. Primo, quali forze psichiche stanno alla base dell’efficacia sociale delle ideologie. Secondo, quali dinamiche fanno sì che i dominati accettino di buon grado, subiscano passivamente o addirittura contribuiscano attivamente a riprodurre una forma di dominio sociale che viola apertamente i loro interessi e li costringe a traiettorie di vita mortificanti. La psicologia psicoanalitica delle masse, ricalibrata come psicologia delle classi sociali, deve cioè contribuire a spiegare la riproduzione sociale, e in particolare applicarsi al caso del sostegno, in certa misura trasversale, riscosso dai regimi autoritari. L’adesione entusiastica, ma anche la semplice debolezza e disorganizzazione delle capacità di resistenza, trovano riscontro nella presenza di una disposizione sadomasochistica che fornisce sostegno pulsionale al fascino dell’autorità e spiega sul piano psicologico l’enigma costituito dal fatto che ciascuno ama e replica il potere che lo soggioga.

Scorrendo le pagine degli Studi sull’autorità e la famiglia è possibile notare che, mentre affermano queste tesi, i teorici di Francoforte già ne avvertono l’obsolescenza. In che misura, si domandano, è ancora possibile applicare al capitalismo monopolistico una psicologia modellata sul capitalismo liberale e su istanze in via di dissoluzione, cioè sull’autorità paterna come termine di identificazione e conflitto e sulla famiglia come istituzione o «agenzia psicologica» mediatrice tra singolo e società? La risposta, affermativa, si fonda su una sostanziale riedizione dell’adagio marxiano riguardante il diverso ritmo evolutivo della struttura e della sovrastruttura, cioè sulla tesi secondo cui il mutamento delle funzioni sociali e dello spettro di possibilità d’azione di individui e gruppi nel nuovo contesto economico e politico non impone in modo rapido e immediato il mutamento della loro costituzione psichica e pulsionale; in forza di questa “isteresi” delle strutture psichiche si determina un’asincronia tra individuo e società, mondo soggettivo e mondo oggettivo, che rendere ancora applicabile una psicologia sorta su un terreno storico precedente e in parte già tramontato.

Questa impostazione compromissoria non durerà però molto a lungo, anche se ispirerà i progetti francofortesi di ricerca sull’antisemitismo, fino all’indagine sulla personalità autoritaria pubblicata nel 1950. A cavallo tra anni ’30 e anni ’40 infatti il gruppo francofortese matura una articolata riflessione attorno alla “crisi dell’individuo” e alle nuove figure antropologiche, che investe e in certo modo invalida la legittimità del ricorso  della Teoria critica alla psicoanalisi, almeno nella forma in cui era stato fino ad allora praticato. La piena massificazione, l’erosione della mediazione familiare, della socializzazione primaria a vantaggio della socializzazione secondaria e delle sue agenzie (prevalentemente pubbliche nel caso dei fascismi, private nel caso delle democrazie), rende obsoleta l’applicazione teorico-sociale della psicoanalisi classica, anche se non intacca la problematica generale di una teoria della società psicologicamente integrata.

La teoria freudiana è al centro anche di una seconda, importante transizione della Scuola di Francoforte, giocata stavolta non tanto sul piano economico-politico e sociologico, come la tesi della crisi dell’individuo, ma innestata su un terreno più radicale concernente gli scopi e le conseguenze ultime della civilizzazione umana. Al tema originario – l’indagine sulla modernità come tensione ambivalente di tendenze autoritarie ed emancipative, e l’analisi caratteriale della società autoritaria – subentra con la Dialettica dell’illuminismo il tema delle conseguenze pulsionali della civilizzazione, letta come impresa di controllo della natura, pagata col prezzo della resezione della multiformità estetica e sensoriale dell’umano: una rinuncia, rinnovata in ogni infanzia e in ogni società, su cui fa ora perno l’anamnesi del «presente fascista», visto come l’esito più avanzato di una millenaria tendenza al dominio. Da questa tesi muoverà anche la ripresa freudiana operata da Marcuse, che in Eros e civiltà tenterà di definire i lineamenti di una nuova civilizzazione possibile, finalmente sottratta al suo fondamento sacrificale.

Riferimenti bibliografici
A. Allen, B. O’Connor, Transitional Subjects. Critical Theory and Object Relations, Columbia University Press, New York 2019.
A. Allen, Critique on the Couch. Why Critical Theory Needs Psychoanalysis, Columbia University Press, New York 2020.
M. Horkheimer et. al., Studi sull’autorità e la famiglia, UTET, Torino 1976.
M. Horkheimer, T.W. Adorno, Dialettica dell’illuminismo, Einaudi, Torino 2010.
H. Marcuse, Eros e civiltà, Einaudi, Torino 2001.

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