L’incipit di Bohemian Rhapsody, hit divenuto – anche in virtù della sua tessitura composita – uno dei simboli dell’estetica Queen, offre una chiave di lettura didascalica ma suggestiva per riflettere sul senso ottuso nascosto dietro il discusso biopic su Freddie Mercury. «Is this the real life»? Oppure, come recita il testo della canzone, «it’s just a fantasy»? Ma soprattutto: in che modo la voce dell’adoratissima rockstar – apparentemente reale in quanto non imitata dall’attore ma mixata con quella di Marc Martel – dialoga con immagini dichiaratamente false, costruite da Bryan Singer come una traslucida copia carbone dei materiali d’archivio?

Ogni biopic pone, a chi lo produce e lo scrive, una serie di problemi di ordine etico e storico, in quanto la storia coincide con la Storia e i suoi personaggi non sono involucri vuoti, ma corpi già duplicati in centinaia di copie disponibili nell’iconosfera. Raccontare la vita di un personaggio realmente esistito significa, innanzitutto, confrontarsi con due tipologie di memoria: la memoria dei testes, di chi – nel caso in questione – era là in un hic et nunc irripetibile come il Live Aid del 1985, e la memoria di chi, invece, le performance di Mercury le ha semplicemente ascoltate su CD o ammirate su Youtube.

In una congiuntura, la nostra, in cui la gravitas del cinema del reale sembra avere ormai spazzato via le ultime tracce dell’ironia postmoderna, il confronto con la copia originale del referente perduto è quasi sempre evitato. Si pensi ai recenti Tonya (Gillespie, 2017), L’ora più buia (Wright, 2017) o First ManIl primo uomo (Chazelle, 2018): improntato a una mimesi che, nel tentativo di soddisfare il «complesso della mummia» (Bazin), sfiora l’iperrealismo, il lavoro degli attori, dei costumisti e dei truccatori sembra teso a sostituire, nel ricordo degli spettatori, l’immagine analogica dei protagonisti, la quale è il vero oggetto della contraffazione. Non è un caso, infatti, che essa venga svelata solamente durante o dopo i titoli di coda, come una sorta di matrice segreta da nascondere. Lo spettatore crede alla storia che gli viene raccontata perché la fisionomia, l’inflessione vocale e la postura del corpo che vede agitarsi sullo schermo ricordano in modo convincente non il referente reale, ma le sue riproduzioni (fisse o mobili, non importa).

Sceneggiato da due specialisti del biopic politicamente corretto quali Peter Morgan (The Crown, serie TV, 2016-2017) e Anthony McCarten (L’ora più buia), Bohemian Rhapsody ha visto rallentare la sua gestazione per diverse ragioni, non ultime le difficoltà di casting. Una volta stabilito il partito preso da cui partire – quello di una ricostruzione idealizzata e dunque ufficiale della vita (senza morte) della star –, bisognava trovare un interprete in grado – ha dichiarato Brian May – di «non deconcentrare lo spettatore» disturbandone il processo di identificazione per mezzo di una presenza eccessivamente carismatica.

Come diceva Béla Balázs, «il regista cinematografico non deve scegliere l’interprete, ma il personaggio stesso». E così è stato fatto. Selezionato in virtù della forte somiglianza morfologica con l’originale, Rami Malek nasconde la propria inflessione californiana, visiona centinaia di volte il Live di Wembley, prende lezioni di canto e sostituisce il cappuccio di Mr. Robot con una protesi all’arcata dentale superiore, operando così una vera e propria actorly transformation.

Come spesso accade in questi casi, però, troppo vero uccide il vero e, proprio perché eccessivamente occultato, il dispositivo attoriale alla fine emerge nella sua natura artificiosa di segno. Il frontman che, frantumato dal montaggio, allarga le gambe, afferra l’asta del microfono e batte il tempo con il ginocchio destro non è l’ultracorpo reincarnato della star, ma un attore sin troppo impegnato a imitarne le improvvisate (e dunque imprevedibili) coreografie.

Per esprimere il presunto disagio provocato nel giovane Bulsara dalla protrusione dentale, l’interprete passa nervosamente e ripetutamente le labbra sopra gli incisivi, con il risultato, paradossale, di rendere la protesi – e dunque la recitazione – ancor più visibile. Com’è noto, nel progetto iniziale la parte di Mercury avrebbe dovuto essere affidata non a Malek, ma al più versatile Sacha Baron Cohen, la cui presenza però avrebbe rischiato di inquinare il filtro mitopoietico che sottende l’intera operazione. Nelle intenzioni di Cohen, infatti, era evidente la volontà di mettere a nudo il lato più oscuro della sessualità di Mercury, protetto – in vita – da un riserbo quasi assoluto.

E invece la narrazione segue i binari sicuri del romanzo di formazione, quasi a voler facilitare i fan nel ripercorrere a occhi chiusi le tappe di una parabola che si interrompe con quell’evento – l’esibizione al Live Aid – definito dagli addetti ai lavori una delle vette più alte mai raggiunte dalla band in termini di intensità emotiva. Anziché adottare il consueto registro del falsetto, per esempio, Mercury eseguì Bohemian Rhapsody con voce di petto, quasi a voler mettere a nudo il peso (e dunque la verità) di un corpo che, secondo quanto si evince da questa biografia, aveva già mostrato i segni della malattia.

Dalla scoperta del proprio orientamento sessuale all’ebbrezza per il successo, sino alla paura della morte: nei quindici anni d’arte e di vita riassunti in queste due ore c’è tutto quello che già sapevamo e nulla più, compresi evidenti errori storici e soprattutto quei cliché ricorrenti nei ritratti delle rockstar, come la presenza dell’elemento tentatore, qui incarnato dal gelosissimo manager/amante Paul Prenter (Allen Leech), e l’esaltazione dell’autenticità di un’ispirazione dai risvolti immancabilmente autodistruttivi.

Ma è proprio nei venti minuti conclusivi che il progetto dimostra tutti i suoi limiti, sancendo ancora una volta lo scacco insito in ogni tentativo di ricostruzione del reale che voglia cannibalizzare le immagini del passato sostituendole con copie digitali ad altissima (in)fedeltà. In quanto evento, la performance londinese dei Queen si era offerta alle televisioni di tutto il mondo come un testo al contempo chiuso e aperto. Nota era la scaletta delle canzoni, ma non – quanto meno nei dettagli – la coreografia che Mercury avrebbe disegnato sul palco. Le immagini d’epoca, oggi disponibili in low-fi su Youtube, sono qualcosa di non ripetibile e non riproducibile in quanto frutto di una negoziazione tra l’improvvisazione del performer, il riflesso del cameramen e la preparazione del regista.

Consapevole di non poter mummificare questo reale senza modificarlo, Singer sceglie di riscriverlo inserendo nelle maglie del découpage televisivo ciò che si nasconde dietro – e davanti – ogni evento: lo sguardo. E così i movimenti survoltati di Malek sono punteggiati dal dettaglio degli occhi di Brian May (Gwilym Lee), da cui traspaiono trepidazione e inquietudine, e dai sorrisi, misti alle lacrime, della madre di Mercury alla TV e dell’ex-compagna dietro le quinte. Pur indebolite, nella loro tensione documentaria, dalla retorica del reaction-shot, le immagini di questo “nuovo” Live Aid permettono dunque allo spettatore di recuperare, grazie agli interstizi creati dal montaggio, la possibilità di entrare in un rapporto emotivamente dialettico con uno spazio e un tempo che, senza questa operazione di riscrittura, sarebbero rimasti irrimediabilmente lontani.

Le lacrime di Mary Austin (Lucy Boynton) e di Jim Hutton (Aaron McCusker), allora, sono anche le nostre e quelle di chi, pur non inquadrato dalle telecamere, a Wembley c’era e magari oggi cerca sul grande schermo qualcosa che quel giorno non ha visto. O non ricorda. Perché «quelli», come recita il refrain di uno degli ultimi successi della band (These are the days of our lives), in fondo erano anche «i giorni delle nostre vite».

Riferimenti bibliografici
A. Bazin, Che cosa è il cinema?, Garzanti, Milano 2008. 
D. Dottorini, La passione del reale. Il documentario o la creazione del mondo., Mimesis, Milano 2018.
K. Esch, I Don’t See Any Method at All: The Problem of Actorly Transformation, in “Journal of Film and Video”, LVIII, 1-2, Spring 2006.

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