Un paio di fradici slip in pizzo rosso fuoriescono da un calice, ancora mezzo pieno, abbandonato sopra un comodino. Una donna, distesa nuda su un letto e col volto ancora pesantemente truccato, riapre gli occhi, si guarda attorno spaesata e, dopo qualche secondo, si tira su. Alle sue spalle compare un uomo, piacente e più giovane, che stiracchiandosi le dice quanto è stato bello fare l’amore insieme. A quel punto la donna, con indosso l’abitino glitterato della sera prima, quasi inorridisce e, fingendo di andare a preparare il caffè, sgattaiola via come una ladra dall’appartamento del ragazzo. Per le scale, con un click “lo blocca” e – finalmente – respira.
Le primissime immagini di Blackout Love – primo lungometraggio di Francesca Marino, prodotto da Matteo Rovere e disponibile su Prime Video – raccontano qualcosa di consueto (la confusione e l’imbarazzo del risveglio dall’avventura di una notte) e, al contempo, “poco convenzionale”, nella misura in cui sradicano una concezione fin troppo cristallizzata e anche inesatta delle dinamiche in gioco nel rapporto tra maschile e femminile. L’incipit del film, dunque, è tanto simpatico quanto chiaro e puntuale, e prepara lo spettatore ad una storia dove la prospettiva tramite cui si è soliti pensare i ruoli dell’uomo e della donna viene completamente ribaltata.
La bionda in ghingheri e in fuga si presenta, infatti, come un personaggio sui generis ed incarna, sin da subito, una femminilità altra, insolente e per nulla sentimentale, emotivamente ineducata e piuttosto convinta fautrice di una legge nuova che lei stessa definisce “rieducazione”. Ad ogni modo, il valore dell’opera – il “taglio” speciale che genera affezione nel pubblico e che rende l’accattivante davvero interessante e la visione piacevole – si rivela a poco a poco; si afferma in tutta la sua forza soltanto più tardi, quando gli eventi incalzano e riesce ad emergere la particolare natura del ribaltamento in questione.
Blackout Love racconta una storia semplice a partire da un incidente scatenante per certi versi inverosimile. Valeria (Anna Foglietta) è una quarantenne single scaltra, imperturbabile e spregiudicata. Allenatrice di pallavolo di giorno e cacciatrice seriale di sbarbatelli ingenui al calar della sera, affronta la vita a muso duro, giocando ogni partita per vincere e non ammettendo, nel lavoro come nel privato, la benché minima possibilità di una sconfitta. Ritratto della donna che basta a se stessa, detiene abilmente il controllo di qualsiasi situazione finché, però, una mattina si sveglia e trova l’ex compagno (scomparso nel nulla da un anno, dopo averla lasciata con un post-it nel giorno del loro anniversario) nella propria cucina. Marco (Alessandro Tedeschi) si è introdotto in casa sua utilizzando una chiave di scorta nascosta nel portaombrelli sul pianerottolo, la chiama “amore” e, dopo averla avvicinata affettuosamente, cade a peso morto sul pavimento.
Lo strano evento sancisce l’ingresso effettivo dello spettatore nel mondo filmico e nel micro-universo folle della protagonista. Il ritorno improvviso e non contemplato dell’uomo costituisce il motore del racconto, informando della presenza di un ghost nell’esistenza lieta della coach, e innescando una catena di accadimenti (s)travolgenti attraverso i quali la singolare ed inedita operazione di rovesciamento diventa possibile e la “sfida” autoriale si compie.
In seguito ad un incidente d’auto, a Marco viene diagnosticata un’amnesia post traumatica grave, il suo cervello ha perso temporaneamente la memoria. Pertanto, l’uomo crede di stare ancora insieme a Valeria e, per evitargli danni psichici permanenti, quest’ultima è chiamata ad assecondarlo e ad inscenare, letteralmente, una convivenza felice su richiesta del medico e della madre invadente dell’ex. Ora, se il ritorno accidentale del passato è già di per sé motivo di angoscia e profondo turbamento per la donna, il ritorno al passato è una scelta irreversibile, poiché implica il peso di una responsabilità onerosa che concerne la riattualizzazione di un trauma insuperato. Il set allestito tra le mura domestiche, la recita quotidiana da lei diretta e mal interpretata, aprono, in tal senso, un varco, un canale attraverso cui Valeria entra, guarda e scava dentro di sé, scoprendosi per la prima volta ed accedendo ad una verità sì dolorosa ma salvifica. Riaprire gli scatoloni impolverati in cui ha sigillato ricordi, risistemare ogni cosa nel luogo preciso in cui era prima, sono azioni che rientrano in un progetto terapeutico doppio. Il recupero della memoria è un processo che coinvolge la protagonista in prima persona; un percorso che non coincide solo con la presa di coscienza della separazione da parte di Marco e che consiste, al contrario, nell’approdo ad una nuova consapevolezza da parte di entrambi, nella comprensione onesta delle ragioni che hanno decretato la fine di una relazione intensa e importante.
Quando Valeria accetta di riscrivere la storia ed aiutare l’uomo da cui è stata abbandonata lo fa perché animata dalla sete di vendetta e dal bisogno di riscattare il proprio orgoglio ferito. Il suo piano subdolo prevede che sia lei, alla fine, a «schiacciare il nemico», a lasciare Marco infliggendogli il dolore da cui ancora non è guarita. Tuttavia, nell’assurdità della situazione, nella sospensione del presente, la rabbia e il rancore si svuotano lentamente di senso, creano ponti di nuovo percorribili declinando in forme sane di comunicazione. La messinscena casalinga non aderisce pienamente allo script di partenza e nello spazio della finzione irrompe, di continuo, l’essere reale (e perciò cangiante) del personaggio.
Il ritorno di Marco è un vero disastro. Le recriminazioni e le accese discussioni di coppia non tardano a ripetersi e Valeria, irrequieta come un uccellino in gabbia, si rifugia e trova conforto a casa degli amici di sempre. Durante uno dei suoi sfoghi nevrotici riceve, però, una sorta di illuminazione e capisce che, per battere l’avversario, è necessario ritardare la precipitazione degli eventi, “metterli in pausa”, dichiarare una tregua. E la tregua, in un rapporto d’amore anche solo simulato, non può che tradursi in uno schietto e aperto dialogo, in scuse e compromessi, in riavvicinamento e perdono. Valeria chiede semplicemente al proprio partner di parlare, mettendosi in ascolto e cominciando a dire, a sua volta, tutto ciò che la sua insicurezza, la sua immaturità, la sua smania di perfezione e la demonizzazione del difetto, non le hanno mai permesso di tirare fuori. Da quel momento in poi, il ritmo “nervoso” del film allora rallenta, perché si modera il passo dei personaggi, si placano gli animi e cadono le barriere difensive. Perché si annulla il tratto divisore delle differenze e si fondono, tra loro, punti di vista e modi di sentire erroneamente percepiti come inconciliabili. La macchina da presa segnala questa distensione e l’area prima angusta e parcellizzata in cui i due ex amanti interagiscono (la tenda della doccia, così come gli stipiti delle porte, li separano mentre litigano tracciando confini) si fa via via più ariosa (le plongée dei corpi abbracciati sul letto o nudi nelle acque termali).
Il confronto maturo e sincero tra Valeria e Marco apre dunque la strada alla possibilità di un altro incontro, di un altro match da affrontare ma da giocare insieme, in un tempo che non sia quello passato o quello fittizio della sua rappresentazione. È un’occasione per mettersi a nudo e (ri)conoscersi. Quando i due escono dal mondo della messinscena per rientrare in quello reale (lui comincia vagamente a ricordare) e raggiungono la casa di campagna in cui si erano visti per l’ultima volta, il proposito di Valeria fallisce. Proprio lì, in un luogo rimasto realmente identico a com’era (con tanto di post-it sul tavolo) e che dovrebbe, per questo, incoraggiare la donna a portare a termine la propria missione, la ripetizione dell’“è stato” si inceppa. La farsa smette di funzionare, il gioco delle parti non ha più ragione di esistere perché si palesa la verità del personaggio: perché il personaggio non ha più una parte da interpretare né dalla quale stare.
Per settimane, Valeria persegue l’obiettivo di «farla pagare alla merda» ma, non appena giunge il momento fatidico, la sua decisione vacilla ed è soppiantata da una strana (e fino a poco tempo prima per lei inammissibile) sensazione. Alla resa dei conti, il dubbio si insinua. E se le cose fossero andate diversamente da come credeva? Se le ragioni di Marco nel lasciarla fossero state forti e “buone” tanto quanto le sue nel tradirlo nascondendogli, investendolo di bugie e ricorrendo a sotterfugi stupidi, paure e perplessità circa la sua continua richiesta di fare un figlio? Se l’amore non fosse binario e la rivincita, poiché desiderio di prevaricazione e vittoria sull’altro, si rivelasse un’ulteriore e inconfutabile perdita? Che cos’è, vincere, se non si vince insieme?
In tempi liquidi come il nostro – segnato dall’“impegnofobia” e dal disincanto, dalla transitorietà dei legami e dall’ideologia del consumo e della strategia, dall’incomunicabilità tra i sessi e da una demarcazione netta tra “ciò che è donna” (e che quindi non può essere “uomo”) e “ciò che è uomo” (e che quindi non può essere “donna”) in termini di percezioni e codici comportamentali – quella di Marino è una lucida e coraggiosa riflessione capace di ribaltare credenze consolidate e di rivendicare il ritorno all’amore libero: l’amore che si sottrae al calcolo, che disconosce la dinamica del “questo sono io e non puoi essere tu”, che si divincola da tentativi avvilenti di eccessiva razionalizzazione e tiene a bada il pretenzioso impulso ad avere sempre la meglio e fare dell’altro (con cui si condivide il letto o anche la vita) un nemico contro cui combattere.
Il ribaltamento operato non è allora, come si evince dalla sequenza iniziale, semplicemente un rovesciamento che fa di Valeria una stronza, degli uomini che seduce degli oggetti “senza nome e senza voce”, e di Marco un poveraccio oppresso dalla sua autoreferenzialità. Il femminile non si sostituisce al maschile e viceversa nel segno di una dicotomia invertita che, comunque, si risolverebbe nell’incarnare un ruolo definito ed esclusivo e nell’abitare due zone distinte e invalicabili. Al contrario, si tratta di un annullamento sostanziale, di una cancellazione della linea di confine che comporta, di conseguenza, la riconfigurazione di eserciti e alleanze e lo spostamento del fronte. Le posizioni e gli sguardi della donna e dell’uomo si confondono, mescolano ed assimilano. La codardia e l’infantilismo indossano anche calze a rete e tacchi alti. La ricerca di conferme, la voglia di piangere, e il timore di perdere chi si ama, hanno a volte barba e spalle larghe.
Dopo essere stata di nuovo abbandonata da Marco che, scoperto l’inganno, lascia furibondo la campagna, a Valeria non resta che ripartire dalla colpa, accettando la propria naturale imperfezione e strappandosi di dosso un’immagine non conforme alla sua essenza inevitabilmente “sporca”. Il film convince, in definitiva, in virtù dell’onestà con cui getta luce sull’ombra, della leggerezza con cui neutralizza l’errore, e dell’autenticità con cui si rifiuta di occultare la macchia. Per quella presunta immediatezza franca, tipica di molte commedie, attraverso cui sa filtrare situazioni difficili senza banalizzarle. Pertanto, l’happy end che vede i personaggi deporre le armi – e, al contempo vinti e vincitori, restare – non intacca in alcun modo la credibilità di una storia graffiante, capace di farsi carico, sinceramente, del comico e del drammatico della vita.
Sarà forse per questo che, sui titoli di coda, la sensazione che si ha è quella di aver partecipato, tra le risate, ad un’esperienza catartica che dice qualcosa anche di noi, estremamente vicina alle nostre reali ed ordinarie esperienze, in grado di divertire e commuovere. Di solleticare una sensibilità femminile e maschile perché, al di sopra di tutto, umana.
Blackout Love. Regia: Francesca Marino; soggetto: Francesca Marino e Tommaso Renzoni; sceneggiatura: Francesca Marino, Tommaso Renzoni e Patrizia Dellea; fotografia: Claudio Cofrancesco; montaggio: Francesco Loffredo; scenografia: Alessandro Bigini; musiche: Matteo Nesi e Andrea Manusso; costumi: Sara Fanelli; interpreti: Anna Foglietta, Alessandro Tedeschi, Barbara Chichiarelli, Alessio Praticò, Anna Bonaiuto, Giancarlo Commare, Allegra Peluso, Maria Elena Antini, Emmanuele Aita, Dharma Mangia Woods, Flaminia Martinelli, Lorenzo Alexander, Heimo Hanig, Camilla Lazzaretti; produzione: Matteo Rovere, Paolo Lucarini, Groenlandia Group, Rai Cinema e Prime Video; distribuzione: Prime Video; origine: Italia; durata: 100′; anno: 2021.