Le forme contemporanee del (black) cinema

The new Spike Lee Joint. Rossella O’Hara attraversa in campo lungo i feriti della guerra civile in Via col vento. Stacco. Nel 1954 un leader segregazionista – il Dr. Kennebrew Beauregard interpretato da Alec Baldwin – parla in tv snocciolando teorie sulla supremazia bianca e attraversando un grande schermo che proietta Nascita di una nazione. Stacco. Il detective Ron Stallworth (John David Washington) entra in campo nei primi anni ‘70 riecheggiando Shaft con tanto di pettinatura alla Richard Roundtree.

Inizia così BlacKkKlansman: i prelievi, gli innesti e i riferimenti alla storia del cinema creano istantaneamente un tappeto referenziale che ci immerge nell’immaginario americano. Si palesa sin dalla prima inquadratura, pertanto, il cristallino discorso politico di Spike Lee: per incidere sul tessuto vivo della contemporaneità, il più celebrato regista afroamericano degli ultimi trent’anni, parte dai testi sacri del cinema classico tornando a una lettura meramente ideologica degli stessi; stacca poi sulla propaganda tv ribaltando l’immaginario pop degli anni ’50 come ereditato dagli happy days postmoderni; infine arriva agli anni ’70 della blaxploitation presentandoci il suo protagonista (interpretato dal figlio della star Denzel Washington) che si appropria finalmente dell’inquadratura. Il corpo e la voce di Alec Baldwin, però, suggeriscono un’ulteriore e importantissima referenza: il cameo del più famoso imitatore di Donald Trump al “Saturday Night Live” risulta straordinariamente funzionale per aprire da subito una miriade di link sulla stretta attualità – tra neo-nazionalismi e neo-populismi dilaganti – che culmineranno nella sequenza finale. Ma andiamo con ordine.

Colorado Springs, inizi anni ’70. Ron è il primo poliziotto afroamericano nel dipartimento della città, l’apripista di una nuova stagione di diritti civili. Il giovane ed entusiasta detective chiede subito ai suoi superiori di essere assegnato sotto copertura: il primo incarico sarà quello di sondare gli umori dell’Unione Studentesca che organizza un atteso incontro con lo storico leader delle Black Panther Kwame Ture. Il comizio sarà contrappuntato da una nutrita serie di stacchi sul primo piano degli studenti, con dissolvenze e sovrimpressioni: Spike Lee associa l’incendiaria contro-retorica del Black Power al potere del cinema che passa per il viso (e per la deleuziana viseità) in una sequenza che universalizza quei quesiti astraendo i volti dal contesto. Kwame Ture scoperchia il dispositivo ideologico dei prodotti culturali – il discorso su Tarzan amato da bambino ma poi riconosciuto come un mezzo per propagandare la superiorità bianca –, mentre Lee continua il suo coltissimo discorso sulle forme del cinema.

I riferimenti costanti alla blaxploitation (le icone Pam Grier e Ron O’Neal balenano come testimoni di un’epoca) tendono infatti a riflettere sugli anni ‘70 come primo tentativo – a tratti fallito – di profanare il mainstream hollywoodiano con un contro-dispositvo immaginario. E non a caso Ron sarà costantemente un “attore” in incognito proprio come i suoi miti sul grande schermo: nella vita privata è innamorato di Patrice (la leader studentesca) nascondendole la sua identità di poliziotto; per il Ku Klux Klan diventa invece un improbabile sostenitore che camuffa la sua voce al telefono e poi ingaggia un body double (il collega Flip Zimmerman, interpretato da Adam Driver, poliziotto ebreo che mette in potenza il valore simbolico dell’infiltrato nell’organizzazione razzista per antonomasia) sovvertendo e ridicolizzando quell’ordine. Insomma Ron deve prima assumere la soggettività di una Black Panther e poi quella di un bianco razzista, mentre continua imperterrito a voler difendere i diritti civili senza estremismi di sorta come spiega infine a Patrice.

E allora: BlacKkKlansman cataloga nella prima mezz’ora una serie infinita di input culturali fermandosi alle soglie del KKK come trauma incappucciato e rimosso della coscienza americana. L’ironia grottesca inizia ora a innervare le situazioni, soprattutto con l’entrata in scena del gran Maestro David Duke (Topher Grace) dipinto come un personaggio da commedia demenziale anni ’00. Il “Make America Great Again!” di Donald Trump ritorna come mantra nelle sedute accentuando l’effetto meme delle immagini (Duke costretto a fotografarsi con il sorridente Ron) e l’effetto #hashtag delle battute (“America First!”), assorbendo il dibattito politico del 2018 come evidente referenza di ogni fatto, atto o inscrizione mediale che vediamo sullo schermo.

Ed eccoci arrivati alla parte finale del film con Ron e Flip che devono sventare un pericoloso attentato del Klan. Un terzo atto che bypassa la complessità della prima mezz’ora orchestrando un serrato ping pong tra la cerimonia di iniziazione del KKK (con annessa proiezione di Nascita di una nazione) e la riunione studentesca dove il vecchio Harry Belafonte racconta ai giovani afroamericani un abominevole episodio di odio razziale (il pubblico linciaggio di Jesse Washington a Waco, Texas, nel 1916). Il griffithiano montaggio alternato svela definitivamente lo scontro tra immaginari rimediato dal film: “Black Power!” vs “White Power!”.

Insomma: il cinema di Spike Lee nel nuovo millennio perde molta di quell’ambiguità che lo aveva reso grande negli anni ’80 di Fa’ la cosa giusta (1989), ma ritrova un’urgenza nella riflessione sulla twitterizzazione dei messaggi che la nostra cultura social porta con sé. Lo scioccante inserto d’archivio finale sui fatti di Charlottesville del 2017 (con il successivo e incredibilmente liquidatorio discorso in tv del Presidente Trump) scioglie il cinema nel flusso delle immagini mediali che sono ora pronte ad essere interpretate. Perché Spike Lee non nasconde mai le sue posizioni/convinzioni e interroga ancora lo spettatore proponendo una lettura frontalmente e onestamente schierata di quei fatti.

BlacKkKlansman è un film intimamente contemporaneo proprio perché crea continue sfasature temporali nella percezione e nella lettura delle immagini restando però vivo nei discorsi successivi alla visione. Un film che affascina nel vertiginoso montaggio intermediale della prima mezzora, problematizza i segni della blaxploitation nella parte centrale e poi ne semplifica pian piano i concetti con una nettezza frontale che arriva alla stretta attualità. Piaccia o meno Spike Lee sa ancora spingere il cinema nelle aule turbolente della storia chiedendo a noi spettatori un’ulteriore 25° ora di riflessione fuori la sala. Do the right thing… again.

Riferimenti bibliografici
G. Deleuze, F. Guattari, Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Castelvecchi, Roma 2006.
S. Žižek, L’epidemia dell’immaginario, Meltemi, Roma 2004.

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