The Social Network (2010)

Nel film The Social Network, David Fincher descrive Mark Zuckerberg, inventore di uno dei più influenti social network del mondo, come un cervellone supponente incapace di stabilire rapporti umani, la cui unica ambizione è affermarsi in un ambiente elitario come l’università di Harvard. Sarebbe proprio questa voglia di rivalsa a spingere Zuckerberg a ideare Facebook, in un impeto che cresce con il vertiginoso successo del sito e travolge ogni aspetto della sua esistenza. È su un piano del tutto diverso, però, che si gioca il conflitto con l’unico amico verso cui il protagonista sembra nutrire un sentimento di lealtà. Per Eduardo Saverin, cofondatore e direttore finanziario di Facebook, monetizzare significa usare la visibilità per contrattare spazi pubblicitari, seguendo una logica che fino a quell’epoca lasciava arricchire molti investitori del web. Il vero scontro qui si misura proprio sulla visione che i due hanno della loro creatura. Zuckerberg sembra intuire lo spazio particolare che il social network è in grado di ritagliarsi rispetto all’uso comune di internet: non è più il vecchio mondo – vecchio si fa per dire – della rete che hanno di fronte. Esso è definitivamente sconvolto dall’avvento di una nuova generazione di informazioni che questo nuovo uso di internet ha generato: i big data.

Siamo partiti da The Social Network perché i problemi che il film pone, in maniera chiara e plateale, sono il cuore di un volume apparso di recente che merita di essere discusso, dal momento che il suo oggetto è una questione che chiunque, in maniera più o meno consapevole, oggi si trova tra le mani sino a diventare, a ben vedere, una faccenda politica: la raccolta, la conservazione e il trasferimento di enormi quantità di dati, come questione cruciale della contemporaneità, infatti è l’argomento centro del nuovo libro di Gabriele Della Morte, Big data e protezione internazionale dei diritti umani. L’analisi di Della Morte muove da un’angolazione particolare, quella giuridica, e, nello specifico, dalla consapevolezza del ruolo determinante del cyberspazio all’interno della cornice del diritto internazionale. Un ruolo ulteriormente implementato dalla comparsa, per l’appunto, dei big data: nuova generazione di elementi integrati la cui centralità va ampiamente emergendo nel dibattito culturale in generale. Insistere sulla loro centralità, non soltanto in ambito giuridico, per quanto la legislazione internazionale sia il suo terreno privilegiato, è dunque uno dei meriti del volume di Della Morte.

Se può essere considerato scontato affermare che, a livello tecnologico, la comparsa dei big data rappresenti una vera e propria rivoluzione, non si può dire lo stesso sotto il profilo del diritto che ha, almeno in un primo momento, ignorato la questione. Il problema, però, non è se o meno il cyberspazio esiga, in virtù della sua crescente incidenza, di un nuovo regime di regole; piuttosto, e qui la cosa diventa effettivamente molto interessante, se a questa sempre maggiore influenza corrisponda un conflitto con i principi dell’ordinamento internazionale concepito per salvaguardare i diritti umani. Le origini della rete sono infatti inevitabilmente connesse all’impulso fornito dalle imprese private, che comprendono e sviluppano il potenziale commerciale dello strumento. In effetti, solo in un secondo momento gli Stati cominciano a porsi il problema della governance di internet. Tuttavia, per l’universo del web, permane l’assenza di un trattato giuridico generale e internazionale, vuoto determinato certamente dalla genesi privata dello sviluppo di un simile fenomeno (nel solco di uno sviluppo tecnologico vertiginoso), ma anche dalla natura stessa del fenomeno.

Il contesto del cyberspazio, dunque, non è direttamente normato, piuttosto è soggetto a norme che riguardano altri regimi materiali e ne subisce un’applicazione di tipo analogico o estensivo (p. 75). Un’ulteriore difficoltà di inquadramento giuridico deriva, infatti, dal doppio ambito che la rete implica: virtuale e strutturale. Se infatti la sua parte strutturale – come hardware e cavi sottomarini – può essere presa in considerazione a partire da un diritto preesistente –  diritto internazionale del mare, dello spazio, regime internazionale della telecomunicazione (p. 52) – la sua natura virtuale, non avendo elementi canonici di giurisprudenza cui agganciarsi, risulta di difficile comprensione nei termini normativi correnti. Nel frattempo, però, sempre più aziende stanno attribuendo importanza ai dati virtuali per prendere decisioni strategiche e sfruttare la capacità offerta dalla tecnologia per trasformare in valore economico e vantaggio competitivo la conoscenza. La digitalizzazione, da una parte, e il numero crescente di partner che in questo ambiente producono dati, dall’altra, alimenta, allora, la richiesta di soluzioni sempre più sofisticate per la cattura, la gestione e l’analisi delle informazioni.

Tutto ciò, evidentemente, pone una serie di questioni giuridiche impossibili da classificare entro categorie consolidate e rivela che il territorio dei big data, parte notevole della nostra vita quotidiana, è una sfida teorico-politica molto delicata cui ne va, non appaia eccessivo, la trama vera e propria delle democrazie contemporanee. È in virtù di questo sconvolgimento categoriale che Della Morte pone il concetto schmittiano di “rivoluzione spaziale globale” come categoria in grado di comprendere la portata delle aperture che questo inedito universo di tensioni sia teoriche sia pratiche sembra generare. Se la scoperta del Novus Orbus determina la ridefinizione della mappa del globo secondo una prospettiva marina e non più terrestre e a partire dagli anni ‘40 del Novecento è l’aria a ridefinire le rotte cartografiche, il cyberspazio è il nuovo ambiente di vita, «spazio non fisico ma geograficamente illimitato» (p. 29): il nuovo paradigma in grado di tracciare nuove rotte.

Nella trattazione di Della Morte l’unica eccezione al vuoto giuridico generato dalla comparsa dei big data riguarda il tema della privacy e della protezione dei diritti personali. L’approccio normativo a questo tema si rivela, però, immediatamente segnato da un’impostazione eccessivamente tradizionale e quindi incapace di decifrare le nuove prospettive che grazie all’innovazione tecnologica assumono modalità di controllo dei dati sempre più stringenti. In questo contesto, infatti, il problema non è quello di limitare la circolazione di informazioni, quanto di controllare enormi flussi di dati collocati in sterminati database. È d’altronde con la comparsa di questo tipo d’innovazione tecnologica che si assiste a un innalzamento del conflitto tra tutela dei dati personali e libera circolazione delle informazioni sul web. In questo senso è emblematico lo scandalo datagate che ha coinvolto le agenzie di intelligence americane intorno all’intercettazione e analisi dei metadati delle comunicazioni globali, utilizzati, poi, nella implementazione di programmi di sorveglianza di massa.

La principale difficoltà riscontrata da diverse organizzazioni internazionali, ONG e dagli stessi Stati, risulta quindi quella di bilanciare la privacy e la garanzia della libera circolazione delle informazioni sul web (pp. 72-73). La massiccia accumulazione di informazioni, la relativa estrazione di metadati che avviene ogni giorno sulle reti digitali globali ad opera di motori di ricerca, social network, librerie on-line, portali di e-commerce ecc., rappresentano un nuovo complesso campo di ricerca che entra in conflitto con il quadro tradizionale del diritto.

In questo ambito di problemi risultano quindi decisive le modalità, le tecniche con cui i dati vengono “generati, conservati e quindi utilizzati per orientare le scelte” (p. 141). Vi è una distanza tra la disciplina giuridica e la circolazione dei big data nel cyberspazio che non riguarda solo la mole e la velocità dei dati, ma il loro particolare statuto, la loro capacità – associati algoritmicamente, secondo interessi principalmente commerciali – d’identificare le tendenze, creare nuovi modelli di business, aumentare la produttività, minimizzare i rischi. Tali rotte di collisione riguardano la natura predittiva del fenomeno di conservazione e trasferimento di un’enorme mole di informazioni. Una logica di questo tipo implica che “un problema è calcolabile quando è risolvibile attraverso un algoritmo”. Non persone o individui, ma soltanto cifre, numeri e profili, in cui l’errore, la differenza, la scelta, non sembrano contemplabili.

Come evidenzia Della Morte una logica di questo tipo non può che introdurre nuovi meccanismi decisionali, sia in ambito pubblico sia privato e quindi anche nelle relazioni internazionali. In un breve racconto di Philip Dick, Rapporto di minoranza, la capacità dei nuovi algoritmi al servizio della polizia “sezione pre-crimine” è di, letteralmente, predire gli omicidi, facendo dei poliziotti una sorta di nuovo clero. D’altronde, in termini più strettamente filosofici, il Foucault di Sicurezza territorio, popolazione aveva indicato come caratteristica della biopolitica l’utilizzo delle scienze statistiche al fine di sviluppare la capacità di programmare il futuro oltre che di analizzare il presente.

Per ritornare dunque al problema centrale della ricerca di Della Morte, la questione cruciale sembra riformulabile in questi termini: se e come sia possibile tenere insieme questo tipo di logica predittiva con la classica funzione prescrittiva dei diritti umani (p. 174). Il “nuovo mondo” – il cyberspazio attraversato dai big data – sembra proiettarsi verso un ambito astratto, formalmente diverso da quello che definisce l’apparato pubblico. Ciò significa che le macchine algoritmiche hanno raggiunto un livello di sviluppo tale (che deriva dall’emersione di dati non riconducibili propriamente ad alcuno e da cui scaturisce un’analisi astratta ma determinante) da divenire in termini normativi un fattore decisivo che non si pone né sul piano del potere statale né su quello propriamente legislativo. Il monopolio dell’economia digitale da parte di social media, reti della distribuzione e della logistica, stanno ridisegnando i confini del nomos politico degli stati tradizionali aprendo nuovi spazi ed estendendosi in nuove dimensioni.

Per ritornare allora a Foucault, nella nuova terra del cyberspazio risuonano più vive che mai le analisi sui meccanismi di potere che sono emersi nel XVIII secolo e che danno vita alle cosiddette società disciplinari. Si potrebbe allora dire che le attuali società di controllo continuano ad affinare nuovi meccanismi di potere la cui logica sottesa sembra essere «everyone is being spied on, but no one is realy doing the spying» (p. 276).

Riferimenti bibliografici
G. Della Morte, Big data e protezione internazionale dei diritti umani, Editoriale scientifica, Napoli 2018.
P.K. Dick, Rapporto di minoranza e altri racconti, Fanucci, Roma 2010.
M. Foucault, Sicurezza, territorio, popolazione. Corso al Collège de France (1977-1978), Feltrinelli, Milano 2005.

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