
Capire cosa sia stato Silvio Berlusconi significa coglierne il suo potere di maschera. Maschera in cui si è rispecchiata ed è stata plasmata una intera nazione per quarant’anni. Ciò significa soprattutto una cosa, valida per ogni maschera: Berlusconi non ha contato mai veramente per ciò che ha fatto, ma per ciò che è stato, per il suo essere piuttosto che per il suo fare. Tutto ciò che ha fatto di imputabile e non appropriato per le buone pratiche di un uomo di governo non ha contato nulla rispetto al consenso popolare. Che ha mantenuto. Che è stato sempre alto. Il populismo che ne è derivato è stato un effetto del suo modo di essere.
Ciò che invece ha contato per la maschera di Berlusconi è stato il suo fare confermativo del suo essere. Seduzione, simpatia, spinta pulsionale verso denaro, donne, potere, hanno segnato il suo comportamento, che è stato sempre imitativo del suo essere. Berlusconi ha continuato a rifare perennemente se stesso, fino alla fine: barzellette, battute, manifesta simpatia, empatia verso l’altro. E questo anche all’interno di uno spazio pubblico e ufficiale, che così è stato radicalmente “familiarizzato”, dunque reso prossimo allo spettatore-elettore. Berlusconi è stato un affare di costume più che di politica. Ma la politica transita e i costumi restano. Ed è arrivato perfino a modellare la sua faccia sulla maschera (perennemente giovane), anche attraverso il lifting, per rendere totalmente indistinguibile la prima dalla seconda, tanto da fare immaginare una sorta di eternizzazione del suo essere. Qualcuno destinato a resistere alla morte stessa.
Ora, il fatto che la maschera abbia acquisito anche sfumature “nere”, dove ciò che si è manifestato pubblicamente e teatralmente è servito a nascondere l’immorale e l’illecito che stavano al fondo, cioè gli interessi privati, è irrilevante dal punto di vista della maschera stessa. E per molti versi l’ha consolidata. La capacità polarizzante della maschera di Berlusconi si è vista nei comportamenti della sinistra, che ha tentato di trasformare Silvio Berlusconi nel capro espiatorio di una situazione la cui criticità stava sotto gli occhi di tutti e di cui Berlusconi era semmai sintomo più che causa (la Seconda Repubblica). Intorno all’idea del “colpevole” o del “nemico” la sinistra si è unita ma facendo poca strada.
La sinistra ha provato a cambiare genere ma rimanendo nello stesso mondo, tentando di trasformare la commedia grottesca della maschera nel tragico dell’abbattimento del re (per togliere la “peste” dalla città). Operazione fallita non solo per il troppo potere, duttile e plastico, di Berlusconi, ma anche perché nell’abbraccio stretto, tipicamente italiano, di commedia e tragedia, sarebbe precipitato tutto ciò che quel gioco di “maschere” teneva (male) insieme, e cioè il Paese. La compattezza della sinistra contro Berlusconi e ciò che rappresentava, guidata dall’inflessibilità del “giudizio morale”, ha reso di fatto definitiva, totalizzante e pervasiva la maschera berlosconiana. Che al suo interno ha saputo includere anche la serietà del giudizio morale, dichiarandosi vittima di grigi e liberticidi comunisti.
L’intuizione magistrale e creativamente sorprendente ce l’ha data Nanni Moretti ne Il caimano, quando ha scelto di interpretare lui stesso (oppositore morale) Berlusconi, con l’ultima delle tre maschere. Con ciò presentendo la saldatura tra il grottesco della maschera berlusconiana, con la sua esagerazione del “vizio” (culminato nel priapismo), e il giudizio e la sanzione morale che venivano da sinistra. E qui si vede come l’opera d’arte riesca a dire ciò che il soggetto non coglie o non ha il coraggio di dirsi, cioè l’esistenza di una prossimità molto maggiore, quasi una coalescenza, tra le due maschere che si credono opposte. L’una tenuta in piedi dall’altra.
Berlusconi è la maschera che ha tenuto in sé tutto il Paese, anche la sinistra con la sua “superiorità morale”, che l’ha giudicata e condannata, incapace di immaginare altro che non fosse l’inclusione del “nemico” in se stessa, rialimentato continuamente dal ritorno del giudizio e della condanna.
Berlusconi è stato dunque per diversi decenni la cartina di tornasole di un intero Paese, incarnando una sorta di precipitato di una storia ed una antropologia tutte italiane. Che solo le maschere riescono ad incarnare. Perché nel gioco di maschere si realizza, nascondendosi, il sentimento scettico verso il mondo, che si traduce in una fissazione dell’azione: difesa a tutti i costi del proprio interesse, perseguito ad ogni livello da un lato, attacco morale ripetuto contro chi opera tale perseguimento dall’altro. La scena è satura: il “vizioso” e il “moralista” se la sono presa. Lo spettacolo è giunto fino al fondo del rito funebre.
L’Italia vista in questi decenni ha confermato, ancora una volta, di saper solo vivere quella condizione strutturalmente scettica e non libera (che Leopardi ha limpidamente messo a fuoco ben due secoli fa ne Il discorso sullo stato presente del costume degl’Italiani) che costituisce la sorgente della costruzione delle nostre maschere sociali e politiche. Berlusconi è stato il grande artefice di questo scetticismo ridente, camaleontismo ilare a cui si è contrapposta la morale seriosa e giudicante, arcigna e presunta superiore della sinistra.
In tutto questo la liquidazione di ogni desiderio di vera libertà, di costituzione di uno spazio comune di partecipazione e discussione pubblica, differenziato e non conforme, soffocato come sempre – con la benedizione della stampa – dall’emergenza: pandemia, guerra, ora “emergenza democratica”. Il tutto per fare in modo che lo spirito gregario si rinsaldi sotto il segno della paura e della privazione di vera libertà, quella che ci permetterebbe di agire in forma innovativa, che ci renderebbe attori e non meri spettatori (da destra) né giudici (da sinistra) di ciò che accade. È per questo che Berlusconi è stato un sintomo, di cui l’Italia è la malattia stessa.
È questo che i grandi film italiani recenti non hanno smesso di dirci sul nostro presente. Curarsi di questa malattia significa prendersi una libertà mai posseduta, con tutto il coraggio che questo comporta, perfino arrivare a mettere in questione le necessità della storia (le sue tragedie), ed iniziare ad immaginarla con i se: Esterno notte, Il sol dell’avvenire. Le grandi rivoluzioni – come ci ha detto mirabilmente la Arendt – sono sempre rivoluzioni per la libertà (come quella americana), per l’azione libera, per evitare la costruzione paralizzante del “nemico”, dell’“emergenza continua”, dell’alimentazione della “paura”, dell’instaurazione arcigna della “morale”, così come della pratica seduttiva nei confronti di un popolo trattato da “bambino”, “illuso”, “manipolato”. In definitiva, la rivoluzione per un’azione libera e nuova presuppone la sospensione delle maschere, l’accoglimento della contingenza felice e l’apertura fiduciosa del futuro: tutto ciò che ci rende umani.
Riferimenti bibliografici
H. Arendt, Sulla rivoluzione, Einaudi, Torino 2009.
G. Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani, Feltrinelli, Milano 2015.
Silvio Berlusconi, Milano 1936 – Milano 2023.